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Di Pietro Adamo
L'«Altra America» tra mito e politica
La locuzione «Altra America» è stata resa famosa in Italia da Fernanda
Pivano, che nel 1971 ha curato una gigantesca antologia di testi relativi al
periodo tra i tardi anni Cinquanta e i tardi anni Sessanta. Con tale
espressione si intende, in genere, la cultura politica alternativa del
periodo, ovvero i movimento per i diritti civili, la contro-cultura e l'
etica hippy, la resistenza alla guerra, la nascita dei gruppi di liberazione
dei neri, delle donne, degli omosessuali. Insomma, quei fenomeni di
resistenza al potere costituito che hanno caratterizzato i turbolenti
Sixties.
Vorrei qui proporre una riflessione sulla natura di queste esperienze
e sulla loro ri-cezione in Europa, soprattutto in Italia, mettendo in luce
come tale evento possa esser letto come un'occasione mancata per l'Europa
stessa. Mi sembra, cioè, che le vicende americane abbiano indicato possibili
linee d'azione, dense di suggerimenti, che la si-nistra europea ha
clamorosamente mancato di cogliere.
1. L'ambiguità del '68
Nel 1988, anno di celebrazioni del ventennale del '68, ho avuto la
ventura di assi-stere a una trasmissione televisiva curata da Paolo Frajese,
giornalista di cultura cat-tolica, molto vicino agli ambienti governativi
della Democrazia Cristiana. Nell'occasione Frajese costruì tre ore di
dibattito, chiamando a testimoniare molti protagonisti del '68, in genere
«pentiti». Il confronto più significativo della serata fu però quello con
Daniel Cohn-Bendit, ex leader del maggio, capo storico del '68, tut-tora
personaggio di spicco nella sinistra francese e tedesca. Alla reiterata
accusa ri-volta dal conduttore al '68 - in sostanza, aver perso tutte le sue
battaglie - Cohn-Bendit rispose con una spiazzante rivendicazione: al
contrario, il '68 aveva vinto su quasi tutta la linea!
I due partivano da differenti concettualizzazione dell'evento. Frajese
si riferiva alla precisa progettualità politica che aveva preso forma nel '
68, fondata sul peculiare in-treccio tra movimento studentesco e classe
operaia. Una progettualità che tra la fine degli anni Sessanta e la fine
degli anni Settanta si è trasformata in impeto rivoluzio-nario e ha
modellato una nutrita serie di organizzazioni dell'ultrasinistra (come si
di-ceva all'epoca). Al contrario, il suo interlocutore francese si riferiva
all'ethos, al co-stume, ai modi di vita, cioè, più in generale, allo stile
di comportamento degli euro-pei. Dal punto di vista del sesso, della
famiglia, della fede religiosa, della partecipa-zione politica, i modelli di
ricezione e di elaborazione, sotto l'impatto del '68, muta-no con
prepotenza, passando da forme patriarcali e autoritarie a forme che
sottolinea-no maggiormente l'autonomia e la libertà dei singoli nei
confronti degli enti in cui era tradizionalmente situato il potere
decisionale: lo Stato, la Chiesa, la Politica. In questa seconda prospettiva
il '68 è interpretato una potentissima cesura storica sul piano dell'
immaginario.
Di fatto, il termine «'68» è denso di ambiguità. In genere viene
collegato organi-camente a quella grande trasformazione delle coscienze e
degli stili di vita che si è af-fermata negli anni Sessanta. D'altro canto,
l'annus mirabile è stato soprattutto un potente momento di mobilitazione
pubblica, con ribellioni studentesche nelle mag-giori città europee, nascita
di nuovi soggetti politici, creazione di una inedita coscien-za collettiva.
