Autore: clochard Data: Oggetto: [Cerchio] quando un giornale fottutto e venduto...
Mah, la maggior parte lo leggerete abitualmente, annoiandovi, come recitava
una canzone dell''assemblea musicale teatrale", spalla di molti concerti di
Guccini.
Ma accade, secondo me, ke sviluppi elaborazioni + complesse e radicali di
quanto immaginino le fanciulle dal pube rigoglioso e magnetizzante
Stati uniti, un anno dopo /2. Intervista a Howard Zinn
L'arrogante fragilità
Il governo americano si sta facendo sempre più nemici, all'interno e
all'estero. E l'apparato di propaganda cela quel che l'11 settembre
mostrava, l'antipatia e la vulnerabilità degli Usa. Fino a quando? Parla lo
storico Zinn, militante negli anni `60 del movimento per i diritti civili
MARCO D'ERAMO
INVIATO A NEW YORK
Howard Zinn porta i suoi quasi ottant'anni con il garbo e la civetteria di
quelle rarissime persone che la vecchiaia rende più belle. Dopo l'infanzia
newyorkese (a Brooklyn) che ha raccontato nel libro autobiografico You Can't
Be Neutral on a Moving Train («Non puoi essere neutrale su un treno in
corsa»), ha lavorato nei cantieri navali prima di essere arruolato sui
bombardieri durante la seconda guerra mondiale. Da storico, ha partecipato
al movimento per i diritti civili degli anni `60. Ora ha un'intensa attività
di conferenziere e collabora a numerose pubblicazioni di sinistra come The
Nation, In These Times e The Progressive (del cui comitato editoriale è
membro). Vive con la moglie Roslyn a Cape Cod da cui si allontana
spessissimo, invitato a parlare ovunque nel mondo. Il suo libro più famoso,
ristampato innumerevoli volte e adottato come libro di testo in tantissimi
licei statunitensi è A People's History of the United States -1492 to
Present, «una brillante e commovente storia degli americani raccontata dal
punto di vista di coloro la cui condizione è stata quasi sempre omessa da
quasi tutte le storie» (Library Journal), una storia raccontata dai
dominati, dalle donne, dai nativi, dai neri, dagli immigrati, dagli operai e
braccianti. Il canale HBO sta producendo un adattamento televisivo di questa
«Storia della gente».
Dopo l'11 settembre Howard Zinn ha scritto Terrorism and War, un libro
intervista in cui riafferma il proprio pacifismo («con gli armamenti attuali
non vi sono guerre giuste: la seconda guerra mondiale contro il nazismo era
giusta ma ha portato ai bombardamenti a tappeto di Dresda e alle bombe
atomiche su Hiroshima e Nagasaki») e mostra la colossale asimmetria tra i
morti dell'11 settembre e quelli provocati dai bombardamenti Usa. I primi
erano «persone, singoli esseri umani, con storie, volti, passioni, affetti»
le cui vite sono state sottratte all'anonimato e incessantemente raccontate
dalla stampa americana. I secondi sono rimasti senza volto, entità astratte,
«come coloro che bombardavamo durante la seconda guerra mondiale da 10.000
metri di altezza».
Se guarda al 10 settembre dell'anno scorso, e poi a oggi, come riassumerebbe
quel che è davvero cambiato?
Il 10 settembre dell'anno scorso, agli occhi di molti George W. Bush era
ancora un presidente illegittimo, e dell'elezione del 2000 si parlava ancora
come di un'«elezione rubata» regalata a Bush dalla Corte suprema. Bush non
era una figura popolare, era stato catapultato alla Casa Bianca perché aveva
amicizie politiche tra i giudici costituzionali e nello stato della Florida.
Prima dell'11 settembre l'amministrazione non godeva di molto credito, e
soprattutto, negli Stati uniti e altrove - certo nella sinistra, ma non
solo - cresceva la critica e la preoccupazione per lo strapotere delle
multinazionali nell'economia globalizzata, le manifestazioni di Seattle,
Philadelphia, Washington, Genova. Dopo l'11 settembre tutti questi temi sono
stati estromessi dal quadro in nome della «guerra al terrorismo». La guerra
è utilissima a chi sta al potere perché accantona tutte le proteste, i
malcontenti, le critiche. L'emergenza è usata come una scusa per non parlare
più di nient'altro, di glissare sui problemi della gente e concentrarsi sul
nemico. E chi osa criticare il governo è subito tacciato di
antipatriottismo, di essere una quinta colonna del nemico. In questo senso
le cose sono cambiate terribilmente dall'11 settembre.
