Autor: Marco A. Calamari Data: Para: HackMeeting Assunto: Re: [Hackmeeting] Comunicazione alla lista dall'assemblea di
Hackmeeting
On gio, 2024-06-20 at 11:19 +0200, yattaman wrote: > Ho deciso di riprendere anche io il discorso dalla comunicazione alla
> lista, mi sembra una buona idea per evitare che tutto si trasformi in
> uno sterile botta e risposta.
>
> La situazione che ha portato alla decisione dell'ultima assemblea mi
> pare sia emersa in tutta la sua portata soprattutto l'anno scorso in
> Calabria, mentre quest'anno, fino all'assemblea finale, era rimasta un
> po' in sordina.
>
> Quello che mi colpisce è che ne parliamo come se fosse una questione
> che riguarda solo la comunità di hackmeeting, un nostro problema
> specifico. Invece parliamo di qualcosa che ha preso forma almeno dieci
> anni fa nelle università americane e che da lì si è allargato in onde
> progressive fino a investire prima le università europee e poi la
> società in generale.
>
> Perdonate la lunghezza, ma vi cito il passaggio di un libro dedicato
> al tema, che secondo me è molto utile per inquadrare la questione,
> "The coddling of the American mind", di Greg Lukianoff e Jonathan
> Haidt, che risale al 2018:
> ...
> A me sembra che le questioni di cui stiamo parlando in questa lista
> fossero già tutte lì, nel 2015 alla Brown University: il problema di
> uno spazio confortevole, la questione del triggering, cioè
> dell'esposizione a confronti spiacevoli che possano provocarci disagio
> più o meno marcato e, di conseguenza, il problema delle
> "microaggressioni". Questa parola era emersa con più chiarezza in
> Calabria. Si è un po' persa quest'anno ma mi pare in definitiva il
> tema centrale. E' per evitare le microaggressioni, che generano un
> "ambiente tossico", che stiamo ragionando su una moderazione e sulla
> ipotesi di introdurre un "code of conduct".
>
> Sto dicendo questo perché penso che gioverebbe alla discussione tenere
> conto di quello che è successo nel mondo là fuori in questi dieci
> anni, in modo da decidere consapevolmente qual è la strada che
> vogliamo intraprendere.
>
> E cosa è successo nel mondo? Alcune cose positive ed altre negative.
>
> Tra le cose positive, una progressiva presa di coscienza nella società
> di quanto sia radicato il maschilismo, del disastroso divario di
> genere che c'è in tutti i settori, che si esprime e si alimenta di
> pratiche di potere quotidiane e di un linguaggio sbagliato, per
> esempio declinando sempre tutto al maschile. Ma anche un minimo di
> consapevolezza in più del portato del colonialismo, che ancora oggi
> dispiega i suoi effetti nel fatto che le condizioni di partenza -
> sociali, economiche, ecc ecc - nella presunta corsa al merito sono
> piuttosto diverse. Un indicatore a portata di mano e molto banale di
> questo progresso è quello dei film. Oggi rivediamo cose girate venti
> anni fa con un occhio molto diverso ed è ormai esperienza comune il
> pensiero "questa scena non l'avrebbero fatta così" o "questo dialogo
> lo avrebbero scritto diversamente". Ci accorgiamo che alcune cose sono
> inaccettabili e di quanta leggerezza e superficialità consentiva
> linguaggi sbagliati e stereotipi che perpetuavano dinamiche
> essenzialmente violente.
>
> Tra le negative, un clima molto più conflittuale. Un linguaggio molto
> stigmatizzante verso chi viene considerato un perpetuatore di quelle
> pratiche sbagliate e, simmetricamente, un diffuso timore di essere
> messi all'indice. Una dinamica che ha creato le echo chambers non solo
> nei social media, ma anche nella realtà: tante bolle di comunità
> omogenee, che si alimentano di spinte identitarie fortissime. Perché
> non esiste un solo linguaggio di genere, ne esistono tanti, e una
> minore tolleranza verso altri linguaggi è sinonimo di un maggior
> numero di perimetri, che inevitabilmente diventano frontiere (e poi ci
> sono gli altri linguaggi, quello sull'ambiente, quello sugli animali,
> ecc). Per non parlare di chi non adotta - per scelta, per provenienza,
> per distanza - quei linguaggi abbastanza o abbastanza velocemente.
Ecco, qui hai detto tutto quanto rende persone come me assimilabili a troll.
Si tratta appunto di dire quello che si pensa, con un linguaggio che
molti, dizionari compresi, considerano "naturale" ma che è impopolare
nella misura in cui erano impopolari le streghe qualche secolo fa.
E si tratta anche di poter enunciare idee controcorrente, come quella che
la manipolazione mentale realizzata con modifiche al linguaggio semplicemente
non deve essere usata, senza se e senza ma, qualunque ne sia la motivazione.
Nel 2011 usava, a chi diceva un'idiozia, rispondere che aveva detto un idiozia,
non che era un idiota.