Sino a che punto tale serie di eventi - che, senza ombra di dubbio,
co-stituisce appunto il '68 - può essere connessa con trasformazioni e
mutazioni profon-de nell'immaginario sociale e politico? L'interpretazione a
mio parere più convin-cente del rapporto tra la «grande trasformazione»
degli anni Sessanta e l'«anno mira-bile» è che il secondo ha funzionato da
amplificatore e da esplicatore della prima: in altri termini, gli eventi del
'68 hanno costituito, per certi versi (ma non tutti), una delle modalità di
diffusione di un più generale ethos antigerarchico e antiautoritario che
aveva preso forma negli anni precedenti e che aveva trovato proprio nella
contro-cultura (in particolare in quella americana) il terreno di crescita
più fertile. Da questo punto di vista il '68 ha avuto una funzione
importante per quanto riguarda l'accettazione di una serie di valori
profondamente imbevuto di uno «spirito nuovo» (il termine è dello scrittore
americano Paul Goodman) rispetto al passato. Ma, per comprendere fino in
fondo la natura del «sessantottismo», è necessario rendersi conto di come,
nel contempo, il fenomeno abbia agito anche come blocco, come reazione nei
confronti di questo ethos, di questo «nuovo spirito»: da un lato ne ha
diffuso le istanze, ma dall'altro le ha incanalate in strutture di politica
militante e in forme di organizzazione del pensiero e dell'esperienza che ne
hanno smorzato l'impeto e l'impatto.
Partiamo dalla cosiddetta «controcultura». E' ormai un decennio che si
studia il fe-nomeno con ambizioni quasi «scientifiche». Sono state prodotte
opere storiche che, in qualche modo, soprattutto in America, cercano di
lasciarsi alle spalle i coinvolgimenti personali e di adottare procedimenti,
criteri di giudizio e valutazioni più distaccate. Insomma si comincia a fare
opera di ricerca storica più che di polemica politico-culturale.
Soffermiamoci sugli elementi essenziali che definiscono la controcultura:
liberazione sessuale, psichedelia e antipolitica.
2. Liberazione sessuale
Gli storici cominciano a concordare sul fatto che gli anni Sessanta
abbiano rappre-sentato un importante punto di svolta nel modo di considerare
i costumi sessuali, il ruolo della famiglia, il matrimonio, la procreazione,
i rapporto tra i sessi. Per alcuni il decennio, come complesso di
riflessioni e di sperimentazioni, rappresenta anzi il fe-nomeno
rivoluzionario più completo del secolo XX.
Che cosa proponevano, in sostanza, i teorici della liberazione
sessuale? In che modo ciò si riflesse nell'esperienza degli hippy? Il libero
amore, le comuni, la coppia aperta e via dicendo sono stati semplicemente un
fenomeno passeggero, quasi mo-daiolo, oppure sono stati il portato di una
più profonda presa di posizione nei con-fronti della tradizionale etica
gerarchica e patriarcale dell'Occidente?
Tra i primi a focalizzare l'attenzione sull'argomento troviamo un noto
filosofo co-me Herbert Marcuse. Nel 1955, nel suo Eros e civiltà, si
esprimeva nel seguente modo: «Liberando gli istinti, liberando la nostra
natura più vera, noi possiamo elimi-nare nel contempo il dominio, l'
autorità. Ricreando un sano rapporto tra noi e la no-stra sessualità,
possiamo giungere a ridisegnare i rapporti tra le persone». Si tratta,
prosegue Marcuse, «più di un espandersi che di un'esplosione della libido.
Di un espandersi sui rapporti privati, nella società, che getta un ponte
sull'abisso creato tra questi da un principio repressivo». In altri termini,
per Marcuse rivoluzione sessuale vuol dire sconfitta di uno specifico
principio repressivo. Lungo questa linea di muo-veranno i teorici degli anni
'60 - Norman Brown, Weiland Young, Paul Goodman - che diffonderanno e in
parte volgarizzeranno questo tipo di argomentazione.
Oggi scorgiamo più facilmente la stretta correlazione tra l'idea di
rivoluzionare i rapporti tra i sessi e l'idea di sconfiggere il sistema, il
potere costituito. La contrappo-sizione tra il mondo dionisiaco dei piaceri
provati e vissuti e il mondo apollineo della repressione e del controllo è
un riflesso della volontà di mettere in discussione le no-zioni consolidate
sul lavoro, la famiglia, il tempo libero. Liberazione dei corpi vuol dire
eliminazione del controllo sui corpi stessi: è in questo modo che si leggono
le apologie del libero amore del periodo. Senza del resto mitizzarle a
sproposito: altri pensatori - penso in particolare a Michel Foucault - ci
hanno invece insegnato che certe strategie di liberazione - e io credo che
la riflessione di Foucault muovesse pro-prio dalle contraddizioni e dai nodi
irrisolti della concezione della rivoluzione ses-suale proposta nei
Sixties - siano un incentivo per l'aumento e non per la diminuzione del
controllo.
