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Il perdurante deficit culturale delle Sinistre di Carla Ravaioli
Da tempo sono convinta che la più grave debolezza delle sinistre (o di gran parte di esse) sia oggi la mancanza di una ferma rimessa in causa del capitalismo, e la sostanziale accettazione di una realtà ritenuta in pratica senza alternative: il mercato con i suoi meccanismi obbligati, la crescita del prodotto come obiettivo prioritario e imprescindibile, e pertanto l’accumulazione data come una politica socialmente necessaria, su cui le sinistre hanno possibilità di intervenire ma senza rimetterne in causa le logiche portanti, e solo entro questi limiti operando per la difesa dei lavoratori e il possibile miglioramento della loro condizione.
D’altronde non è un caso che, nel pubblico dibattito, di rado ormai il capitalismo venga apertamente criticato o anche soltanto citato, essendo per lo più indicato come “neoliberismo”. Quasi che il neoliberismo non fosse la faccia attuale del capitalismo, e come se (sotto l’immane potenziamento tecnico, la spettacolare dilatazione di mercati e consumi, il continuo moltiplicarsi e velocizzarsi delle comunicazioni) non fossero i meccanismi di un rapporto irrecuperabilmente disuguale a dettare, oggi come ieri, il confronto tra capitale e lavoro. Ed è a questo modo che, di fatto, le sinistre hanno finito per regalare al capitalismo il progresso scientifico e tecnologico, e l’aumento della produttività ad esso inerente.
A questo proposito serve ricordare Keynes il quale, sul finire degli anni venti, sosteneva che nel giro di qualche decennio l’umanità avrebbe potuto soddisfare i propri bisogni lavorando non più di tre ore al giorno. Ma nulla di simile è accaduto. A sinistra è prevalsa la paura della disoccupazione tecnologica. E anche in seguito, quando di fronte al continuo, straordinario aumento della produttività, numerose e insistenti furono le proposte di forte riduzione degli orari di lavoro, che non mancarono di trovare largo consenso, dando luogo anche a non pochi esperimenti riusciti, tutto ciò non ebbe successo ai vertici del Pci (né, va detto, tra altre forze politiche) e di fatto rimase senza seguito. A questo modo il progresso scientifico e tecnologico è stato interamente “regalato” al capitalismo e alle sue logiche; mentre la crescita produttiva (strumento portante del “sistema”) si imponeva a tutti i livelli, anche a sinistra, come obiettivo primario, addirittura come una sorta di “totem” indiscusso.
Fu un sostanziale adeguamento alle logiche vincenti, dato come un fatto ineluttabile, forse dovuto (come da tempo sostiene Wallerstein) a una insufficiente rilettura critica della propria storia da parte delle sinistre; le quali a questo modo, paradossalmente, hanno impostato la lotta contro il capitalismo affidandosi alle sue stesse regole, usando i suoi stessi strumenti, e inevitabilmente rimanendone “imbrigliate”. Ciò che non può non aver contribuito al crescente rafforzarsi del capitalismo, al suo prevalere e imporsi nelle politiche e nelle culture di tutto il globo, come una ineluttabile necessità storica.
A questo modo, di fatto, le sinistre si sono trovate a sostenere - o quanto meno ad accettare - un mondo in cui (secondo dati ONU) l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza; un miliardo di persone è sottoalimentato mentre in diversi paesi occidentali si getta abitualmente il 30-35% del cibo prodotto; un dirigente d’azienda guadagna fino a 640 volte il salario di un suo operaio; la produzione di armi rappresenta il 3,7% del Pil mondiale (dato ufficiale, che esperti qualificati ritengono fortemente inferiore alla verità); e migliaia di morti e milioni di profughi sono conseguenza di uno squilibrio ecologico in continuo aumento.
“Ripartire dal lavoro”, è la parola d’ordine che praticamente tutti a sinistra portano avanti. Cosa che non stupisce: il lavoro è sempre stato oggetto primario delle battaglie, e delle conquiste, di quelli che non a caso si chiamavano “movimenti operai”; e d’altronde ancora oggi sono le classi lavoratrici che più duramente scontano la crisi, e giustamente chiedono attenzione e difesa.
Ma anche a questo proposito, a parte interventi immediati inerenti alle singole situazioni, manca una proposta organica. Soprattutto manca un’idea che si discosti da quella delle destre: aumentare la produzione, rilanciare i consumi, è infatti l’insistito auspicio anche della sinistra, certo nella speranza di “uscire dalla crisi”, creare occupazione, ottenere posti sicuri, migliori salari, pensioni adeguate, ecc.; e magari ritrovare una situazione analoga a quella di decenni ormai lontani, quando la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica garantiva anche alle classi lavoratrici considerevole benessere.
