Già lo hanno promosso sul campo come l'uomo
dell'anno. Eppure Marchionne ha solo recuperato un'idea vecchia, quella
del puro e semplice ritorno alla percezione del plusvalore assoluto
(prolungamento del tempo di lavoro, maggiore sfruttamento).
L'amministratore delegato viene santificato proprio perché intende
rinunciare al terreno più avanzato di competizione (la percezione di
plusvalore relativo grazie all'impiego di sapere, all'uso
dell'innovazione tecnica, all'ampliamento del capitale costante) scelto
dal capitale nel '900 e recupera la abbagliante pretesa di comprimere i
costi del lavoro ogni volta che le cose vanno male all'impresa.
Più
che una strategia accorta in grado di ridare fiato a un'azienda che
rotola in grande affanno nei mercati globali, si vede solo una pigra e
costosa ossessione ideologica (dare comunque addosso al lavoro) che di
sicuro non porterà molto lontano lo stabilimento torinese nel recupero
di posizioni nelle vendite. Non è con il ripristino della sussunzione
formale del lavoro al capitale (inasprimento del potere disciplinare,
limitazioni della rappresentanza) che si assicura il ritrovamento di
margini di profitto da parte di un'azienda malandata. Con
l'accantonamento miope della tendenza storica verso la sussunzione reale
del lavoro al capitale (con più diritti, consumi e consenso) si
intraprende solo una soluzione regressiva e in definitiva di corto
respiro: il ricatto di una non scelta tra chiusura e rinuncia a tutele.
Il
problema colossale della Fiat peraltro non sembra affatto essere quello
di produrre poco a causa di una elevata conflittualità ma semmai quello
di piazzare molto poco di quanto sfornato con una certa facilità dagli
stabilimenti dispersi in mezzo mondo. Si registra oggi per la Fiat un
impressionante 26 per cento in meno nelle immatricolazioni rispetto allo
scorso anno. Il costo del lavoro e la cancellazione dei diritti
c'entrano ben poco quali ostacoli per inserirsi nel gioco globale se il
nodo autentico del marchio torinese è quello non riuscire a vendere bene
il suo prodotto. Anche per la Fiat si tratta di uscire da una classica
crisi di sovrapproduzione che contrae la domanda e la propensione al
consumo una volta che del tutto esauriti appaiono i ritrovati magici
delle carte di credito, ed esangui si rivelano i palliativi delle
furberie finanziarie. E invece di rispondere a questo tema (come
garantire al lavoro un margine più ampio di consumo) si cercano delle
inutili scappatoie.
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Il problema odierno del
capitalismo, e quindi di riflesso della Fiat, è di avere dinanzi una
forza lavoro troppo impoverita per potersi permettere il lusso di
acquistare macchine costose (un'auto di media cilindrata costa quanto un
salario annuale di un lavoratore; a un giovane precario una utilitaria
spreme almeno due anni di lavoro) e non affatto satolla per i diritti
eccessivi che l'hanno resa pigra e soddisfatta. La domanda interna,
drogata negli anni più recenti con il facile accesso al credito al
consumo che suppliva alla perdita drastica di potere di acquisto reale
dei salari, non cresce (non può), e le macchine restano del tutto
invendute negli autosaloni. Chi in questi anni ha vinto - la piccola
impresa, il commercio, il lavoro autonomo - non compra utilitarie,
orienta su altri marchi e beni posizionali le proprie scelte di consumo.
La
grande stampa plaude unanime alle mosse di Marchionne e alimenta la
credenza che dalla sua profonda crisi strategica la Fiat uscirà solo se
gli operai staranno in fabbrica con qualche pausa in meno, con diritti
affievoliti e magari trattenendo i bisogni fisiologici nell'arco della
giornata. Tanto rumore per nulla. Le decantate idee nuove del novello
uomo dell'anno non rivelano alcuna cultura dell'innovazione in grado di
ridare linfa a una grande azienda inginocchiata. La cura Marchionne è,
per la ripresa di competitività, un'aspirina ridicola dinanzi a una
malattia mortale. Di rilevante essa ha solo il truce volto politico di
chi propone lo scambio indecente tra (pochi) investimenti e (residui)
diritti.