Resta comunque il fatto che la prospettiva di questi utopisti del free
love è ispirata da una profonda esigenza di liberazione. Norman Brown ne
presenta i risvolti filoso-fici nel suo stile inimitabile: «L'obbiettività
civilizzata è coscienza che non partecipa; è coscienza come separazione,
come dualismo, distanza, ripetizione. [Invece .] La coscienza simbolica, il
senso erotico della realtà, è un ritorno al principio dall'antica sapienza
animistica, la partecipazione mistica; ora libera per la prima volta; non
reli-gione, ma poesia». L'antipsichiatra David Cooper sintetizza al meglio
questa istanza di liberazione associata alla rivoluzione sessuale con l'
affermazione che la sessualità orgasmica è sessualità rivoluzionaria: il
momento dell'estasi, nell'uscita della mente dal sistema di tempo repressivo
(termine chiave), è un momento esplicitamente rivo-luzionario. È quindi
evidente che l'impostazione della lettura della rivoluzione è
di-chiaratamente personalistica e individualistica e si stacca con decisione
dalla conce-zione usuale, positivistica e post-positivistica, della
rivoluzione come evento colletti-vo che «spezza» la storia sostituendo una
forma di potere all'altra. Il tempo della sto-ria qui si frattura con l'
evento individuale per eccellenza, che non può mai farsi ve-ramente
collettivo (se non nelle forme traslate della condivisione a oltranza: i più
au-daci rivoluzionari del periodo penseranno infatti alla rivoluzione come
un ininterrotta catena orgasmica che dovrebbe legare insieme l'umanità
intera). Con la pratica orga-smica rivoluzionaria, il singolo abbatte il
sistema repressivo nel quale egli stesso è preso, mettendo in atto la sua
personale, individualistica, rivoluzione.
3. Psichedelia
Per quanto strano possa sembrare, l'istanza di liberazione individuale
che abbiamo visto essere strettamente associata alla tesi della rivoluzione
sessuale contraddistingue anche il tema della droga, da cui emerge una
progettualità rivoluzionaria analoga, ba-sata cioè sulla connessione tra
pratica liberatoria e autonomia del singolo.
La storia della diffusione dell'LSD nella società americana è poco
raccontata e po-co nota. L'LSD iniziò ad essere sperimentato nei laboratori
della CIA. Poi, nel corso degli anni Cinquanta, cominciò a diffondersi nelle
università; dalle università passò negli istituti di sperimentazione, e da
qui filtrò infine nel tessuto sociale più vasto, fi-nendo con il
configurarsi come uso sociale collettivo verso la fine degli anni Sessan-ta.
Allen Ginsberg provò l'LSD nel 1959. Fu portato nei laboratori di Palo
Alto da Gregory Bateson e raccontò la sua esperienza in modo molto convinto:
«È stata una cosa stupefacente. Mi sono sdraiato ascoltando musica e sono
entrato in una sorta di trance [.] e in una fantasia molto simile al mondo
di Kubla Khan di Coleridge. Ho avuto la visione di quella parte della mia
coscienza che sembrava essere permanente e trascendente e identica all'
origine dell'universo - una sorta di identità comune con il tutto - ma una
visione chiara e coerente. Anche immagini piuttosto belle, come di dei indù
che ballavano per loro stessi. Questa droga sembra produrre automaticamente
un'esperienza mistica. La scienza sta diventando molto hip». Insomma, una
relazione estremamente entusiastica, sentimento condiviso da molti tra
questi primi sperimen-tatori, che appartengono alle elites intellettuali ed
economiche del paese. All'inizio degli anni Sessanta l'LSD si diffonde
quindi su scala nazionale, soprattutto all'interno degli istituti di
ricerca. Qui entra in gioco il personaggio chiave per com-prendere la
strutturazione intellettuale del tema della rivoluzione psichedelica: il
pro-fessor Timothy Leary.
Quest'ultimo prova l'LSD. Si entusiasma e concepisce un progetto molto
simile a quello dei teorici della liberazione sessuale: un uso controllato e
mirato dell'LSD su scala nazionale può contribuire ad abbattere il «sistema»
repressivo. Comincia così una propaganda intensa. L'LSD non è difficile da
produrre: già nel '63-'64 l'uso di sintetizzarla a casa propria - per
esempio, nella vasca da bagno - si stava diffonden-do. E nel 1965 sembra
cominciare a verificarsi ciò in cui aveva sperato Leary, ovvero una
distribuzione dell'LSD a livello nazionale concentrata sui giovani.
