[RSF] DA UNA SPONDA ALL'ALTRA:VITE CHE CONTANO

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著者: le venticinqueundici
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To: le venticinqueundici
題目: [RSF] DA UNA SPONDA ALL'ALTRA:VITE CHE CONTANO
*Fuochi*


Difficile scrivere qualcosa di sensato quando una madre si dà fuoco e
altre due tentano il suicido. E’ accaduto a Tunisi in questi giorni. Dopo
il gesto di Jannet Rhimi, da giovedì ricoverata all’ospedale per le ustioni
riportate, altre due madri hanno agito sul proprio corpo l’esasperazione di
più di un anno di attesa. Certo, c’è il dolore per i propri figli
scomparsi, ma di fronte a gesti così estremi dovremmo chiederci tutte e
tutti che cosa stia avvenendo e come sia possibile fare insieme qualcosa
affinché non siano i corpi di queste madri a bruciare per poter ancora
parlare.

Anche noi, che insieme alle madri e alle famiglie dei migranti tunisini
dispersi abbiamo dato luogo alla campagna “Da una sponda all’altra: vite
che contano”, nell’ultimo periodo siamo rimaste silenziose. Che dire,
infatti, dopo le infinite iniziative (sit-in, presidi davanti alle
ambasciate, alle prefetture, lettere ai ministri) quando nulla riesce a
scalfire il silenzio, il tergiversare, la non chiarezza con cui le
istituzioni italiane e tunisine hanno deciso di trattare tutta questa
vicenda? Si scrive un comunicato, di solito, per comunicare qualcosa, per
denunciare, per chiamare a un’azione.

Ma dopo l’azione comune del 30 marzo scorso, con i presidi davanti
all’Ambasciata tunisina a Roma e quello delle famiglie e delle mamme dei
migranti dispersi davanti all’Ambasciata italiana a Tunisi, non sapevamo
più che cosa fare per farci sentire. Le mamme, a Tunisi, ancora una volta
avevano saputo manifestare tutta la loro radicalità di donne che impongono
una domanda di vita, assediando l’Ambasciata italiana e accusando, con quel
gesto, tutte le politiche dei patti, degli accordi bilaterali, della
gestione e del governo delle migrazioni che hanno previsto la scomparsa dei
loro figli e continuano a non rispondere sulla loro sorte. L’11 aprile,
insieme alla delegazione dei famigliari in Italia abbiamo avuto un
incontro, a Roma, al dipartimento dell’immigrazione della polizia delle
frontiere in cui ci era stato comunicato che il primo dischetto con le
impronte digitali, 142 impronte arrivate dalla Tunisia, era ancora al
vaglio della polizia scientifica per fare il riscontro con il database
italiano. Il riscontro di altre 112 impronte, invece, non era ancora
iniziato. Poi, dopo qualche giorno, c’è stato un susseguirsi di notizie
informali e smentite di queste stesse notizie in arrivo dalle istituzioni
tunisine. Il riscontro era terminato? Non lo era ancora? Perché durava così
a lungo? Il risultato era negativo?


