[NuovoLab] Iraq: "Questa avventura ha ucciso un iracheno su …

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Author: Edoardo Magnone
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To: forumgenova
Subject: [NuovoLab] Iraq: "Questa avventura ha ucciso un iracheno su 40"

Leggendo questo articolo di Richard Horton uscito sul giornale "Guardian"
(originale in http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,,1919977,00.html e
tradotto da O.Sangiovanni per Altremappe) mi è tornata in mente la frase di
Gianfranco Fini rivolta a Prodi:

"Presidente, lei, nel discorso d’insediamento parlò di truppe d’occupazione. Si
ravveda e dica che è sbagliato: in Iraq le nostre non sono truppe
d’occupazione, ma, come ha detto D’Alema, sono in Missione di Pace".

Cordialmente,
Edoardo Magnone

PS.Alle volte le associazioni di idee sono davvero strane e ti fanno venire in
mente le cose più disparate.

_______________________________________________

http://www.altremappe.org/mdpro/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=450

Il governo farà tutto il possibile per screditare l'ultima stima delle vittime
civili dall'invasione: 650.000

di Richard Horton

Guardian, 12 ottobre 2006

In molti si rifiutarono di credere al rapporto di Lancet nel 2004 da parte di un
gruppo di specialisti in salute pubblica americani e iracheni che avevano fatto
un indagine casa per casa in tutto il Paese e scoperto che dall'invasione da
parte della coalizione nel marzo 2003 c'erano state 100,000 morti irachene in
eccesso.
Diversi ministri vennero schierati per distruggere la credibilità dei risultati
e, in gran parte, ci riuscirono. Ma adesso le loro negazioni sono tornate a
perseguitarli, perché le cifre dall'Iraq sono state confermate da un ulteriore
studio.

Lo stesso team della Johns Hopkins University ha lavorato assieme ad alcuni
medici iracheni per visitare oltre 1.800 case in Iraq, scelte in modo casuale
per essere sicuri che nessun giudizio preconcetto potesse insinuarsi nei loro
calcoli.

Essi hanno identificato più di 12.000 membri di famiglie e rintracciato quelli
che erano morti in un intervallo che copriva sia il periodo precedente
all'invasione che quello successivo. Gli intervistatori iracheni parlavano
correntemente l'inglese nonché l'arabo, ed erano tutti ben addestrati per
raccogliere le informazioni che stavano cercando. Hanno chiesto il permesso a
ogni famiglia di utilizzare i dati che volevano. E hanno cercato in tutti i
modi di trovare i certificati di morte in più di quattro casi su cinque per
essere sicuri di avere un controllo incrociato sui numeri e le cause di morte
forniti loro dai familiari.

Tutti questi controlli significano che le 650.000 vittime irachene in eccesso
dall'invasione da essi riferiti costituiscono la stima più affidabile che
abbiamo sulle morti civili. La maggior parte di queste morti sono state di
uomini di età compresa tra i 15 e i 44 anni.

Non solo abbiamo una comprensione migliore del prezzo che la nostra invasione ha
avuto sul Paese, ma capiamo anche meglio in che modo queste morti si sono
verificate. Prima dell'invasione, solo una proporzione assai piccola delle
morti era dovuta alla violenza. Ma dall'invasione più di metà di tutte le morti
sono state dovute a cause violente. E' la nostra occupazione e il fatto che
continuiamo a restare in Iraq che stanno alimentando questa violenza. Le
affermazioni secondo le quali la minaccia terroristica c'era sempre stata
vengono semplicemente confutate da questi risultati.

Anche la natura di queste cause è cambiata. All'inizio, nel periodo successivo
all'invasione, le morti venivano aggravate dai bombardamenti aerei. Ora però le
ferite da arma da fuoco e le autobomba stanno avendo un effetto assai maggiore.
Lungi dal fatto che la nostra presenza in Iraq stia stabilizzando il caos o
alleviando il ritmo con cui stanno aumentando le vittime, sembra che stiamo
peggiorando la situazione. Ogni anno dopo l'invasione, i tassi di mortalità
dovuti alla violenza sono aumentati.

La cifra totale di 650.000 è veramente sbalorditiva. Essa rappresenta il 2,5%
dell'intera popolazione irachena. Nel 2004 Lancet venne criticata per aver
pubblicato una cifra che sembrava avere un grado elevato di incertezza. La
stima migliore allora era di 98.000 morti. Ma l'incertezza significava che essa
avrebbe potuto avere 8.000 come limite inferiore o 194.000 come limite
superiore.