Tale idea può sembrare oggi quasi criminale, ma nel periodo l'LSD non
era ancora collegato, né nell'immaginario collettivo né nelle pratiche delle
grandi organizzazio-ne mafiose, con un progetto di sfruttamento economico
delle sostanze psicotrope stesse. Ben altra la prospettiva di Leary: «Il
pericolo dell'LSD non è fisico o fisiolo-gico, ma sociopolitico. Non
sbagliatevi: l'effetto delle droghe che espandono la co-scienza sarà quello
di trasformare i nostri concetti di natura umana, potenzialità uma-na ed
esistenza. Il gioco, signori e signore, sta per cambiare: l'uomo sta per
mettersi ad usare la meravigliosa rete elettrica che si ritrova nel cranio.
Gli attuali establish-ment locali faranno meglio a prepararsi al
cambiamento». Il progetto era abbastanza semplice: l'uso dell'LSD avrebbe
scardinato le consuetudini intellettuali, gli usi so-ciali e gli stili di
vita consolidati. Avrebbe insegnato ai giovani ad usare in modo creativo il
proprio corpo: in sostanza, li avrebbe liberati da quel sistema di valori
re-pressivo e mortificante che pervadeva la società intera, e che era
sostenuto in parti-colare dalle autorità costituite (i powers that be,
secondo la locuzione dell'epoca). Da questo punto di vista il sesso e la
droga sembravano mettere in mostra, secondo i teo-rici americani, le stesse
potenzialità di liberazione, che passavano necessariamente non per un
momento collettivo, ma per la dimensione peculiarmente individuale, per un
processo di autotrasformazione che solo in un secondo momento assumeva
valen-za collettiva e sociale. E gli eventi del 1965/67, in cui il consumo
delle sostanze allu-cinogene (non solo l'LSD ma molte sue «sorelle») diventa
appunto fenomeno collet-tivo, quasi fenomeno comunitario, trovando un
fertile terreno di crescita nella cultura giovanile, nelle comuni, nei
gruppi di hippies, eccetera, sembrarono confermare que-sto tipo di ipotesi.
Nel corso del '66 e del '67 sono i grandi raduni musicali a diventa-re le
palestre della sperimentazione in grande stile di sostanze di tal genere.
Inoltre, la celebrazione delle potenzialità liberatorie delle droghe
psichedeliche trova altre riso-nanze. La carica eversiva dell'LSD sta
proprio nella valorizzazione di un diverso modo di concepire l'esperienza
conoscitiva, quell'esperienza che, nella sua radicale separazione tra
soggetto conoscente e oggetto conosciuto, è alla base stessa della
tra-dizione scientifica dell'Occidente, da Cartesio in avanti. Da qui l'
enfasi tutta episte-mologica, da parte dei sostenitori della rivoluzione
psichedelica, sull'apporto creativo e positivo delle filosofie orientali,
che rappresentano di fatto un approccio alternativo alla questione della
conoscenza. Il tema è molto sfruttato all'epoca, e spiega il fascino di
santoni della controcultura come Alan Watts e Gary Snyder. Inoltre, è
proprio a partire da tale esigenza - ripensare l'Occidente a partire da una
differente valutazione del processo conoscitivo in una prospettiva
«rivoluzionaria» - che alcuni cominciano a concepire in modo nuovo la stessa
impresa scientifica: è il caso del filosofo della scienza Paul Feyerabend,
autore di una affascinante rilettura del nodo scienza-società che valorizza
le istanze epistemologiche che emergono dalla concezione leariana de-gli
effetti socio-politici dele droghe psichedeliche.