E poi, doverosamente, spiegare il perché, restando nel merito.
Questo permetteva a tutti di discutere e di crescere, e di non rispondere,
se non interessava, a chi enunciava ideologie o semplicemente trollava.
> Con le cronache internazionali piene di professori sospesi dalle
> università perché hanno detto una parola considerata di troppo, per un
> lavoro per esempio consegnato in ritardo o persino a volte per un
> incoraggiamento. E le richieste degli studenti di indicare come
> "triggering" questo o quel corso. E gli atenei che, a chi fa domanda
> di ingresso, fanno una quindicina di domande sulla loro vita sessuale.
>
> Allora, che fare? Io vorrei fare un paio di osservazioni su alcuni meccanismi.
>
> La prima riguarda la soggettivizzazione. Le accuse di violenza verbale
> sono quasi sempre basate sul "come si è sentita" la persona che l'ha
> subita, non su una metrica in qualche modo misurabile. Questo è
> scivoloso e assomiglia pericolosamente a un vecchio adagio che gira
> nelle redazioni: "Cos'è una notizia? E' ciò che il caporedattore
> decide essere una notizia". Il risultato di quel modo di pensare è che
> i giornali spesso si sentono svincolati dalla realtà. Un fatto non è
> un fatto, è un qualcosa di soggettivo ed esiste solo nella percezione
> del giornalista, nella sua lettura del mondo. Ecco, io temo che quel
> modo di pensare si sia pericolosamente diffondendo. Non a caso, si è
> diffuso il termine "microaggressione": consente di catturare qualsiasi
> espressione che faccia sentire a disagio un'altra persona, sfuggendo
> all'esigenza di una qualche misurabilità oggettiva. Questo ha due
> effetti: provoca una accelerazione verso definizioni sempre più ampie
> e arbitrarie di violenza. E cancella ogni equilibrio nel giudizio. Non
> ci si può difendere in alcun modo, basta l'accusa. Se non conta quello
> che una persona fisicamente dice o fa ma solo come "si sente" chi la
> vede o la sente, si precipita nel giacobinismo. Di più, mentre la
> percezione della presunta vittima conta moltissimo, le intenzioni di
> quella che presuntamente aggredisce invece non contano affatto. E' una
> impostazione squilibrata, che inesorabilmente moltiplica il numero di
> vittime e di aggressor*, e ciascuno può facilemente finire di volta in
> volta in un ruolo o nell'altro.
>
> Un altro meccanismo è quello della tribalizzazione. Si creano tanti
> "noi" e "loro", e ciascun "noi" spinge verso una progressiva
> omogenizzazione del linguaggio al suo interno, espellendo
> progressivamente chi manifesta differenze o è meno compatibile.
> Diventa tutto un po' manicheo, i buoni contro i cattivi. Questo è
> fisiologico, è nella natura stessa dei gruppi. E' quello che qui
> dentro viene definito segnale/rumore. Ma ogni comunicazione ha una
> certa distribuzione statistica. La domanda qui è: quanto deve essere
> stretta la campana?
>
> Terzo: forma e sostanza. Il motivo per cui mi appassionano tanto i
> modelli linguistici è che sono essenzialmente dei traduttori: nascono
> per convertire una sequenza da un dominio linguistico a un altro, ma
> poi si è scoperto che sono in grado di convertire dal dominio testuale
> a quello visuale e persino dal dominio delle domande a quello delle
> risposte. Il dominio di partenza contiene un nucleo di informazione. I
> modelli - attraverso una serie di trasformazioni geometriche - portano
> quella stessa informazione in un codominio. L'enfasi sul linguaggio è
> giusta. In alcuni casi, e sopra una certa soglia, fa perdere di vista
> l'informazione sottostante e la possibilità che la stessa cosa possa
> essere detta in modi diversi.
>
> Quarto: generazione. E' inutile nascondersi, questa questione è
> prevalentemente generazionale (ovviamente con eccezioni). Chi ha una
> certa età pensa essenzialmente che un po' di conflittualità dentro il
> gruppo sia sana, un po' come giocare in giardino rafforza il sistema
> immunitario. I più giovani pensano che sia un'idea sbagliata: "Perché
> devo espormi a un disagio non necessario? Perché non possiamo
> costruire una società più armoniosa, in cui quando uno apre bocca non
> venga insultato?". Sono due posizioni legittime. E d'altra parte, ogni
> generazione deve seppellire la precedente. E' anche giusto.
>
> Conclusione: la diversità è una condizione indispensabile del
> confronto e della crescita, ma ci sono tanti modi per costruirla.
> Troviamo un modo che tenga conto di tutto.
Ed evitiamo di dar via quello che ci distingue da tanti altri (tolleranza,
democrazia, libertà), ed evitiamo di ricorrere ad una forma di censura
solo perché viene richiesta tramite ideologie che in questo
momento sono mainstream, ma non per questo acquistano
dignità particolari.