Re: [Hackmeeting] Comunicazione alla lista dall'assemblea di…

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Aihe: Re: [Hackmeeting] Comunicazione alla lista dall'assemblea di Hackmeeting
Ho deciso di riprendere anche io il discorso dalla comunicazione alla
lista, mi sembra una buona idea per evitare che tutto si trasformi in
uno sterile botta e risposta.

La situazione che ha portato alla decisione dell'ultima assemblea mi
pare sia emersa in tutta la sua portata soprattutto l'anno scorso in
Calabria, mentre quest'anno, fino all'assemblea finale, era rimasta un
po' in sordina.

Quello che mi colpisce è che ne parliamo come se fosse una questione
che riguarda solo la comunità di hackmeeting, un nostro problema
specifico. Invece parliamo di qualcosa che ha preso forma almeno dieci
anni fa nelle università americane e che da lì si è allargato in onde
progressive fino a investire prima le università europee e poi la
società in generale.

Perdonate la lunghezza, ma vi cito il passaggio di un libro dedicato
al tema, che secondo me è molto utile per inquadrare la questione,
"The coddling of the American mind", di Greg Lukianoff e Jonathan
Haidt, che risale al 2018:

/quote
Few Americans had ever heard of a "safe space" in an academic sense
until March of 2015, when The New York Times published an essay by
Judith Shulevitz about a safe space created by students at Brown
University. The students were preparing for an upcoming debate between
two feminist authors, Wendy McElroy and Jessica Valenti, on "rape
culture," the concept that "prevailing social attitudes have the
effect of normalizing or trivializing sexual assault and abuse.'

" Proponents of the idea, like Valenti, argue that misogyny is endemic
to American culture, and in such a world, sexual assault is considered
a lesser crime. We can all see, especially in the #MeToo era, that
sexual abuse is far too common. But does that make for a rape culture?

It seems an idea worthy of debate.

McElroy disputes the claim that America is a rape culture, and to
illustrate her argument, she contrasts the United States with
countries in which rape is endemic and tolerated. (For example, in
parts of Afghanistan, "women are married against their will, they are
murdered for men's honor, they are raped. And when they are raped they
are arrested for it, and they are shunned by their family afterward,"
she says. "Now that's a rape culture.") McElroy has firsthand
experience of sexual violence: she told the audience at Brown that she
was brutally raped as a teenager, and as an adult she was so badly
beaten by a boyfriend that it left her blind in one eye. She believes
it is untrue and unhelpful to tell American women that they live in a
rape culture.

But what if some Brown students believe that America is a rape culture?

Should McElroy be allowed to challenge their belief, or would that
challenge put them in danger? A Brown student explained to Shulevitz:
"Bringing in a speaker like that could serve to invalidate people's
experiences." It could be "damaging," she said. The logic seems to be
that some Brown students believe that America is a rape culture, and
for some of them, this belief is based in part on their own lived
experience of sexual assault. If, during the debate, McElroy were to
tell them that America is not a rape culture, she could be taken to be
saying that their personal experiences are

"invalid" as grounds for the assertion that America is a rape culture.
That could be painful to hear, but should college students interpret
emotional pain as a sign that they are in danger?

Illustrating concept creep and the expansion of "safety" to include
emotional comfort, the student quoted above, along with other Brown
students, attempted to get McElroy disinvited from the debate in order
to protect her peers from such "damage."' That effort failed, but in
response, the president of Brown, Christina Paxson, announced that she
disagreed with McElroy, and that during the debate, the college would
hold a competing talk about rape culture-without debate-so students
could hear about how America is a rape culture without being
confronted by different views.

The competing talk didn't entirely solve the problem, however. Any
student who chose to attend the main debate could still be "triggered"
by the presence of McElroy on campus and (on the assumption that
students are fragile rather than antifragile) retraumatized. So the
student quoted above worked with other Brown students to create a
"safe space" where anyone who felt triggered could recuperate and get
help. The room was equipped with cookies, coloring books, bubbles,
Play-Doh, calming music, pillows, blankets, and a video of frolicking
puppies, as well as students and staff members purportedly trained to
deal with trauma. But the threat wasn't just the reactivation of
painful personal memories; it was also the threat to students'
beliefs. One student who sought out the safe space put it this way: "I
was feeling bombarded by a lot of viewpoints that really go against my
dearly and closely held beliefs."