Tuttavia, così come alcuni, nell'ambito della stessa controcultura,
insistono nel sottolineare che il programma della sexual revolution non è
solo banalmente utopisti-co, ma nasconde al fondo una logica maschilistica e
autoritaria, altri colgono sin dagli inizi le ambiguità della rivoluzione
psichedelica, soprattutto quando pretende di allar-gare le esperienze delle
elites - colte, intellettualmente preparate, in grado di affron-tare l'LSD
in un ambiente controllato da medici ed esperti - al popolo giovanile,
de-cisamente privo di tali protezioni. Già a metà degli anni Cinquanta la
scrittrice Anais Nin solleva il problema in questi termini, ma il progetto
di Leary - diffondere l'LSD su scala nazionale negli Stati Uniti - chiama
direttamente in causa la possibilità e la concepibilità di una «rivoluzione»
siffatta. Secondo Theodore Roszak, autore nel 1969 di uno dei primi libri
seri sulla controcultura, che è contemporaneamente una celebrazione delle
sue possibilità e una riflessione critica su alcuna sue tendenze, «sia
Huxley sia Watts hanno usato l'analogia tra l'esperienza della droga e certi
strumenti esplorativi come il microscopio. Di conseguenza, gli allucinogeni
avrebbero dovuto funzionare come una lente, attraverso cui studiare nebulosi
strati della consapevolez-za. Ma un microscopio nelle mani di un bambino, o
in quelle del custode di un labo-ratorio, diventa un giocattolo che non
produce null'altro se non una specie di fascina-zione barbara e
superficiale. Forse l'esperienza della droga produce frutti significativi
quando è radicata nel suolo di una mente matura e sofisticata, ma tale
esperienza è stata messa tutt'ad un tratto a disposizione di generazioni di
giovani che sono pateti-camente aculturali» (The Making of a
Counterculture). Innaffiare di LSD giovani to-talmente impreparati sia dal
punto di vista culturale sia da quello medico avrebbe prodotto effetti
devastanti. Anche se le accuse di Roszak e degli altri critici suonano un po
' ingiuste se rivolte a Leary, che aveva insistito molto sulla necessità di
prepara-re i giovani all'LSD (sino al punto di invocare, come cornice
socio-economica neces-saria a tale esperienza, un ritorno all'organizzazione
tribale e all'impostazione scia-manica della psichedelia), la
commercializzazione e la mondializzazione delle droghe leggere e pesanti
sono in sostanza frutto - certo non inteso - dell'intensa campagna
propagandistica degli anni Sessanta.
4. Antipolitica
Possiamo ora chiederci quali sono i presupposti storico-culturali di
quell'istanza personalistica e individualistica che abbiamo visto ispirare
la visione dei teorici del rivolgimento sessuale e quella degli alfieri
della rivolta psichedelica, in uno sforzo di riconcettualizzare il senso
della «rivoluzione» stessa. La seguente è una risposta pos-sibile: «Abbiamo
un preciso tipo di consapevolezza che è in grado di mutare e di-struggere lo
stato corporato senza violenza, senza impadronirsi del potere politico,
senza rovesciare un qualche gruppo esistente. La nuova generazione,
sperimentando con l'azione a livello della consapevolezza, ha mostrato la
strada verso il solo metodo di cambiamento che funzionerà nella società
post-industriale di oggi: mutare la con-sapevolezza. È solo con il
cambiamento delle vite individuali che possiamo sottrarre il potere allo
stato». Il commento è di Charles Reich, l'autore di un libro del 1970,
intitolato The Greening of America che fa il paio con quello di Roszak nel
ruolo di Bibbia delle nuove generazioni (ma per molti versi molto meno
critico di The Making of a Counterculture). In queste poche righe Reich
afferma che l'unico modo per fare la «rivoluzione» è agire sulla persona
stessa, sull'individuo. Pensare alla rivoluzione come strumento per mutare
il potere politico o impadronirsene significa semplice-mente rinnovare gli
strumenti del dominio. Possiamo realizzare Rivoluzione (quella con la R
maiuscola) solo e soltanto cambiando noi stessi: solo in tal modo potremmo
contribuire a cambiare gli altri. Si tratta, secondo Reich (e molti altri),
dell'unico modo sensato di ottenere cambiamenti strutturali in una società
post-classista e, per certi versi, anche post-rivoluzionaria (intendendo il
termine nel senso classico, otto-centesco): non conquista/sconfitta del
potere che si incarna nelle istituzioni consoli-date, ma
separazione/secessione da esso, con fondazione di una nuova comunità. Il
principio è espresso con grande chiarezza retorica nel celebre romanzo di
fantascien-za The Dispossessed di Ursula Le Guin, pubblicato nel 1974, che
riproduce di fatto le differenti prospettive all'interno del variegato mondo
della sinistra libertaria america-na. In bocca all'anarchico Shevek, che si
rivolge ai radicali che vivono nelle società capitaliste, l'autrice mette il
seguente discorso: «Non abbiamo nulla se non la nostra libertà. Non abbiamo
nulla da darvi se non la vostra libertà. Non abbiamo legge se non il singolo
principio del mutuo appoggio tra individui. Non abbiamo governo se non il
singolo principio della libera associazione. [.] Non potete comprare la
Rivo-luzione. Non potere fare la Rivoluzione. Potete solo essere la
Rivoluzione. È nel vo-stro spirito, o non è in alcun luogo».
