Autore: clochard Data: Oggetto: [Cerchio] certo, 1 intervento "riformista",
tutto dentro le coordinate del diritto borghese...
certo, 1 intervento "riformista", tutto dentro le coordinate del diritto
borghese...
Luigi Ferrajoli *
* docente universitario - Comitato scientifico Megachip
A me pare significativo che, anche nel seminario di Megachip, si sia
insistito sul problema della informazione televisiva. Ed anche questo mio
intervento verterà su di esso. Non verrà mai ripetuto abbastanza infatti che
la televisione si configura come il principale problema odierno della
democrazia. Non soltanto in Italia. Il fenomeno è globale, e si manifesta
nella costante espansione degli attuali imperi mediatici, nell'informazione
omologata e omologante da essi imposta a livello planetario, nella rigida
alleanza da essi stretta con i poteri di governo.
Nella Russia di Putin il presidente ha messo le mani su gran parte dei mezzi
d'informazione, attraverso il controllo della Gasprom, cioè dell'azienda
statale del gas, e la neutralizzazione di quasi tutti quelli di opposizione.
Negli Stati Uniti, poi, la vecchia libertà di stampa come "quarto potere" e
il vecchio pluralismo dell'informazione sono in pochi anni diventati poco
più che un ricordo. Buona parte dell'informazione giornalistica e
radio-televisiva è oggi nelle mani di cinque grandi corporations. E si è
perfino tentato, per compensare il loro schieramento compatto a sostegno
della guerra di Bush, di elevare ulteriormente il tetto anti-trust: una
proposta di portarlo dal 35% al 45% dell'audience, avanzata dalla Federal
Communications Commission presieduta da Michael Powell, figlio del
segretario di Stato Colin Powell, è stata fortunatamente bocciata dal Senato
il 3 settembre dello scorso anno.
Il conflitto di interessi, che ormai sarebbe bene chiamare confusione di
interessi e di poteri, sta dunque diventando una dimensione generale delle
odierne democrazie, delle quali rischia di vanificare, al tempo stesso, il
carattere liberale e la forma rappresentativa: per il venire meno della
libera informazione e, insieme, di quella separazione tra politica e affari,
tra sfera pubblica e interessi privati che della rappresentanza politica,
quale rappresentanza di tutti i cittadini e degli interessi generali, forma
il presupposto elementare. Dove poi la titolarità degli interessi economici
e dei poteri di governo viene a coincidere in capo a una stessa persona, è
l'intero assetto dello stato di diritto e della democrazia politica che
rischia di regredire a forme neo-assolutistiche e patrimoniali di tipo
premoderno.
Una simile concentrazione sarebbe comunque allarmante, chiunque la
detenesse, giacché è comunque un potere politico, oltre che economico, che
vale a condizionare e a limitare potentemente la libertà di informazione, di
critica e di dissenso e insieme il diritto a un'informazione quanto più
possibile non manipolata. Ma si risolve in un'appropriazione privata della
democrazia allorquando si mobilita dapprima nella costruzione di un partito
di massa e poi, conquistato il potere e con esso anche il controllo della
televisione pubblica, nel sostegno diretto neppure di uno schieramento
politico, neppure di un sistema di interessi economici e sociali, ma
direttamente dei privati interessi del suo proprietario, divenuto grazie ad
essa presidente del consiglio.
Naturalmente è vano sperare che questi processi degenerativi subiscano,
durante questa legislatura, una battuta d'arresto. E' probabile che la
pronuncia della Corte Costituzionale sulla famigerata legge Gasparri, se e
quando arriverà, sarà nuovamente aggirata. Il tratto specifico di questa
maggioranza e del suo capo è infatti l'assoluta mancanza di senso del
limite, della misura e della decenza. La sola speranza è che l'indecenza e
la voracità illimitata superino anche le altissime capacità di sopportazione
dell'elettorato. Cosa che le recenti elezioni amministrative incoraggiano a
far cautamente sperare.