/endquote



A me sembra che le questioni di cui stiamo parlando in questa lista
fossero già tutte lì, nel 2015 alla Brown University: il problema di
uno spazio confortevole, la questione del triggering, cioè
dell'esposizione a confronti spiacevoli che possano provocarci disagio
più o meno marcato e, di conseguenza, il problema delle
"microaggressioni". Questa parola era emersa con più chiarezza in
Calabria. Si è un po' persa quest'anno ma mi pare in definitiva il
tema centrale. E' per evitare le microaggressioni, che generano un
"ambiente tossico", che stiamo ragionando su una moderazione e sulla
ipotesi di introdurre un "code of conduct".

Sto dicendo questo perché penso che gioverebbe alla discussione tenere
conto di quello che è successo nel mondo là fuori in questi dieci
anni, in modo da decidere consapevolmente qual è la strada che
vogliamo intraprendere.

E cosa è successo nel mondo? Alcune cose positive ed altre negative.

Tra le cose positive, una progressiva presa di coscienza nella società
di quanto sia radicato il maschilismo, del disastroso divario di
genere che c'è in tutti i settori, che si esprime e si alimenta di
pratiche di potere quotidiane e di un linguaggio sbagliato, per
esempio declinando sempre tutto al maschile. Ma anche un minimo di
consapevolezza in più del portato del colonialismo, che ancora oggi
dispiega i suoi effetti nel fatto che le condizioni di partenza -
sociali, economiche, ecc ecc - nella presunta corsa al merito sono
piuttosto diverse. Un indicatore a portata di mano e molto banale di
questo progresso è quello dei film. Oggi rivediamo cose girate venti
anni fa con un occhio molto diverso ed è ormai esperienza comune il
pensiero "questa scena non l'avrebbero fatta così" o "questo dialogo
lo avrebbero scritto diversamente". Ci accorgiamo che alcune cose sono
inaccettabili e di quanta leggerezza e superficialità consentiva
linguaggi sbagliati e stereotipi che perpetuavano dinamiche
essenzialmente violente.

Tra le negative, un clima molto più conflittuale. Un linguaggio molto
stigmatizzante verso chi viene considerato un perpetuatore di quelle
pratiche sbagliate e, simmetricamente, un diffuso timore di essere
messi all'indice. Una dinamica che ha creato le echo chambers non solo
nei social media, ma anche nella realtà: tante bolle di comunità
omogenee, che si alimentano di spinte identitarie fortissime. Perché
non esiste un solo linguaggio di genere, ne esistono tanti, e una
minore tolleranza verso altri linguaggi è sinonimo di un maggior
numero di perimetri, che inevitabilmente diventano frontiere (e poi ci
sono gli altri linguaggi, quello sull'ambiente, quello sugli animali,
ecc). Per non parlare di chi non adotta - per scelta, per provenienza,
per distanza - quei linguaggi abbastanza o abbastanza velocemente. Con
le cronache internazionali piene di professori sospesi dalle
università perché hanno detto una parola considerata di troppo, per un
lavoro per esempio consegnato in ritardo o persino a volte per un
incoraggiamento. E le richieste degli studenti di indicare come
"triggering" questo o quel corso. E gli atenei che, a chi fa domanda
di ingresso, fanno una quindicina di domande sulla loro vita sessuale.

Allora, che fare? Io vorrei fare un paio di osservazioni su alcuni meccanismi.