Da un anno subiamo una valanga di retorica sul «niente sarà più come prima»,
ma per esempio Benedict Anderson (l'autore delle Comunità immaginate)
sostiene che non è cambiato nulla: gli Usa hanno appoggiato tiranni e loro
gorilla per 50 anni e continuano ad appoggiare tiranni e gorilla.
Sono d'accordo. Fondamentalmente, la politica degli Stati uniti non è
cambiata. La «guerra al terrorismo» consente agli Usa di fare quel che
facevano prima, ma l'11 settembre ha fornito una scusa speciale per
proseguire nella stessa politica, e cioè l'espansione imperiale nel mondo.
Se guardi alla storia americana ogni periodo di espansione è spiegato con
una diversa, particolare scusa. Quella delle annessioni del Texas, Arizona e
New Mexico a metà del secolo scorso era chiamata Manifest Destiny, dopo la
seconda guerra mondiale la nostra espansione fu spiegata la lotta al
comunismo e il «Mondo Libero»; ma gli Stati uniti si stavano espandendo da
ben prima che l'Urss diventasse un pericolo per loro, e ben da prima
appoggiavano i despoti dell'America centrale e meridionale. C'è quindi una
continuità. La differenza è che l'11 settembre ha fornito una scusa
potentissima, tremenda.
Non per essere cinici, ma meno di 3.000 morti sono un inezia nella storia
dei massacri del ventesimo secolo e alla distanza sembreranno un episodio
marginale.
È sempre stato vero. Gli Stati uniti sono terribilmente autocentrati. Le
vittime americane sono importanti, quelle d'oltremare no. Un morto negli
Stati uniti è considerato più importante di migliaia di morti all'estero. È
vero che il costo di vite umane dell'11 settembre è irrisorio rispetto alle
vittime di altri terrori in America centrale, nel sud-est asiatico e in
Africa. Ma è tale il nazionalismo americano che è facile per un governo
potente e per una stampa controllata far passare le 3.000 morti dell'11
settembre come la più grande tragedia mai verificatasi nella storia
dell'umanità.
In genere l'Europa sottovaluta la sagacia della classe dirigente americana.
Attribuisce il suo potere a una tautologia: gli Usa sono forti perché sono
ricchi, hanno le risorse, le armi, cioè sono forti perché sono forti. Ma si
dimentica che questa potenza è stata costruita con quella che Woodrow Wilson
chiamava «la feccia d'Europa». La mia domanda perciò è: non è possibile che
anche stavolta stiamo sottovalutando la classe dirigente americana? E che la
politica dell'amministrazione Bush avrà successo nell'espandere e rafforzare
l'impero americano?
Io penso che il potere del governo americano è davvero fragile, è vuoto, non
è radicato. Lo abbiamo visto in altri paesi dove governi che sembravano
saldissimi in sella, con il pieno controllo, in realtà sono crollati di
botto perché non avevano radici, erano corrotti e anche perché si
autoingannavano, perché sotto la superficie della padronanza totale,
mutazioni gradualmente si verificavano nella popolazione, cresceva la
consapevolezza che qualcosa non andava. Io credo che lo stesso stia
avvenendo agli Stati uniti che hanno tutto questo potere, queste armi,
questa ricchezza, ma la cui egemonia è costruita sulla sabbia, perché stanno
andando troppo oltre, perché si stanno facendo troppi nemici. Per ora si
stanno facendo troppi nemici all'estero, ma poi il processo avverrà anche
all'interno perché, per continuare a espandersi, l'impero americano dovrà
appropriarsi di una parte sempre maggiore del denaro degli americani. Per
avere un bilancio militare di 400 miliardi di dollari, ci sarà meno denaro
per la sanità, la scuola, gli alloggi. E sta aumentando la coscienza di quel
che fa questo governo. Parlo qui della direzione, della linea di tendenza,
non dell'orario. Nessuno può dire quando questa coscienza prenderà il
sopravvento. Né quanto tempo ci metterà il potere americano a cadere, ma io
credo che alla fine cadrà.
