Autore: ca_favale_mlist Data: To: Mailing List del circolo, ca_favale_mlist--- via Ca_Favale_mlist Oggetto: [inquieto] Scritto da Finimondo
È possibile la critica sociale dopo l'emergenza pandemica?
Parafrasando una celebre quanto provocatoria riflessione formulata da
un intellettuale tedesco all'indomani della seconda guerra mondiale,
vien voglia di chiedersi se scrivere un testo di critica sociale dopo
il Covid 19 non sia un atto di barbarie che avvelena la consapevolezza
stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere testi di critica
sociale. Con ciò non si intendono equiparare i campi di stermino
nazisti agli odierni reparti ospedalieri democratici, semmai
interrogarsi se l'inimmaginabile enormità di quanto sta avvenendo non
renda patetica e superflua ogni ulteriore analisi della realtà. Se in
passato lo Sterminio burocratico di milioni di ebrei ha ucciso la
poesia, oggi la Servitù Volontaria sanitaria di miliardi di esseri
umani non ha forse ucciso la critica, rendendo anch'essa in-scrivibile,
il-leggibile, im-praticabile? Se lo Sterminio ha messo fine alla
ricerca della bellezza, la Servitù Volontaria non sta mettendo fine
alla ricerca di significato? Con questa premessa, che senso ha
ostinarsi a diffondere un qualsivoglia pensiero critico in una società
che — trasversalmente, dall'alto in basso — cerca in tutti i modi di
essere spensierata, ovvero di non dover pensare a nulla, non essendo
disponibile ad ascoltare e ricevere alcuna critica? Chi potrebbe mai
interessarsi a questo pensiero altro, chi trascorre le proprie giornate
a «chattare» nei social network? Chi liquida come negazionismo o
ideologia qualsiasi messa in discussione delle (altrui) convinzioni
introiettate come proprie? Chi si preoccupa ossessivamente di indossare
correttamente la mascherina, di garantire il distanziamento sociale, di
venire al più presto vaccinato? O chi, animato da pruriginosi intenti
radicali, organizza qualche «chiacchierata» sul conto di qualche
«narrazione»? Ci sembra che quanto sta accadendo da quasi un anno in
tutto il mondo — le scomposte reazioni alla diffusione di un virus poco
più che banale, fra stati di emergenza che negano ogni libertà e
psicosi di massa che scatenano qualsiasi brutalità — abbia fatto piazza
pulita di ogni benché minima illusione necessaria sulle residue
capacità della critica di contrastare lo sgretolamento del senso. Dopo
una così formidabile, simultanea e planetaria dimostrazione di
annichilimento delle intelligenze, chi si sente di scommettere ancora
sulla possibilità di un risveglio delle coscienze? Quanta spavalda
schizofrenia è necessaria per sorvolare sull'ovvietà che, per
risvegliarsi, la coscienza dovrebbe comunque esistere, palesarsi,
essere viva, seppur addormentata e sepolta sotto uno strato di
automatismi? Si tratta di un’ipotesi impossibile da prendere in
considerazione oggi, dopo aver visto milioni (se non miliardi) di
persone invocare maggior coercizione, giustificare ogni controllo,
partecipare alla delazione, senza il minimo scrupolo, con rabbia e
determinazione. Facciamo un paio di piccoli esempi. I mass media sono
riusciti, senza sollevare ondate di ilarità, a dare notizia della
produzione di un vaccino contro il coronavirus la cui efficacia,
dichiarata al 94%, arriverebbe al 100% nei casi più gravi. Ora, come
dovrebbe essere universalmente risaputo, un vaccino va somministrato a
persone sane per evitare che si ammalino e quindi non ha alcun senso
darlo ai pazienti che versano in gravi condizioni. Se invece non si
tratta di un vaccino, bensì di un intruglio terapeutico, allora sì che
andrebbe somministrato a chi è già ammalato — ma in questo caso non
avrebbe senso spacciarlo per vaccino, né soprattutto farlo assumere a
chi gode di buona salute. Davanti alla minaccia pandemica pare quindi
