[RSF] FW: [pace] Kosovo e internazionali, trasparenza cercas…

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Aihe: [RSF] FW: [pace] Kosovo e internazionali, trasparenza cercasi


Date: Sat, 30 Jul 2011 13:00:20 +0200
From: balcani@???
To: pace@???
Subject: [pace] Kosovo e internazionali, trasparenza cercasi









       Kosovo e internazionali, trasparenza cercasi 



       Andrea


          Lorenzo Capussela 
       22 luglio 2011



      In Kosovo, una società pubblica viene espropriata per
        assicurare all'American University in Kosovo (privata) gli spazi
        per costruire il proprio campus. Secondo Andrea Capussela, ex
        direttore dell'ufficio economico dell'ICO, l'operazione
        rappresenta "tutto ciò che non va nel Kosovo di oggi". Da TOL



      Accuse di corruzione e incompetenza
          hanno perseguitato il governo del Kosovo sin dalla
          dichiarazione d'indipendenza del febbraio 2008. D'altra parte,
          i supervisori internazionali della provincia divenuta Stato,
          dalle Nazioni unite all'Unione europea passando per gli Stati
          uniti, non hanno mai smesso di essere variamente dipinti come
          colonialisti, interessati, miopi, inerti o compromessi.
          Essendo il Kosovo un Paese piccolo e con vari strati di
          governo, parte di una regione nota per la corruzione delle
          proprie istituzioni, non è difficile capire come le frequenti
          denunce di truffe e corruzione tendano ad evaporare in una
          nube di confusione e indifferenza.
      La settimana scorsa Koha Ditore, il
            principale quotidiano del Paese, ha pubblicato un pezzo in
            prima persona in cui Andrea Lorenzo Capussela, ex
            funzionario internazionale dell'ICO, fa letteralmente a
            pezzi un accordo che giudica illegale. Quella di seguito
            pubblicata è una versione rivista ed editata dell'articolo
            uscito su Koha Ditore. Pieter Feith, ex superiore di
            Capussela, ha reagito dichiarando che l'accordo non è
            concluso e che “il governo dovrebbe presto spiegare quali
            interessi pubblici” lo rendono necessario e quindi legale.
      Una replica dell'ufficio stampa
            dell'International Civilian Office cita "un complesso
            educativo che ospiterebbe anche l'American University in
            Kosovo". Anche in questo caso, però secondo Capussela il
            trasferimento di proprietà di un complesso educativo
            (presumibilmente pubblico) non comporta che un'università
            privata ne entri parzialmente in possesso senza alcuna gara
            d'appalto. Poiché il comunicato cita anche “imprecisioni”
            nel resoconto di Capussela, TOL ha richiesto chiarimenti
            all'ufficio stampa ICO e ha ricevuto questa risposta:
      “Come espresso nel comunicato di
            ieri, riteniamo che la versione del Sig. Capussela



            non fornisca un quadro completo né accurato del
            coinvolgimento dell'ICO nella vicenda. Ad esempio,
            consideriamo scorretto sostenere che l'ICO abbia fatto poco
            e troppo tardi, dato che il Sig. Capussela non è a
            conoscenza (né potrebbe esserlo) del persistente lavoro
            sulla questione, avendo lasciato l'Ufficio a fine marzo
            2011. Considerati i possibili risvolti legali e i nostri
            doveri di riservatezza, anche verso il Sig. Capussela, non
            possiamo scendere in ulteriore dettaglio, ma speriamo che
            questo aiuti a spiegare la nostra posizione”.


