Il Tibet, la Cina e i Lama-party della sinistra "radical"
Le mutevoli folgorazioni che spesso influenzano le scelte del ceto
politico di sinistra riservano sempre delle bizzarre sorprese: dalle
calde foreste del Chiapas l'attenzione ora si è spostata ai freddi
altopiani del Tibet, a sostegno del Dalai Lama e con chiari intenti
anticinesi. Emerge, come d'abitudine, la propensione a pontificare su
quello che succede in casa altrui e, come sempre, il separatismo (del
Kosovo, della Cecenia o del Tibet) è una bandiera che certa sinistra
continua a sventolare con desolante supponenza. Proviamo ad immaginare
la reazione se i comunisti cinesi dovessero offrire il loro sostegno
ai separatisti della Padania. Allora, chi è e cosa vuole questo
stravagante Dalai Lama che all'austerità dei templi buddisti
preferisce confortevoli soggiorni negli hotel a 5 stelle dell'emisfero
occidentale?
Riteniamo utile riassumere i fatti storicamente assodati che hanno
segnato i principali passaggi del Tibet, dall'oscuro medioevo lamaista
al suo attuale trend di sviluppo economico e sociale come entità
autonoma del grande pianeta Cina.
Dal 1727 – ossia ben prima che la Padania e il regno delle due Sicilie
diventassero parte integrante dello Stato italiano – il Tibet è
diventato, a sua volta, parte integrante della Cina, sotto forma di
dipendenza autonoma. In quanto tale è sempre stato dominato (fino alla
rivoluzione) da un regime teocratico autoritario, con tutto il potere
concentrato nella mani del Dalai Lama, capo spirituale e temporale.
Tutta la terra era di proprietà del Gran Lama e della gerarchia
teocratica buddista-lamaista, espressione di un rapporto di produzione
feudale basato sulla servitù della gleba, con larghe fasce di
schiavitù. L'investitura del Lama era sottoposta e ratificata alla
corte imperiale di Pechino. Questa prassi è stata mantenuta anche nel
periodo del Kuomintang.
La Repubblica popolare cinese ha assunto il controllo del territorio
tibetano il 23 maggio 1951. Da quel momento inizia un lungo processo
di trasformazione sociale che comprende l'abolizione della servitù
della gleba e della schiavitù, la distribuzione dei pascoli ai
contadini senza terra (non esistono a quell'altitudine altre
significative coltivazioni agricole) e la costituzione di cooperative.
Inizia nel contempo il programma di alfabetizzazione di massa con
partenza da quota zero.
La costituzione cinese riconosce al Tibet (e non solo al Tibet) lo
status di repubblica autonoma che comprende il riconoscimento della
lingua, della cultura e della religione (all'incirca quello che la
Costituzione italiana riconosce alle regioni autonome della Valle
d'Aosta e del Trentino-Alto Adige).
Nel 1959 un tentativo insurrezionale di bande armate addestrate dalla
CIA in California (archivi resi pubblici dalla stessa CIA) viene
sventato dalla popolazione di Lhasa che insorge in massa e costringe
il Dalai Lama alla fuga in India. Sono totalmente false le accuse di
genocidio rivolte alla Cina: la popolazione è più che raddoppiata
negli ultimi 40 anni e, dei 2,7 milioni di abitanti, il 90% è di
origine tibetana, e solo il 10% è composto da residenti di etnie
diverse. La speranza di vita è salita dai 35 anni dei primi anni
cinquanta ai 69 di oggi. Credo che l'ultima persona al mondo titolata
a parlare di diritti umani sia il Dalai Lama.
Spunti interessanti sulla politica di smembramento perseguita da
Washington contro la Cina sono presenti nel libro "La grande
scacchiera" di Z. Brzezinski, un insospettabile autore celebrato come
lucido stratega del pensiero imperialista americano. A chi si sentisse
irresistibilmente attratto dal tema dei "diritti umani" di ispirazione
lamaista consiglierei di farsi la faticosa gita che dal Tibet,
attraverso il colle sud dell'Everest, conduce nel contiguo Nepal, il
piccolo stato himalayano sconvolto fino al 2006 da una guerriglia
contadina, scoppiata nel 1996. Seguendo l'esempio dei loro fratelli
tibetani, con cui sono legati da secoli, i contadini nepalesi sono
insorti per liberarsi dalla servitù della gleba e dalla schiavitù,
ossia dagli stessi rapporti feudali che il Dalai Lama amministrava nel
Tibet prima della rivoluzione. L'inviato in Nepal di Le Monde
Diplomatique, Cedric Gouverneur, ha scritto sul n° 11 del 2003: "Una
parola ritorna costantemente sulla bocca di ogni guerrigliero
intervistato: sviluppo! Gli insorti vogliono medici, strade, ponti,
elettricità, dighe e poter esportare i loro raccolti. Vogliono
semplicemente uscire dalla miseria". Evidentemente sono state le
trasformazioni nel Tibet moderno che hanno acceso le speranze dei loro
fratelli nepalesi. Vediamole queste trasformazioni.
Dalla metà degli anni 90 il PIL del Tibet è aumentato del 13% l'anno,
ossia più degli eccezionali ritmi di sviluppo della stessa Cina. Le
opere edili sono raddoppiate e il commercio, che fino ad una decina di
anni fa si svolgeva quasi esclusivamente col confinante Nepal, è
cresciuto di 18 volte rispetto al 95. Con gli stessi ritmi vengono
sviluppati il sistema sanitario e quello scolastico (entrambi
inesistenti nel passato). Nel 2001 il governo di Pechino ha stanziato
65 miliardi di yuan per finanziare progetti di infrastrutture che
permettano ai tibetani di uscire dal medioevo buddista- lamaista e di
approdare nell'universo contemporaneo usufruendo dei vantaggi offerti
dal progresso economico e sociale che sta trasformando la Cina
popolare.
Fino a pochi mesi fa l'unica via di comunicazione tra il Tibet e il
resto della Cina era una strada dissestata che partendo da Golmund
(provincia del Qinghai) consentiva ai camion di accedere a Lhasa in
50/60 ore di viaggio. Oggi lo stesso percorso si compie in 16 ore sul
modernissimo "treno del cielo" che corre lungo i binari della più alta
ferrovia del pianeta: oltre 1200 km. costruiti lungo un itinerario da
fantascienza, a oltre 5.000 m. di altitudine.
Sarebbe questa la "devastazione freddamente calcolata dalle autorità
cinesi" che, come ci racconta il Dalai Lama, starebbe distruggendo le
tradizioni e la cultura religiosa del popolo tibetano?
Possibile che il ceto politico di sinistra non venga sfiorato dal
dubbio di cadere nel ridicolo prestando fede alle lamentazioni di
questo bizzarro personaggio
Sergio Ricaldone
http://www.resistenze.org
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"Non vedo nessun Dio quassù"
(Yuri Gagarin)
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(Groucho Marx)
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(Piergiorgio Bellocchio)
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