Anche nell'ultimo studio c'è un ampio grado di incertezza, ma anche la cifra più
bassa possibile da esso fornita per il numero delle morti - 400.000 - rende
chiaro quanto sia stato terribile il nostro intervento in Iraq. La cifra più
alta possibile è di oltre 900.000. Guardando questi numeri, dobbiamo ammettere
che abbiamo creato un disastro umanitario di proporzioni senza precedenti per
una politica estera che avrebbe dovuto proteggere le popolazioni civili, non
far loro subire un danno sempre maggiore.

Perché questa stima di Lancet è tanto più alta delle cifre diffuse dal
Presidente Bush o dal sito di Iraq Body Count? Essi danno il numero delle
vittime nelle decine di migliaia, non nelle centinaia di migliaia. Per essere
giusti, Iraq Body Count non afferma di pubblicare numeri assoluti accurati
delle morti. Piuttosto, le loro cifre sono molto utili per misurare le
tendenze. Ma la ragione della discrepanza tra queste stime più basse e la nuova
cifra di 650.000 morti sta nel modo in cui essa viene cercata. La sorveglianza
passiva, il metodo più comune utilizzato per stimare i numeri delle vittime
civili, fornirà sempre una stima per difetto del numero totale delle vittime.
Lo sappiamo dalle guerre e dalle zone di conflitto passate, dove le stime sono
state troppo basse di un fattore di 10 o persino di 20.

Solo quando si esce e si bussa alla porta delle famiglie, cercando le morti in
modo attivo, si inizia ad avvicinarsi al numero corretto. Questo metodo adesso
è ampiamente testato. Esso è stato la base delle stime sulla mortalità in zone
di guerra come il Darfur e il Congo. Cosa interessante, quando riferiamo le
cifre da questi paesi i politici non le contestano. Aggrottano la fronte,
annuiscono con la testa, e convengono che la situazione è grave e
intollerabile. La comunità internazionale deve agire, dicono. Quando si tratta
dell'Iraq la storia è diversa. Aspettatevi che l'attuale governo mobiliti tutti
i suoi sforzi per erodere la credibilità del lavoro fatto da questo team
americano e iracheno. Aspettatevi che il governo critichi Lancet per essere
troppo politica. Aspettatevi che il governo faccia tutto il possibile per
ignorare questa storia e lavarsi le mani delle sue responsabilità di prendere
sul serio queste ultime conclusioni.

Ma se stessimo parlando del rischio del fumo per la popolazione, e avessimo
pubblicato ricerche che dimostrano l'effetto del tabacco sulla mortalità, pochi
metterebbero in discussione il messaggio o l'importanza che gli scienziati e le
riviste mediche si impegnassero attivamente in un dibattito pubblico. Per
l'Iraq, ora la violenza è la priorità in materia di salute pubblica. E' un
argomento appropriato per la scienza ed è un argomento appropriato perché una
rivista medica lo commenti.

Quindi, qual è la conclusione giusta di questo lavoro? In che modo quest'ultima
ricerca dovrebbe informare la politica pubblica? Innanzitutto, l'Iraq è una
emergenza umanitaria inequivocabile. I civili stanno venendo danneggiati dalla
nostra presenza in Iraq, non aiutati. Questo dovrebbe costringerci a fermarci e
a chiederci cosa stiamo facendo e perché. Non c'è da vergognarsi a dire che
abbiamo sbagliato politica. Inoltre, abbiamo un obbligo legale in base alle
Convenzioni di Ginevra di fare tutto il possibile per proteggere le popolazioni
civili. Queste conclusioni mostrano non solo che non stiamo rispettando
quest'obbligo legale, ma anche che lo stiamo sovvertendo progressivamente anno
dopo anno.

E, infine, possiamo dire in modo veritiero che la nostra politica estera -
basata com'è sui concetti del 19° secolo dello stato-nazione - ha perduto da
molto tempo la sua validità. Abbiamo bisogno di un nuovo insieme di principi
per governare la nostra diplomazia e la nostra strategia militare - principi
che siano basati sull'idea della sicurezza umana e non su quella della
sicurezza nazionale, sulla salute e il benessere e non sull'egoismo economico e
sull'ambizione territoriale.

La speranza migliore che possiamo avere dalla nostra terribile disavventura in
Iraq è che crescerà un nuovo movimento politico e sociale per ribaltare questa
politica di umiliazione. Siamo un'unica famiglia umana. Comportiamoci di
conseguenza.

Richard Horton è il direttore di Lancet

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)