Ma come mai gli Stati uniti non hanno imparato la lezione che non è vero che
«i nemici dei miei nemici sono miei amici»? Saddam Hussein era amico perché
era nemico del nemico Iran, e adesso è il pericolo numero uno. Osama bin
Laden era una creatura della Cia, prediletto, armato e finanziato dagli Usa
perché in Afghanistan era nemico della nemica Urss, e si è visto come è
finita, con le Twin Towers. Ma dopo l'11 settembre gli Usa appoggiano
dittatori come Musharraf che ogni giorno che passa si regala un anno in più
di potere assoluto... Come mai non hanno imparato la lezione?
Perché non hanno alternative. Se non ottengono l'appoggio dei Musharraf o di
governi repressivi come la Turchia o l'Arabia saudita, non ottengono nessun
appoggio. Non possono fare nient'altro.
Lo scorso ottobre Studs Terkel si diceva in parte ottimista, perché forse
questo orribile attacco avrebbe tolto agli americani quei pregiudizi e quei
paraocchi che l'invulnerabilità comporta, e che forse gli Americani
avrebbero capito come sono considerati dal resto del mondo e che non vengono
visti come quei «bravi tipi» che credono di essere. Ma dopo un anno sembra
che l'ottimismo di Studs Terkel fosse in gran parte infondato.
Studs Terkel ha ragione quando dice che nell'11 settembre c'è un potenziale
per capire che le nostre vittime non sono né le prime, né le peggiori. È
vero. Ma il governo ha un formidabile apparato di propaganda che tenta di
espurgare la verità. Il problema è: quanto efficace e per quanto tempo sarà
quest'apparato? Io credo che la gente imparerà dall'11 settembre, ma credo
che ci vorranno molti sforzi per educare il pubblico, da parte dei settori
progressisti della società americana. E l'educazione potrà darla solo la
realtà, il mondo stesso che ci circonda. La propaganda ha espulso la realtà,
ma la realtà comincia di nuovo a fare capolino poco alla volta. Questo è
ovvio per l'Afghanistan: è quasi un anno che sono cominciati i bombardamenti
e sempre più persone si accorgono che la cosiddetta guerra al terrorismo non
funziona. La sinistra diffonde questa coscienza attraverso una rete
informale, spesso sotterranea di radio locali, stampa alternativa,
associazioni di comunità. Ma a prescindere da questa poco visibile eppure
capillare azione della sinistra, la gente comune, l'americano qualunque si
sta rendendo conto che la cosiddetta guerra al terrorismo è una barzelletta,
certo, una tragica barzelletta. Quando costringi la gente a guardare un film
troppo a lungo, alla fine la gente si alza, deve pur andare in bagno. È
successo anche con la guerra fredda, quando la minaccia comunista e
sovietica veniva brandita in continuazione. Dopo un po' la gente si è
svegliata. Ricordiamoci che la guerra in Vietnam veniva presentata come una
guerra che dovevamo combattere per fermare il comunismo. Ma in breve apparve
chiaro che la guerra era qualcos'altro. E così anche la minaccia comunista
evaporò e negli anni `60 il Comitato parlamentare sulle attività
anti-americane scomparve dalla scena. Perciò credo che il governo avrà
sempre meno successo nel rendere tutti isterici sul terrorismo.
Come mai gli americani non si rendono conto di quanto ha macchiato la loro
immagine all'estero la vicenda di Guantanamo? Come mai non si sono resi
conto che quelle immagini di prigionieri rinchiusi in gabbie all'aperto come
animali, sotto illuminazione permanente, faceva riaffiorare i ricordi dei
lager?
Gli americani non sanno nulla di quello che succede all'estero, perché la
stragrande maggioranza trae tutte le notizie dalla tv che non parla mai
dell'estero. E i giornali ne parlano pochissimo. Se fai un sondaggio su
Guantanamo, scoprirai che il 90% degli americani non sa nulla di quel che vi
succede. Il controllo totale sull'ìnformazione in questo paese è l'ostacolo
più serio per un mutamento della politica americana.