      Alle 9.10 del 23 settembre 2010,
        prendendo posto al consiglio di amministrazione dell'Agenzia per
        le privatizzazioni del Kosovo, trovai una serie di documenti che
        non erano all'ordine del giorno. Scorrendoli durante la
        discussione di altri argomenti, vidi che si trattava di un
        appezzamento di terra, tolto ad un'impresa ad amministrazione
        statale per permettere all'American University di costruirvi un
        nuovo campus.
      Alle 12.30, dopo il nostro solito pranzo
        frugale, il presidente Dino Asanaj prese la parola per chiederci
        di approvare l'esproprio e la compensazione offerta, dicendo che
        era importante per sostenere l'istruzione superiore in Kosovo.
        Era un'imboscata: i membri del CdA devono ricevere proposte e
        relativi documenti cinque giorni prima della riunione. Io dissi
        che il consiglio non avrebbe dovuto votare, perché non c'era
        tempo per studiare la questione, ed espressi dubbi sulla
        legalità dell'operazione. Il presidente insistette per votare:
        un altro collega e io ci astenemmo, mentre gli altri sei
        votarono a favore. L'unica cosa che ottenni fu un'approvazione
        “di principio”, previa verifica della legalità dell'esproprio.
      Nel tardo pomeriggio studiai le carte: il
        16 giugno 2010, il governo aveva avviato il processo di
        esproprio per 30 ettari di terreno vicino ad un nuovo complesso
        immobiliare in stile americano, detto International Village,
        costruito da una compagnia di cui Asanaj è amministratore delegato.
      La proprietà in questione appartiene ad
        AIC Kosovo Export, compagnia amministrata dall'Agenzia per le
        privatizzazioni. I documenti mostravano che la costruzione del
        campus era già iniziata. Una lettera mostrava che i termini
        dell'esproprio erano stati discussi, e apparentemente approvati,
        durante un incontro tenutosi a giugno fra l'allora ministro
        dell'Economia Ahmet Shala, l'allora ministro dell'Istruzione
        Enver Hoxhaj, il direttore vendite dell'Agenzia per le
        privatizzazioni Mrika Tahiri e Chris Hall, il presidente
        dell'università. Una lettera datata 3 settembre mostrava che il
        governo, non l'università, avrebbe pagato 3,4 milioni di euro
        all'agenzia per le privatizzazioni.
      Tutto era già stato deciso ancora prima
        che il CdA fosse informato.
      Conclusi che la transazione era illegale
        per due motivi. Primo, Kosovo Export, la compagnia proprietaria
        del terreno, è una delle tante cosiddette imprese di proprietà
        sociale in Kosovo. Si tratta di aziende, nazionalizzate in
        passato, che ora rappresentano buona parte del carico di lavoro
        dell'agenzia. Secondo la Costituzione del Kosovo, la loro
        privatizzazione può avvenire solo con una gara d'appalto. Il
        governo ne può entrare in possesso solo per chiari scopi di
        pubblico interesse e può conferirne l'uso, ma non la proprietà,
        ad un soggetto privato, sempre attraverso una gara d'appalto.
        Qui, nessuno di questi criteri veniva rispettato.
      Secondo, contrariamente a quanto
        stabilisce la legge, la compensazione proposta dal governo era
        molto inferiore al valore di mercato del terreno. Uno studio
        commissionato dall'agenzia mostrava che, quando le banche
        accettavano terreni analoghi come garanzie per prestiti,
        facevano stime fra i 50 e i 60 euro al metro quadro. Eppure la
        valutazione si fermava all'improbabile cifra di 15 euro al metro
        quadro, per una porzione di proprietà in un'area del Kosovo in
        pieno sviluppo, con permessi di costruzione e facili
        allacciamenti a strade, acqua, fognature, ed elettricità. E la
        proposta finale scendeva ad 11 euro al metro quadro. In altre
        parole, l'agenzia avrebbe dovuto ricevere almeno 39-49 euro in
        più al metro quadro, ovvero fra i 12 e 15 milioni di euro in più
        di quanto stabilito nell'accordo.
      Ma chi stava pagando il vero prezzo
        dell'affare? Il ricavato di queste vendite va a lavoratori e
        creditori delle imprese di proprietà sociale e quello che resta
        confluisce nel bilancio statale. Se il prezzo non basta a
        compensare lavoratori e creditori, questi perdono la differenza
        e non rimane nulla ai cittadini. Accettando quella
        compensazione, quindi, l'agenzia delle privatizzazioni sottraeva
        scientemente almeno 12 milioni di euro a chi vi aveva diritto.
      Questo per quanto riguarda la legalità
        dell'affare. Ma era una cattiva idea anche per diverse altre
        ragioni.
      Violazioni così palesi della legge e dei
        diritti dei creditori deteriorano ulteriormente la qualità dello
        stato di diritto e del clima d'investimento, rendendo così il
        Kosovo ancora meno attraente per gli investimenti stranieri e
        danneggiando le prospettive di sviluppo economico. In più, con
        questo accordo il governo faceva un grande regalo
        all'università, che invece non è mai stata molto generosa verso
        il Paese.
      L'American University è un'istituzione
        privata no-profit, finanziata da una fondazione benefica di New
        York, che rilascia lauree per conto del Rochester Institute of