E tuttavia è sul rapporto tra proprietà dei media, libertà di informazione,
diritto all'informazione e poteri di governo che dovrebbe oggi aprirsi un
serio dibattito e dovrebbero impegnarsi la riflessione politica e
l'iniziativa riformatrice di un prossimo governo di centro-sinistra che
avesse a cuore il futuro della democrazia. Non ci sono, naturalmente,
soluzioni facili. Ma nessun problema di garanzie è in via di principio
insolubile, se non vogliamo contrabbandare come utopia ciò che semplicemente
non si ha l'interesse o la volontà di fare.
Se riconosciamo che la proprietà dei mezzi d'informazione è un potere, al
tempo stesso economico e politico, ci sono infatti almeno due regole,
consegnateci dalla tradizione teorica dello stato di diritto, cui essa deve
essere sottoposta, come ogni altro potere, onde ne sia impedita
l'accumulazione in forme assolute. La prima regola è la soggezione alla
legge, cioè a limiti e a vincoli idonei a garantire la libertà
d'informazione nei due sensi sopra distinti. La seconda è la separazione dei
poteri, che è poi la vecchia ricetta di Montesquieu che non può non essere
estesa a quel "quarto potere" nel quale si è soliti identificare la stampa,
affinché esso sia realmente "quarto", cioè indipendente sia dai poteri
politici che da quelli economici.
Le due regole sono entrambe essenziali alla tutela della libertà
d'informazione nel primo dei due significati qui distinti. La principale
garanzia di tale libertà è infatti la sua separazione e la sua indipendenza
dalla proprietà, essenziali all'informazione non meno di quanto indipendenza
e separazione lo siano al potere giudiziario nei confronti del potere
esecutivo. Se è vero che il diritto di informazione è divorato dalla sua
confusione con la proprietà, allora il rimedio consiste nel distinguere e
nel separare questi due diritti e nel capovolgere il loro attuale rapporto:
nel sottoporre il potere imprenditoriale delle aziende giornalistiche e
soprattutto televisive, siano esse pubbliche o private, ai limiti e ai
vincoli rappresentati dall'indipendenza della libertà di stampa e
d'informazione.
Ovviamente non è un'operazione semplice. E tuttavia un futuro statuto dei
diritti dell'informazione ben potrebbe ridurre e perfino neutralizzare il
potere della proprietà con molteplici garanzie: dall'elezione o quanto meno
dal concorso decisivo delle redazioni nella nomina dei direttori delle
testate, all'istituzione - accanto all'antitrust - di autorità di garanzia
indipendenti, specificamente deputate alla tutela della libertà dei
giornalisti e dell'autonomia delle redazioni; dal divieto di licenziamenti
arbitrari, di discriminazioni e censure, alla previsione di finanziamenti
pubblici espressamente condizionati all'assenza di controlli padronali.
Attualmente esiste in Italia un'Autorità per le garanzie delle comunicazioni
(il vecchio "Garante dell'editoria") di nomina parlamentare, con funzioni
prevalentemente tecniche ed oggi, di fatto, a seguito di un decreto
legislativo n. 259 del 2003, commissariata dal governo. Si tratterebbe di
trasformarla in una vera Autorità indipendente, dotata di effettivi poteri
di vigilanza e di tutela della libertà di manifestazione del pensiero e
dell'indipendenza dell'informazione e formata, perché sia garantita la sua
stessa indipendenza, da membri non già nominati dal potere politico ma
eletti, almeno nella loro maggioranza, dalle federazioni dei giornalisti e
dalle associazioni degli utenti.