che la scienza medica abbia superato Gesù Cristo nell'arte di compiere
miracoli: non solo ha creato un vaccino contro un virus misterioso in
soli 7 mesi, ma per di più è efficace sia come vaccino preventivo che
come farmaco curativo! Quanto ai suoi effetti collaterali, è di non
molti giorni fa la notizia che in Norvegia si sono registrati decine di
morti fra coloro a cui era stato somministrato. Preoccupate che ciò
avrebbe fomentato i dubbi e i timori di gran parte della popolazione
(influenzata dall'ignorante propaganda dei cattivi no-vax, anziché
dall'informazione oggettiva dei buoni scienziati), le autorità
sanitarie norvegesi hanno fornito questa spiegazione: «per pazienti con
più grave fragilità, anche gli effetti collaterali relativamente lievi
dei vaccini possono avere gravi conseguenze». E ciò può essere
senz'altro vero, tanto quanto per pazienti con più grave fragilità,
anche gli effetti relativamente lievi di un virus possono avere gravi
conseguenze. Senza accorgersene, le autorità sanitarie norvegesi hanno
ripreso la stessa argomentazione sostenuta da quasi un anno a questa
parte da chi non prova il minimo senso di panico ad uscire di casa,
respirare, sfiorare e toccare gli altri. Il vaso trabocca perché è
colmo fino all'orlo, è assurdo demonizzare l’ultima goccia. Solo
un'umanità che non sa né ricorda più se sia in guerra con l'Eurasia o
con l'Oceania, può terrorizzarsi se il colpo di grazia ad
ultraottantenni ammalati lo dà un virus e tranquillizzarsi se a darlo è
un vaccino. Eppure, è proprio il cosiddetto vaccino — e non il virus —
a venire intenzionalmente somministrato. Eccolo qui, il nostro
tormento. Cosa resta da dire a chi è palesemente, caparbiamente,
furiosamente convinto che due più due fa cinque? Oltre settant'anni fa
Orwell scriveva che per il potere «da parte dei proletari, in
particolare, non vi è nulla da temere: abbandonati a se stessi,
continueranno — generazione dopo generazione, secolo dopo secolo — a
lavorare, generare e morire, privi non solo di qualsiasi impulso alla
ribellione, ma anche della capacità di capire che il mondo potrebbe
anche essere diverso da quello che è». E ciò non riguarda solo i bravi
cittadini, quelli per bene, quelli più usi ad acconsentir tacendo. Come
ammoniva Primo Levi, «un regime disumano diffonde ed estende la sua
disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente in basso...
corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori». Una società dal
funzionamento totalitario, come quella in cui viviamo, ottiene il
medesimo effetto. Come stupirsi e indignarsi delle telefonate delatorie
di onesti cittadini alla vista di qualcuno che si bacia per strada, o
dei Trattamenti Sanitari Obbligatori inflitti a chi invita la gente ad
uscire da casa, o della radiazione di medici dubbiosi sulla
vaccinazione, quando ci sono comunisti antistalinisti che ammirano le
drastiche misure anti-pandemia prese da governi orientali, anarchici
anti-tecnologici che invitano a battersi per la vaccinazione gratuita,
anarco-comunisti che si vantano di disinfettare il megafono da passare
di mano in mano, critici radicali entusiasti della capacità
auto-organizzativa di fare da tappabuchi alle mancanze statali,
sindacalisti rivoluzionari che garantiscono il distanziamento sociale,
intellettuali moltitudinari che rivendicano il comunismo dei vaccini,
militanti insurrezionalisti che condividono le preoccupazioni sanitarie
istituzionali pur di avere qualcosa da narrare agli operai in
sciopero... Sommersi dalla nausea, ci ritroviamo di nuovo tentati a
parafrasare Adorno e sostenere che l'emergenza pandemica ha dimostrato
inconfutabilmente il fallimento della cultura e che tutta la cultura
dopo il Covid 19, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura.
Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio
senza resistenza, è diventata completamente ideologia. Chi parla per la
conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa
collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura favorisce
immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura.
Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza
soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità
oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna. Intrappolati
all'interno di questo circolo vizioso, non si intravedono vie di fuga.
Il processo di disincanto della vita non ha raggiunto il suo apice
nelle atrocità più crudeli commesse nel secolo scorso. La porta resta
sempre aperta all'oscurantismo, come testimoniano gli elicotteri
sollevati per braccare chi si prende la tintarella in spiaggia, i
linciaggi di chi esce di casa per fare ginnastica o portare a spasso il
cane, per non parlare del silenzio sulle morti avvenute durante le
proteste scoppiate in carcere, proteste — giova ricordarlo — nate per
le restrizioni subite e poi recuperate e trasformate in richieste di
maggiore tutela sanitaria. Davanti a questa realtà, terrificante e
sotto gli occhi di tutti, quali parole restano? Dovremmo commentare
l’assalto fallito a Capitol Hill per meglio tacere sull’assalto
vittorioso ai nostri desideri? Proprio quando si appresta a compiere il
suo decimo ed ultimo anno di vita, Finimondo si accorge di non aver
ormai più nulla da dire. O meglio, di non voler più dire al nulla. Ed
il problema, contrariamente a quanto pensano alcuni, non è lo strumento
tecnico. Le parole non diventano in sé stolte non appena vengono
proiettate su uno schermo, né in sé intelligenti non appena vengono
vergate su carta. È però vero che la lettura su carta stampata richiede
uno sforzo che allontana automaticamente chi è abituato a lanciare
facili cinguettii, operando così una selezione necessaria. È quindi
alla pubblicazione di libri che intendiamo in futuro dedicarci assai
più che a siti in grado solo di fare schiuma alla superficie degli
avvenimenti. Finimondo è quindi destinato a spegnersi progressivamente,
scomparendo dalla rete nel prossimo periodo. Probabilmente Adorno non
avrebbe mai scritto nel 1949 quelle parole sulla poesia se avesse
conosciuto Bożena Janina Zdunek, una giovane polacca combattente nella
resistenza clandestina, catturata dalla Gestapo e liberata da Auschwitz
nel 1945. Quando uscì dal campo di sterminio, aveva in tasca un
quadernetto di 32 pagine che le detenute si passavano di mano in mano e
che lei avrebbe conservato per tutta la vita. Bożena Janina Zdunek è
morta nel 2015 e suo figlio ha di recente donato quel quaderno al Museo
di Auschwitz. Al suo interno ci sono i pensieri e le poesie che le
prigioniere ebree scrivevano di nascosto, in quotidiana attesa della
morte. Non dopo o prima di Auschwitz, ma durante e dentro Auschwitz.
Atto di barbarie? No, atto di resistenza davanti all'indicibile — la
vita, nonostante tutto! Ma quel quadernetto così prezioso le
prigioniere di Auschwitz erano costrette a nasconderlo, sottraendolo
alle perquisizioni, ai controlli, agli sguardi degli aguzzini. Era
questa la condizione preliminare per continuare a scrivere poesie,
perfino dentro un campo di sterminio. Che si tratti di un'esigenza
valida anche oggi per la critica sociale? Che il pensiero critico,
quale che sia, non possa che essere confidenziale? Che ruminare
rancorosamente sulla propria marginalità, tipico assillo di politicanti
in erba, sia solo l'effetto di un'inconfessabile vanità? Viviamo in
territorio nemico, davvero non ce ne siamo accorti? Smettiamola con le
allucinazioni consolatorie (il popolo, le masse, il proletariato, il
movimento…) e traiamo le dovute conseguenze. Ad esempio, come diceva il
Divino Marchese, che ci rivolgiamo solo a coloro che sono capaci di
capirci. O, sull’altro versante, che Caracremada sapeva che fare assai
meglio di Lenin o Malatesta.