Il discorso comporta peraltro una serie di interrogativi. Innanzitutto, è certo che le cause della crisi attuale siano della stessa natura di quelle che, ad esempio, causarono il crollo del ’29, cui sovente si fa riferimento? Che sulla situazione d’oggi non pesino soprattutto le gigantesche trasformazioni che hanno segnato la società mondiale negli ultimi sessant’anni? Che pertanto il lavoro possa ripartire, così come è accaduto nel secolo scorso, e inaugurare una nuova florida stagione di “sviluppo”? Che questa ipotesi possa davvero risultare utile allo stesso andamento economico se, già prima della crisi, da più parti era stato denunciato un eccesso di produzione (in particolare riguardante automobile, petrolchimica, cantieristica, ecc.)? E che l’esistenza e l’uso di computer da dieci miliardi di operazioni al secondo, come di tutti gli altri sempre più strabilianti strumenti creati da tecnologie in continuo progresso, non abbiano ricadute sull’utilizzo dell’attività umana e quindi sulla domanda di lavoro?
Che, insomma, la sempre più ampia possibilità di sostituzione tecnica dell’attività umana non possa indurre l’ipotesi di un diverso uso, quantitativo e qualitativo, del tempo, cioè della vita? Così che la storica paura della disoccupazione tecnologica possa capovolgersi in una prospettiva di esistenze libere dal lavoro alienato e alienante, a lungo sognata dai grandi utopisti, e recuperata nel secolo scorso nell’ipotesi di un forte e generalizzato taglio degli orari? Al proposito ho già ricordato Keynes, il quale, quasi un secolo fa, sosteneva ormai prossima la possibilità di soddisfare tutti i nostri bisogni lavorando non più di tre ore al giorno…
Ma altri, non meno pregnanti interrogativi, si impongono di fronte alla consueta direttiva delle sinistre a “ripartire dal lavoro”. La quale - ripeto - presuppone però “uscita dalla crisi”, cioè aumento del Pil, rilancio della produzione e dei consumi. E’ davvero questo un auspicio ragionevole, mentre i giornali titolano “Il pianeta è in rosso” (a fine settembre, ad esempio, risultavano consumate per intero le risorse naturali che avrebbero dovuto bastare per tutto il 2012)? E mentre la corsa al possesso di risorse in via di esaurimento – petrolio, uranio, perfino acqua – va scatenando conflitti e guerre? E da un lato i poli si sciolgono, dall’altro avanzano i deserti, mentre si moltiplicano i cosiddetti “eventi meteorologici estremi”, causando distruzione di raccolti, franare di catene montuose, città rese inabitabili, centinaia di migliaia di morti e feriti, milioni di profughi?
E qui ci si imbatte in quella incredibile sottovalutazione della crisi ecologica , per cui l’ambiente (benché ormai inevitabilmente impostosi all’attenzione di tutti, se non altro come qualcosa che crea problemi all’economia) rimane per la politica una “variabile” marginale, alla quale periodicamente si dedicano costosi quanto inutili summit internazionali, ma che spesso non viene nemmeno citata in incontri e convegni tra imprenditori, economisti, politici, personaggi poco o tanto responsabili delle sorti del mondo; e comunque non ha spazio tra quelli che si considerano i grandi problemi del nostro tempo.
Le sinistre non fanno eccezione: a lungo del tutto disinteressate alla materia, ancora oggi sono di fatto riluttanti a dare atto di quella che è la causa prima dello squilibrio degli ecosistemi, cioè l’insanabile contraddizione tra un’ economia fondata sulla crescita esponenziale e il pianeta che lo alimenta: il quale, per quanto grande, ha dimensioni date e non dilatabili a richiesta, e non può essere pertanto in grado di fornire indefinitamente materia prima a una produzione in crescita esponenziale, come tale programmata e perseguita.
Da tempo, e senza eccezioni, la scienza mondiale va segnalando lo squilibrio degli ecosistemi come la peggiore minaccia per il futuro dell’umanità, ma a lungo – occorre dire – le sinistre hanno osservato un disinteresse pressoché totale nei confronti della materia, con una sostanziale sottovalutazione del rischio ambiente. Un comportamento che presenta tra l’altro un aspetto vistosamente contraddittorio, perché i più colpiti dalle conseguenze dello squilibrio ecologico sono proprio coloro che le sinistre per loro natura sono tenute a difendere: operai direttamente esposti all’uso di materiali fortemente tossici, famiglie che vivono in prossimità di fabbriche inquinanti e ne soffrono gravi conseguenze, agricoltori indotti all’utilizzo di concimi chimici altamente nocivi, senza dire di città rese irrespirabili da un traffico sempre più congestionato. E così via .