La prima riguarda la soggettivizzazione. Le accuse di violenza verbale
sono quasi sempre basate sul "come si è sentita" la persona che l'ha
subita, non su una metrica in qualche modo misurabile. Questo è
scivoloso e assomiglia pericolosamente a un vecchio adagio che gira
nelle redazioni: "Cos'è una notizia? E' ciò che il caporedattore
decide essere una notizia". Il risultato di quel modo di pensare è che
i giornali spesso si sentono svincolati dalla realtà. Un fatto non è
un fatto, è un qualcosa di soggettivo ed esiste solo nella percezione
del giornalista, nella sua lettura del mondo. Ecco, io temo che quel
modo di pensare si sia pericolosamente diffondendo. Non a caso, si è
diffuso il termine "microaggressione": consente di catturare qualsiasi
espressione che faccia sentire a disagio un'altra persona, sfuggendo
all'esigenza di una qualche misurabilità oggettiva. Questo ha due
effetti: provoca una accelerazione verso definizioni sempre più ampie
e arbitrarie di violenza. E cancella ogni equilibrio nel giudizio. Non
ci si può difendere in alcun modo, basta l'accusa. Se non conta quello
che una persona fisicamente dice o fa ma solo come "si sente" chi la
vede o la sente, si precipita nel giacobinismo. Di più, mentre la
percezione della presunta vittima conta moltissimo, le intenzioni di
quella che presuntamente aggredisce invece non contano affatto. E' una
impostazione squilibrata, che inesorabilmente moltiplica il numero di
vittime e di aggressor*, e ciascuno può facilemente finire di volta in
volta in un ruolo o nell'altro.

Un altro meccanismo è quello della tribalizzazione. Si creano tanti
"noi" e "loro", e ciascun "noi" spinge verso una progressiva
omogenizzazione del linguaggio al suo interno, espellendo
progressivamente chi manifesta differenze o è meno compatibile.
Diventa tutto un po' manicheo, i buoni contro i cattivi. Questo è
fisiologico, è nella natura stessa dei gruppi. E' quello che qui
dentro viene definito segnale/rumore. Ma ogni comunicazione ha una
certa distribuzione statistica. La domanda qui è: quanto deve essere
stretta la campana?

Terzo: forma e sostanza. Il motivo per cui mi appassionano tanto i
modelli linguistici è che sono essenzialmente dei traduttori: nascono
per convertire una sequenza da un dominio linguistico a un altro, ma
poi si è scoperto che sono in grado di convertire dal dominio testuale
a quello visuale e persino dal dominio delle domande a quello delle
risposte. Il dominio di partenza contiene un nucleo di informazione. I
modelli - attraverso una serie di trasformazioni geometriche - portano
quella stessa informazione in un codominio. L'enfasi sul linguaggio è
giusta. In alcuni casi, e sopra una certa soglia, fa perdere di vista
l'informazione sottostante e la possibilità che la stessa cosa possa
essere detta in modi diversi.

Quarto: generazione. E' inutile nascondersi, questa questione è
prevalentemente generazionale (ovviamente con eccezioni). Chi ha una
certa età pensa essenzialmente che un po' di conflittualità dentro il
gruppo sia sana, un po' come giocare in giardino rafforza il sistema
immunitario. I più giovani pensano che sia un'idea sbagliata: "Perché
devo espormi a un disagio non necessario? Perché non possiamo
costruire una società più armoniosa, in cui quando uno apre bocca non
venga insultato?". Sono due posizioni legittime. E d'altra parte, ogni
generazione deve seppellire la precedente. E' anche giusto.

Conclusione: la diversità è una condizione indispensabile del
confronto e della crescita, ma ci sono tanti modi per costruirla.
Troviamo un modo che tenga conto di tutto.



Il giorno lun 17 giu 2024 alle ore 10:32 assembleahm24--- via
Hackmeeting <hackmeeting@???> ha scritto:
>
> L'assemblea di Hackmeeting ad HM 2024, con consensi e dubbi ma senza veti, ha deciso che, siccome sentiamo che questa lista non rispecchia i principi della comunità Hackmeeting presenti sul sito [1], tutte le persone iscritte verranno disiscritte il 31-07-24.
>
> Chi vorrà ancora partecipare alla lista avrà la premura di iscriversi di nuovo a questo link [2].
>
> Vorremmo costruire un percorso per rendere più accogliente questo spazio di dialogo, considerando una moderazione della quale decideremo i dettagli nel prossimo Hackmeeting.
>
> Ciao,
> l'assemblea di Hackmeeting
>
> [1] https://hackmeeting.org/hackit24/info.html
> [2] https://www.autistici.org/mailman/listinfo/hackmeeting
> _______________________________________________
> Hackmeeting mailing list
> Hackmeeting@???
> https://www.autistici.org/mailman/listinfo/hackmeeting




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