        Technology, stato di New York. Secondo le revisioni dei conti
        consultabili sul suo sito web, negli ultimi quattro anni la
        media delle entrate è stata di 2,8 milioni di euro, e quella
        delle uscite 3,1 (queste cifre escludono un consistente
        contratto con il ministero dell'Istruzione, che negli ultimi due
        anni ha fruttato un profitto medio di 270.000 euro l'anno). Il
        95% delle entrate è rappresentato dalle tasse universitarie,
        mentre le uscite sono più diversificate: il 37% va al Rochester
        Institute of Technology, il 32 agli stipendi dei docenti, il 9
        alla fondazione benefica di New York e il 4 al presidente
        dell'università. Il resto è per computer, libri e borse di
        studio. Ma la gran parte di queste borse è finanziata dal
        governo o da donatori: l'università ci mette solo il 35%, ovvero
        l'8% complessivo delle spese e un po' meno dei profitti derivati
        dal contratto con il governo.
      In sostanza, l'università è un business
        che sfrutta l'inadeguatezza dell'offerta formativa statale e le
        difficoltà incontrate dagli studenti più abbienti ad ottenere
        visti per studiare all'estero. In cambio di alte rette, fornisce
        una discreta formazione e una laurea statunitense. Circa metà
        delle rette vanno al Rochester Institute of Technology e alla
        fondazione benefica di New York. L'istituzione è esente da
        tassazione e, considerato che preferisce mandare i profitti a
        New York piuttosto che reinvestirli in borse di studio o
        attività benefiche in Kosovo, in termini economici sono i
        cittadini del Kosovo a rimetterci nella relazione. Ciò non
        toglie che l'istruzione privata sia un business perfettamente
        legittimo e che l'American University lo porti avanti piuttosto
        bene: produce laureati con competenze medie migliori
        dell'Università di Pristina e gran parte delle private, il che
        compensa parzialmente la perdita.
      Ma cosa sarebbe successo se l'agenzia
        avesse venduto il terreno a prezzo di mercato e utilizzato il
        ricavato per finanziare lo sviluppo, invece che finanziare
        l'American University? Quei 12-15 milioni di euro avrebbero
        potuto pagare computer, laboratori e altri miglioramenti per
        l'Università di Pristina, il cui budget la Banca mondiale
        considera “modesto”. Al contrario, questa transazione riflette
        una politica della formazione che mira a sussidiare l'università
        dei ricchi trascurando quella pubblica, e così favorendo
        ulteriormente la domanda per quella privata.
      La soluzione sembrava semplice: fermare
        l'esproprio e la costruzione del campus e istituire una gara
        d'appalto per il terreno, come previsto dalla legge. Se
        l'American University avesse fatto un'offerta troppo bassa,
        avrebbe potuto costruire il campus altrove. Ovviamente avrebbe
        perso il denaro già usato per costruire, ma questo è quello che
        succede quando si costruisce su terreno altrui.
      Il giorno dopo la riunione, mandai le mie
        conclusioni a diversi colleghi dell'International Civilian
        Office, che ha l'incarico di supportare il processo di
        consolidamento istituzionale del Kosovo e rappresenta i poteri
        statunitensi ed europei, architetti della creazione del giovane
        stato kosovaro. Nel giro di 10 minuti ricevetti due risposte,
        prudentemente indirizzate solo al sottoscritto. La prima
        recitava: “attenzione caro, stai entrando in un campo minato!”.
        L'altro avvertimento era più dettagliato: “sappi che questo
        accordo è stato negoziato durante svariate passeggiate
        domenicali fra [l'ambasciatore statunitense Christopher Dell e
        il Primo ministro del Kosovo Hashim Thaci]. Potrebbe essere
        difficile da bloccare”. La questione sembrava più delicata del
        previsto, quindi ne parlai con il mio superiore Pieter Feith,
        inviato speciale UE in Kosovo e direttore dell'International
        Civilian Office, che mi incoraggiò ad agire.
      A quel punto chiesi ad un alto
        funzionario diplomatico americano all'interno dell'ICO se fosse
        possibile per lui parlare con la sua ambasciata per fare
        modifiche all'accordo. “Nessuno vuole impedire [all'American
        University] di aprire un nuovo campus, la questione è nelle
        modalità di acquisto”, scrissi in un'email. Ricevetti una
        risposta proforma, in cui si offriva di
        trasmettere le mie preoccupazioni, ma mi ricordava che
        l'università “non ha collegamenti con il governo”, nonostante
        l'ambasciata e Usaid figurino nell'elenco dei partner sul sito
        web. Qui finì la mia conversazione indiretta con l'ambasciata
        statunitense: nulla di fatto.
      Quando presentai le mie obiezioni al
        presidente Hall, arrossì e promise di proporre “miglioramenti”.
        Un altro nulla di fatto. Shala, il ministro delle Finanze, non
        rispose alle mie email.
      Lo fece invece Eulex (la missione UE
        incaricata di consolidare lo stato di diritto), ma fu una
        risposta inutile e alquanto stupida. In una lettera del 13
        ottobre Isabelle Arnal, capo dell'Ufficio speciale della procura