Insomma, a più di un anno di distanza un’incapacità di parola e di
trasparenza che esaspera il dolore e lascia spazio a tutte le ipotesi. Già,
una sorta di delirio collettivo, è l’impressione di chiunque si avvicini a
questa vicenda senza prendersi il tempo necessario per capire che cosa
l’abbia provocato. Partiamo allora dall’inizio. Alcune madri e alcuni
familiari riconoscono o credono di riconoscere i loro figli nei
telegiornali italiani, altre ricevono telefonate dalle imbarcazioni che le
avvisano che sono vicini all’arrivo. Quanto tempo sarebbe stato necessario
a un’équipe dei due paesi per fare un riscontro su quegli indizi, a partire
dalle capitanerie di porto per sapere se quelle imbarcazioni erano
arrivate, decifrare meglio le immagini dei telegiornali, capire da quali
celle telefoniche erano arrivate le telefonate? E’ in questo frattempo,
durato più di un anno e che continuerà a durare, dal momento che nessuna
équipe è stata prevista né dall’Italia né dalla Tunisia, che ogni ipotesi è
diventata possibile. E’ la prima volta che succede: le famiglie chiedono
conto, pretendono di sapere, vogliono i loro figli, vivi o morti. Contro le
leggi del loro paese che, complici delle politiche di governo delle
migrazioni dell’Unione europea, prevedono un reato di “emigrazione
clandestina”, contro le politiche dell’Unione europea e gli accordi
bilaterali tra l’Italia e la Tunisia che prevedono “quote” di visti, di
ingressi regolari, così come “quote” di morti nei viaggi di tutti gli
altri. E’ la prima volta che succede ed è un altro effetto domino della
rivoluzione tunisina: verso l’Europa, in questo caso, nella stessa
direzione presa dai giovani tunisini per agire la loro libertà di movimento
dopo la libertà conquistata con la rivoluzione. Madri, che con i loro corpi
e le fotografie dei loro figli si presentano ad ogni visita ufficiale dei
rappresentanti europei e italiani, che prendono d’assalto l’Ambasciata di
un paese di destinazione urlando i nomi dei propri figli e con due
striscioni in italiano e in arabo: “Da una sponda all’altra: vite che
contano”, “La terra è di tutti/e”. Ed è la prima volta che succede anche
questo: i rappresentanti di due paesi, abituati a incontrarsi per dar corso
ai loro accordi, obbligati ora a incontrarsi per scambiarsi impronte
digitali non per espellere ma per rispondere alla richiesta di quelle
famiglie. Non è un caso, dunque, il lungo tempo passato prima che ciò
avvenisse e che ora, mentre il riscontro è in fase conclusiva, nessuno
sappia prendersi la responsabilità di parlare con parole di trasparenza
alle famiglie che li hanno obbligati a quell’operazione. Gli accordi
bilaterali sono accordi di guerra e di scomparsa e le impronte solo uno
degli strumenti per la loro realizzazione, non prevedono un linguaggio di
vita che vuole figli, vivi o morti.


Nel frattempo, in questo tempo lungo, sono i linguaggi di tali politiche,
a guardar bene, ad aver continuato a parlare nei termini di un delirio. E’
questo linguaggio il vero delirio collettivo, dal momento che è riuscito a
diventare senso comune di fronte a cui non c’è uno stupore generale.
Qualche esempio: una ministra che di ritorno dalla Libia, ad inizio aprile,
fa sapere che l’Italia finanzierà i lavori di ristrutturazione del “centro
di trattenimento dei migranti a Kufra”, noto campo di concentramento e di
stupro delle donne lì “trattenute” già finanziato dall’Italia; una
portavoce dell’Acnur che suggerisce di coinvolgere anche le navi
commerciali nei controlli per “intervenire tempestivamente” al fine di
impedire che si ripetano le tragedie in mare; sempre la stessa ministra che
chiede alla Tunisia nuovi accordi nel rispetto dei diritti umani ma che
rafforzino il controllo delle coste, come se tra i diritti umani non ci
fosse quello alla vita che proprio i controlli delle coste non riconoscono.
Infine, la condanna dell’Italia da parte della Corta europea dei diritti
dell'uomo; il cosiddetto caso Hirsi, accolto da tutti, antirazzisti
compresi, come una vittoria contro i respingimenti in mare effettuati
dall’Italia insieme alla Libia a partire dal 2009: 24 cittadini somali e
eritrei rimborsati con 15.000 euro per essere stati respinti con violenza
in Libia insieme ad altri 200 migranti, lì incarcerati, lì maltrattati, per
una spesa complessiva da parte dell’Italia, per i suoi due anni di
respingimenti, la sua complicità nelle incarcerazioni, nei maltrattamenti,
negli stupri e nelle morti “libiche”, di 360.000 euro: nemmeno il costo di
un bilocale in una città italiana.


Avremmo voluto, in tutti questi mesi, insieme alle mamme e alle famiglie
tunisine, bruciare questa follia, smascherare il delirio dei linguaggi e
vincere almeno una battaglia contro tali politiche. Poter dire non solo
come denuncia, ma come realtà, che “da una sponda all’altra” siamo
riuscite, per una volta, a far contare le vite, quelle dei loro figli che
hanno bruciato le frontiere, le loro che hanno continuato a cercarli, le
nostre che insieme a loro siamo sempre più immerse nei recinti delle vite
che non contano. Brucia, invece, il corpo di una mamma, bruciano le mani
del marito che ha cercato di spegnere quelle fiamme, mentre altre due donne
tentano il suicidio.


Non è il tempo dei comunicati. Forse, quello di chiederci tutte insieme
come continuare ad affermare contro queste politiche che le vite contano.


*Le Venticinqueundici*

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*Le venticinqueundici
http://leventicinqueundici.noblogs.org/
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