E’ infatti con l’avvio della società industriale capitalistica che il lavoro inizia a trasformarsi in modo da alterare e mettere a rischio gli equilibri naturali, che fino a quel momento l’umanità – pur accentuando via via la propria invadenza e aggressività – aveva in sostanza mantenuto. Prodottosi con l’insediamento delle prime industrie e a lungo rimasto circoscritto ad alcune regioni, lo squilibrio degli ecosistemi si è poi diffuso e aggravato con la rapida espansione delle attività produttive e la contemporanea crescita della popolazione, la moltiplicazione degli insediamenti urbani, dei manufatti, dei trasporti, dei consumi, dei consumatori.
E’ infatti la sua stessa forma di sistema economico definito dall’accumulazione, cioè dalla produzione di valore in crescita esponenziale all’interno di un mondo finito e non dilatabile a richiesta, a rendere il capitalismo insopportabile dalla realtà naturale. E questa è la verità che da gran tempo avrebbe potuto, anzi dovuto, orientare le sinistre alla lotta per la difesa dell’ambiente, in perfetta coerenza con la loro origine e il loro stesso statuto. Non era il capitale il nemico storico da battere? E la crescente devastazione del mondo, la stessa sopravvivenza umana messa a rischio dall’iperattività industriale, dal mito della crescita e dalle “leggi” del mercato, non confermano il fatto che il capitalismo è del tutto indifferente al bene sociale e indifferentemente, se occorre, agisce contro di esso?
E più che mai oggi (di fronte al moltiplicarsi di immani catastrofi e previsioni apocalittiche a prossima scadenza, in presenza di analisi scientifiche che inoppugnabilmente dimostrano il rapporto tra lo squilibrio ecologico e i modi e le quantità di produzione tipici dell’economia industriale capitalistica) non dovrebbero imporsi domande definitive circa la linea politica che da decenni ormai pigramente le sinistre perseguono? E’ possibile insomma affrontare seriamente la crisi ecologica, senza riflettere sul fatto (un’ovvietà, parrebbe) che “non può esistere una crescita infinita in un mondo finito”?; quindi sulla necessità di un sistema produttivo nettamente diverso da quello attuale, che si faccia presupposto di un salto logico, di una nuova razionalità economica e sociale?. Parole di questo tipo, sono del tutto assenti dal consueto discorso politico, anche di sinistra, e non solo in Italia. Ma la ragione che, in modo ancor più pregnante e radicale, avrebbe dovuto orientare le sinistre verso la difesa dell’ambiente, è l’origine stessa del degrado.
E’ infatti con l’affermarsi del capitalismo che il lavoro si trasforma in modo da alterare e mettere a rischio gli equilibri naturali, che fino a quel momento l’umanità aveva in sostanza mantenuto. Prodottosi con l’insediamento delle prime industrie e a lungo rimasto circoscritto ad alcune regioni, lo squilibrio degli ecosistemi si è poi diffuso e aggravato con la rapida espansione delle attività produttive e la contemporanea crescita della popolazione, la moltiplicazione degli insediamenti urbani, dei trasporti, dei manufatti, dei consumi, dei consumatori.
Ma anche solo le poche ragioni appena accennate dicono che “non può esistere una crescita infinita in un mondo finito”. Riflettere un attimo su questa banalissima verità dovrebbe dimostrare l’insostenibilità di un sistema produttivo come quello attuale, fondato appunto sull’accumulazione di plusvalore, e la necessità di un salto logico, della messa a fuoco di una nuova razionalità economica e sociale.
Proposte di questo tipo sono del tutto assenti dal consueto discorso politico, anche di sinistra, e non solo in Italia. A pronunciarle, di tanto in tanto, sono solo non molti specialisti della materia, studiosi anche politicamente impegnati, che solitamente tra i giovani trovano ascolto e impegno. Quanto necessario lo dicono le notizie sulla materia che senza sosta ci raggiungono. Ne cito alcune, tra le più recenti. Nel 2012 (secondo il Data Base internazionale EM – DATE) 106 milioni di persone sono state variamente coinvolte in calamità ambientali; i morti sono calcolati tra 9.300mila e 9.600mila; 32, 4 milioni sono state le persone costrette da inondazioni, tempeste, terremoti, ad abbandonare le proprie abitazioni.
(Intervento tenuto all'assemblea dell'Associazione per il Rinnovamento della Snistra del 14 giugno)
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antonio bruno
capogruppo Federazione Sinistra Comune di Genova
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