Questo tipo di atteggiamento rimanda con una certa chiarezza a un modo
particola-re di leggere l'esperienza americana nel suo complesso. Rimanda in
particolare a una specifica filosofia della politica. E dal crogiuolo della
modernità, posteriore alla Ri-voluzione francese, è emerso un solo paradigma
che rifiuta di «immaginare» la Ri-voluzione (sempre con la R maiuscola) come
il momento epocale dell'assunzione del controllo sullo stato e sulle
istituzioni da parte del «popolo». Si tratta di una particola-re tendenza
dell'anarchismo, lontanissima dalla variante più classica (Bakunin,
Kro-potkin, Cafiero, eccetera) che accetta invece fino in fondo la logica
manichea e mille-naristica della «rivoluzione»: una variante autonomistica,
individualistica, anticollet-tivistica, decentralista, espressa al meglio
proprio dalla tradizione politica libertaria che negli Stati Uniti, a
partire dalla loro formazione, ha avuto un ruolo non indiffe-rente nel
plasmare sia gli atteggiamenti pubblici sia una modalità particolare di
vivere il privato. A questa tradizione americana in sostanza democratica, ma
condita di rug-ged individualism, in cui la rivendicazione del primato e
dell'autonomia dell'individuo prende la forma massima della distruzione
della politica (e dello stato) e quella minima della garanzia di una
partecipazione politica più diretta, ampia e si-gnificativa possibile, in un
clima di sospetto e rifiuto per le forme di esercizio del potere, si rifà in
terra statunitense la controcultura: «Alla prossima generazione oc-corre
dire», dichiara Norman Brown nel 1967, «che la lotta reale non è la lotta
politi-ca, ma la lotta per mettere fine alla politica». In fondo sono questi
i valori che tro-viamo al centro della discussione dei difensori del binomio
Sex & Drugs: difendere l'individualità dall'attacco dei poteri forti,
criticare le relazioni di potere fondate sul dominio, rivendicare infine uno
stile di convivenza politica fondata sulla centralità della libera
associazione tra persone libere, pronte anche a «secedere» dal corpo ma-lato
della comunità comformista. Tale posizione non può che rimandare a quell'
ethos libertario e violentemente antistatale che ritroviamo ai fondamenti
nell'esperienza americana stessa. Non a caso, in alcuni padri fondatori -
penso in particolare a Tho-mas Jefferson, a Thomas Paine, ad altri ancora -
la difesa di una democrazia radicale andava di pari passo con l'attacco a
quello stato dal potere forte e quasi inattaccabile che si andava
edificando, e che veniva percepito non da pochi come una minaccia per l'
autonomia e la dignità del cittadino: un potere che si combatteva con il
rifiuto di ri-conoscerlo, ovvero con la strategia della «separazione». Lo
stesso atteggiamento si regista negli abolizionisti radicali della Nuova
Inghilterra (Wendell Phillips, William Lloyd Garrison), nei circoli
utopistici e bohémien (Josiah Warren, Stephen Pearl An-drews), tra i
trascendentalisti (Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau), e
natu-ralmente in quella peculiare tradizione anarchica americana, tanto
diversa da quella europea, che dall'Otto al Novecento ha fornito molti
intellettuali che hanno ripensato all'esperienza della nazione criticandone
la forma e valorizzando un'impostazione «antipolitica» della politica, in
senso jeffersoniano, ovvero nei termini di una feroce contrapposizione con
quegli enti e quelle istituzioni che nella «politica» tradizionale avevano
trovato modo di rinnovare le stesse forme di oppressione contro le quali
avevano combattuto i patrioti della Guerra d'Indipendenza: da Lysander
Spooner a Benjamin Tucker, da Randolph Bourne sino a Paul Goodman. Non certo
a caso, quando Paul Krassner, uno dei personaggi più in vista - e meno
superficiali - del mondo della controcultura, fondatore del Realist e poi
dello straordinario Youth In-ternational Party (l'«antipartito» per
eccellenza), si è trovato a riflettere sui presuppo-sti politico-ideologici
della sua esperienza, non ha trovato di meglio che la locuzione «anarchismo
intuitivo».
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