Non ci vuole molto a conquistare i gradi di campione della
modernizzazione in questo neocapitalismo che ha un volto antico. Troppo
antico per non provocare sciagure. Marchionne piace al pensiero unico di
oggi non perché in effetti sia un geniale manager dell'innovazione di
processo e di prodotto, ma perché è un politico maldestro che stuzzica
gli appetiti inconfessabili del capitalismo d'ogni tempo: abolire i
diritti e però non tollerare alcun conflitto nella società e nella
fabbrica. Se riuscirà a fare questo, cioè a ridurre il lavoratore a pura
corporeità che vende le sue energie fisiche a un prezzo sempre
inferiore senza però trovare alcun intralcio nella resistenza della
forza lavoro organizzata, il manager con il maglione blu altro che uomo
dell'anno, sarebbe l'uomo della provvidenza che dispensa miracoli mai
riusciti a nessun capitano d'industria. Purtroppo non è così, non si ha
pace su una polveriera. Il disagio di ceti senza più speranza diventa
una cieca rivolta e non grande conflitto, impossibile quando il lavoro
non trova più i suoi referenti politici.
Quella che si ostinano a
chiamare sfida estrema all'insegna della modernità in realtà è solo una
banale ricetta che suggerisce di lavorare per più tempo, con meno
diritti. La grande impresa, con la ricetta Marchionne, cessa di essere
un luogo di relativo rispetto del ruolo del sindacato per inseguire il
modello sociale arcaico imposto dai padroncini con i loro migranti
spremuti e acquistati a buon mercato. Il manager con il maglione blu,
che in un solo giorno guadagna quanto incassa un suo operaio in due anni
di lavoro, non inventa nulla, copia i rudi padroncini che tengono i
sindacati al di fuori dei loro oscuri capannoni. Per questo piace. E' il
simbolo della grande impresa che, a corto di idee e di strategie
efficaci, viene inghiottita dallo spirito selvaggio del piccolo padrone.
C'è scarsa creatività e audacia in tutto ciò. La porzione di
capitale che in questi anni ha scrutato con una qualche diffidenza il
poco elegante berlusconismo, sotto la regia di Marchionne, sta
ricollocandosi ed è destinata a confluire nel blocco sociale della
democrazia populista che ha schiantato le capacità innovative della
società italiana. Condividono il declassamento definitivo dell'Italia a
paese semi periferico destinato a bassi salari e a una scarna civiltà
del diritto nel lavoro. Grande impresa, finanza e microcapitalismo
stanno imponendo un nuovo modello di società a diritti impoveriti.
Dev'essere così ovunque. Nelle fabbriche come negli uffici pubblici, nei
laboratori artigiani come nelle scuole, nei capannoni del micro
capitalismo territoriale come nelle università e nei centri di ricerca.
L'innovazione significa precarietà, discesa (drammatica per i più
giovani) dei salari ai livelli minimi della mera riproduzione fisica
della forza lavoro. Ma l'Italia è già da anni agli ultimi posti al mondo
per i salari, oltre c'è solo il precipizio.
Il miraggio cinese che
attira l'amministratore delegato della Fiat è una follia improponibile.
Con i salari di Pechino ci vorrebbero più di 30 anni di lavoro per
comprare una punto. Il progetto Marchionne è in realtà una propaganda
ideologica, non una terapia d'urto in grado di portare l'azienda fuori
della sua crisi strutturale. Con il suo populismo padronale incasserà un
successo politico ma non imprimerà alcuna svolta alle relazioni
industriali. E per questo l'uomo dell'anno è per intero nel declino, non
è una alternativa alla triste decadenza italiana. Marchionne insomma
non è un grande manager consapevole dei ferrei imperativi del tempo
globale, è piuttosto un piccolo ideologo politico che insegue i mulini a
vento dell'umiliazione del lavoro e delle sue rappresentanze. Di
crescita neanche a parlarne.
"il manifesto" 5/1/2011
Ugo Beiso
Non potendo rafforzare la giustizia si è giustificata la forza B. Pascal