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BOLZANETO
«Lì scoprii la banalità del male»
Luca Arrigoni fu uno dei primi a denunciare le torture nella caserma. Ora si racconta
Le violenze gratuite, gli inni fascisti e oggi l'impunità. «Era assurdo sperare»
Alessandra Fava
GENOVA
Nell'unico sopralluogo fatto dai magistrati genovesi alla caserma di Bolzaneto l'8 agosto 2001 c'erano tre savonesi, tra i primi a denunciare gli spruzzi col gas urticante alle finestre, le botte e gli inni fascisti e far aprire un fascicolo in procura. Il sopralluogo fu fissato il giorno successivo alle dimissioni imposte dall'allora ministro Claudio Scajola ad Ansoino Andreassi, Arnaldo La Barbera e il questore genovese Francesco Colucci. Agli occhi degli avvocati che assistevano i pestati la visita a Bolzaneto sarebbe stato un punto fermo per le indagini che s'arricchivano giorno dopo giorno delle prime denunce che arrivavano per telefono, perché gli stranieri usciti dagli ospedali o dalle carceri furono subito allontanati dal territorio italiano. L'edificio in cui erano state detenute e picchiate decine di persone era talmente piccolo che sembrava impossibile dire: non sapevo. Invece ci vollero più di tre anni per arrivare all'inizio del processo. Uno dei tre savonesi era Luca Arrigoni, ora 27enne, studente di scienze della comunicazione e lavoratore part-time in un negozio video.
Non erano passate neppure tre settimane. Che cosa ricordi?
Avevamo sporto denuncia, perciò ci avevano chiamato. Non avrei mai voluto tornare in quel posto. Mi metteva un'ansia tremenda. Era come aprire una scatola che volevo chiudere e invece tutto era chiarissimo, ci ricordavamo dove ci avevano visitato, dove ci identificavano, dove erano successe le violenze. La cosa più tremenda è stato ritrovare là anche uno di quelli che mi avevano portato nelle celle, uno con la mascella pronunciata che si occupava della spola e ci aveva letteralmente lanciato fuori dal pullman. Insomma due settimane dopo in servizio a Bolzaneto c'erano gli stessi, con lo stesso atteggiamento strafottente. Perciò all'angoscia si univa la paura. Ma il magistrato mi disse che non era il momento di procedere ai riconoscimenti. Tante malizie forse le ho capite già allora.
Come mai eri a Genova?
Avevo vent'anni, non ero particolarmente schierato anche se arrivo da una famiglia di sinistra ma moderata. Ero venuto a Genova per caso, per sfida contro i miei. Esperienza di manifestazioni zero. Era il sabato del G8, siamo andati a Boccadasse e ci siamo uniti al corteo. Quando siamo arrivati a piazzale Kennedy c'è stata una carica, abbiamo cercato di fuggire e una genovese ci ha aperto un garage. E' stato là che la finanza e la polizia ci ha arrestato, messo in ginocchio per la strada e ritirato i documenti. Ma non ci perquisirono e io che avevo ancora il cellulare riuscii a chiamare mia madre e dirle che stavo bene, ero in arresto ma non avevo fatto niente. Per questo lei poi attraverso delle conoscenze seppe che ci avevano portato a Bolzaneto e venne fuori della caserma nella notte. Due poliziotti le dissero che era tutto a posto, che era già passato il carrello delle vivande e di star tranquilla perché avevamo anche le coperte e lei tornò a casa.
Che cosa è cambiato da allora?
Ho cambiato idea sullo stato e i suoi apparati. Mi sono chiesto che cosa poteva essere calcolato, previsto. Ho aperto gli occhi su tante questioni. Intanto prima del G8 studiavo ingegneria e pensavo di entrare nell'esercito. Dopo, sono passato a scienze della comunicazione e forse anche grazie ai miei studi ho trovato la ragione storica di quello che mi era successo e seguendo il processo sui giornali e in aula ho capito che ogni sforzo era teso a non delegittimare lo stato. In qualche modo la sentenza dell'altro ieri è consequenziale a questo. Insomma è stata una delle questioni centrali della mia vita per tanto tempo.
Come ne sei uscito?
Grazie agli amici. Anche quello che era con me a Bolzaneto. Così ho superato le violenze fisiche perché nella caserma ho preso anche un calcio fortissimo nel coccige, che mi sono fatto operare tre anni dopo. Mentre per rimettermi in sesto dal punto di vista psicologico è stata più lunga, forse ne sono uscito solo da pochi anni. Allora mi sentivo una bestia dentro che mi mangiava di continuo. Non ho voluto chiudermi in un centro sociale, non ho voluto frequentare solo gente che potesse comprendere. Ho continuato a parlarne con tutti, ma la reazione della persona media era di trattare il fatto come una disattenzione, un incidente, mentre penso che Bolzaneto sia uno dei fatti più gravi degli ultimi anni, anche se tutta la storia italiana è piena di macchie. O forse c'è da pensare che si vive meglio nell'ignoranza, nell'ignorare di essere ignoranti. In effetti prima ero più spensierato e meno consapevole, anche se, tornassi indietro, scapperei a Genova di nuovo. Siccome poi nella vita ci sono sempre dei paradossi, uno dei miei migliori amici era entrato in polizia mentre io uscivo dalla prigione di Alessandria.
Che cosa pensi della sentenza di primo grado?
C'è un clima di tensione in questo paese che pochi percepiscono. Speravo che la sentenza facesse un passo verso la giustizia. Eppure se guardo il governo, guardo la crisi, mi rendo conto che era assurdo sperare. La battaglia si gioca sull'autorità. Vedi, quello che mi ha ferito di più è la facilità con cui venivano commesse delle cattiveria. Atti di violenza gratuita a persone inermi. A vent'anni scoprire un lato dell'essere umano che ignoravo è stato allucinante. E se poi queste violenze arrivano da un mio coetaneo, riesco a capacitarmene ancora meno. Ho visto bruciare le sigarette sul corpo di qualcuno, buttare il gas lacrimogeno alle finestre, ho sentito gli inni fascisti e gli sfottò contro gli arrestati. Direi, un quadro che diventa tipicamente italiano.