        in Kosovo, mi consigliò di chiedere all'agenzia per le
        privatizzazioni di impugnare esproprio e compensazione. Questo
        quando la stessa agenzia li aveva già accettati entrambi.
      Avevo mandato il mio parere anche
        all'ufficio legale dell'agenzia. Ma il 28 ottobre, con quattro
        voti a favore, uno contrario (il mio) e due astensioni, il
        Consiglio approvò definitivamente esproprio e compensazione,
        nonostante i legali avessero definito “dubbia” l'autorizzazione
        all'esproprio.
      Allora riferii a Feith dei miei
        fallimenti e invitai l'ICO a bloccare l'esproprio e la relativa
        transazione. Feith mi chiese di discutere la questione con il
        suo vice (un diplomatico americano) e altri alti funzionari, per
        poi presentare un piano d'azione. Per oltre tre mesi, le mie
        richieste di mettere a punto questo piano d'azione incontrarono
        procrastinazioni, domande, commenti futili e riunioni inutili
        quanto poco frequentate. Questa palese inerzia mi confermò che i
        difetti di questa transazione dovevano essere intenzionali, e mi
        fecero pensare che probabilmente l'ambasciatore americano aveva
        partecipato alla sua pianificazione, perché mai nell'ultimo anno
        l'ICO aveva preso una posizione non approvata dall'ambasciata.
        Ma le tattiche dilatorie dei miei colleghi raggiunsero lo scopo,
        perché ci portarono al 31 marzo, scadenza naturale del mio
        incarico.
      A fine febbraio, dissi a Feith e ai miei
        colleghi che non avrei tollerato altri ritardi: a meno che non
        mi avessero convinto che la mia interpretazione dell'accordo era
        sbagliata, mi aspettavo che l'ICO lo bloccasse entro la scadenza
        del mio contratto. Allora le cose precipitarono rapidamente: un
        collega americano mi accusò falsamente di mentire per sostenere
        la mia versione; una settimana dopo il nostro capo del
        personale, anziché sanzionare il mio collega come da me
        richiesto, mi ordinò per iscritto di non parlare dell'accordo
        fuori dall'ICO. A quel punto diedi a Feith una scadenza per
        sanzionare i due colleghi e fermare l'esproprio, avvisandolo che
        in caso contrario avrei scritto ai suoi supervisori (gli stati
        membri del Kosovo International Steering Group) per lamentare
        sia la transazione che la sua deliberata inazione in merito.
        Feith reiterò l'ordine di tacere e minacciò di licenziarmi in
        caso contrario. La scadenza passò e io scrissi agli stati membri
        dell'ISG. Feith lo venne a sapere (credo esaminando a mia
        insaputa la mia posta elettronica) e mi licenziò per motivi
        disciplinari il 30 marzo.
      Mentre le puntate di questa singolare
        vicenda si susseguivano, vedevo l'affare American University
        come un campione di laboratorio che metteva in mostra il volto
        peggiore dell'élite del Kosovo e dei suoi amici e supervisori
        internazionali: la loro avidità, meschinità, pusillanimità. Il
        loro disprezzo per i propri doveri, l'interesse pubblico e la
        dignità stessa delle loro funzioni. Ma la determinazione con cui
        si difendevano proprio questi aspetti peggiori dimostra che non
        si trattava di errori, ma di un piano preciso: abusare del
        potere pubblico per soddisfare interessi privati e massimizzare
        i profitti privati alle spese dell'interesse pubblico. Questa è
        la raison d’être
        dell'accordo.
      In uno scambio successivo, Feith mi ha
        detto di aver intrapreso “misure adeguate”, evitando però di
        specificare quali. In ogni caso, sembra che sia stato fatto
        troppo poco e troppo tardi: a quanto ne so, la costruzione del
        campus continua e credo che, ormai, chi trae profitto da questa
        operazione abbia messo al sicuro il bottino.
      Forse l'opposizione parlamentare, la
        stampa o la società civile possono ancora fare qualcosa. Se
        riuscissero a fermare questa operazione, che rappresenta tutto
        quello che c'è di sbagliato in Kosovo oggi, sarebbe
        un'importante vittoria simbolica e forse il primo passo verso
        una serie di sviluppi positivi. Dove il sistema politico è
        chiuso e inefficiente, episodi apparentemente minori possono
        dare vita a grandi cambiamenti. Almeno, vincendo una battaglia
        che ICO ed Eulex non hanno voluto nemmeno cominciare, chi aspira
        ad una miglior governance in Kosovo dimostrerà che
        queste due imperfette creature internazionali sono diventate
        inutili se non dannose: un'ottima ragione per chiedere a
        Bruxelles e Washington di riformarle o ritirarle.
      Anche se non dovesse cambiare nulla,
        esorterei l'università ad essere più generosa verso il Kosovo.
        Nel 2010 ha destinato alle borse di studio meno di 343.000 euro,
        ma ha pagato un milione e mezzo al Rochester Institute of
        Technology, 360.000 euro alla fondazione benefica di New York e
        138.000 al proprio preside. E se si deduce il profitto di
        341.000 euro derivato dal contratto con il governo, ai giovani
        kosovari resta la misera cifra di 1.500 euro.
      * Pubblicato originariamente su Transition On Line il 13 luglio 2011 col
        titolo "An Education in Deal-Making, Kosovo Style".