Non meno importante è la garanzia del diritto dei cittadini
all'informazione. Una prima garanzia è naturalmente il divieto di
concentrazione delle testate. Ma in forme ben più rigide di quelle previste
dalla legislazione vigente. Semplicemente, dovrebbe essere preclusa agli
investitori, sia nazionali che stranieri, la proprietà privata di più di un
quotidiano o di una rete televisiva. E' questo il solo modo per assicurare
un effettivo pluralismo e un'effettiva differenziazione dei mezzi di
informazione. Se la funzione dei mezzi d'informazione è quella appunto di
fornire informazioni, critiche e opinioni, e di essere luoghi di pubblico
dibattito, non si capisce perché mai non dovrebbe essere sufficiente a tal
fine una sola testata. Né si capisce perché mai i maggiori investimenti non
dovrebbero essere diretti a rafforzarla, ad accrescerne la qualità e la
diffusione, anziché ad acquistare e perciò a controllare e a neutralizzare
le testate concorrenti. Già oggi, del resto, mentre nelle comuni attività
imprenditoriali è vietato dall'art.82 del Trattato della Comunità Europea
"l'abuso di posizioni dominanti sul mercato comune", in materia di imprese
giornalistiche e televisive è preclusa, dalla sentenza della Corte
costituzionale n.420 del 1994 e poi dall'art.2 della legge n.249 del 1997 -
violato serenamente fino ad oggi e travolto dalla legge Gasparri - la stessa
"formazione di posizioni dominanti". Quanto poi alle economie di scala nelle
infrastrutture necessarie all'informazione televisiva (reti, cavi,
radio-frequenze, satelliti e simili), con cui di solito vengono giustificate
le concentrazioni, esse ben potrebbero essere realizzate affidandone la
gestione alla sfera pubblica (come la rete stradale) o anche, come si sta
sperimentando in Germania, a consorzi aperti a tutte le imprese.
Andrebbe poi riconosciuto il carattere di luogo e di spazio pubblico ormai
chiaramente assunto dalle televisioni, siano esse pubbliche o private, e ne
andrebbe perciò garantito, grazie anche alla vigilanza dell'autorità di
garanzia, il ruolo di contro-poteri, ossia di strumenti di informazione, di
critica e di controllo sul potere, liberi da censure e discriminazioni
interne e da costrizioni o imposizioni esterne. Onde impedire la dipendenza
dell'informazione e della qualità dei servizi dalla pubblicità, si potrebbe
inoltre introdurre una misura tanto semplice quanto efficace: la previsione
di un adeguato finanziamento pubblico, inversamente proporzionale agli
introiti pubblicitari e/o agli spazi riservati alla pubblicità. Una simile
misura varrebbe anche a distinguere chiaramente le televisioni commerciali
dalle televisioni di informazione.
Infine andrebbe rafforzato il servizio pubblico, con una politica
esattamente opposta a quella delle privatizzazioni. C'è una norma nella
nostra Costituzione, l'articolo 43, che sembra pensata proprio per il nostro
problema, pur se fu scritta quando ancora la televisione non esisteva: "Ai
fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o
trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti
pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o
categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a
fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di
preminente interesse generale". Quale mai "servizio pubblico" è più
"essenziale" e ha maggiormente "carattere di preminente interesse generale"
di quella che ormai è diventata l'odierna arena politica, cioè la sede più
visibile, più affollata, più invadente e più decisiva del dibattito pubblico
e della formazione del consenso? Non dimentichiamo che fu proprio su questa
norma che per decenni la Corte costituzionale fondò la legittimità del
monopolio statale del servizio radiotelevisivo su scala nazionale. La
"riserva allo Stato" di tale servizio, essa affermò nella sentenza n.148 del
21.7.1981, si giustifica "in vista del fine di utilità generale costituito
dalla necessità di evitare l'accentramento dell'emittenza radiotelevisiva in
monopolio od oligopolio privato". E aggiunse, con lungimiranza: "L'asserito
aumento della disponibilità delle frequenze non appare infatti elemento
determinante per escludere il pericolo di oligopoli privati, in quanto una
serie di fattori di ordine economico, con la utilizzazione del progresso
della tecnologia, fa permanere i rischi di concentrazione oligopolistica
attraverso lo strumento della interconnessione e degli altri ben noti mezzi
di collegamento di vario tipo oggi esistenti per le trasmissioni
televisive".
Ovviamente non si tratta, oggi, di ristabilire il monopolio statale, ma
semplicemente di evitare non diciamo gli "oligopoli privati" paventati più
di venti anni fa dalla Corte ma l'attuale monopolio politico-privato. Né si
tratta di ridurre a anche solo di scoraggiare le televisioni private, ma al
contrario di garantirne la concorrenza, grazie a un loro effettivo
pluralismo, in aggiunta a una forte televisione pubblica.
(Per una più completa trattazione del problema, vedi dello stesso autore su
"La rivista del Manifesto", gennaio 2004)