Autore: clochard Data: Oggetto: [Cerchio] x ki nn ha comprato il manifesto 1
Registrazioni da un incubo
La New York Port Autorithy (l'ente proprietario delle Torri gemelle) è
costretto a rendere pubbliche le trascrizioni di 260 ore di telefonate
avvenute l'11 settembre. La cameriera chiede il permesso di fracassare una
finestra, il lavavetri avverte i pompieri di non salire, la poliziotta non
capisce cos'è che sta cadendo («Corpi, ho detto corpi»)... Dopo quasi due
anni l'inferno ritorna, questa volta su nastro
MARCO D'ERAMO
«Saltano fuori dalla Torre Uno sul lato sud.» - «Cosa ha detto che sta
saltando?» - «Gente. Corpi vengono fuori dal cielo, in cima all'edificio».
Questo è un frammento delle 260 ore di conversazione registrate l'11
settembre 2001 tra i funzionari della Port Authority di New York (che
gestiva le torri gemelle del World Trade Center) e le persone intrappolate
negli edifici. L'altro ieri, infine, la Port Authority ha reso pubbliche
quasi 2.000 pagine di trascrizioni di queste registrazioni. I nastri
registrati furono trovati alcune settimane dopo l'attacco terrorista tra le
macerie di una delle due torri. La stampa Usa chiese di poter visionare le
registrazioni per valutare l'efficienza nei soccorsi e capire se era stato
fatto tutto il possibile per salvare vite umane. La Port Authority si
rifiutò di rilasciarle e così più di un anno e mezzo fa, il 29 marzo 2002,
il New York Times intentò causa in base al Freedom of Information Act, legge
sulla libertà d'informazione. La Port Authority rilasciò allora le
registrazioni di 73 minuti di conversazioni dei pompieri, ma si rifiutò di
rendere pubbliche le altre «per ragioni umanitarie». Alla fine il quotidiano
newyorkese ha vinto la causa e l'altroieri la totalità delle trascrizioni è
stata resa pubblica. Alcune famiglie dei defunti protestano: «È stato uno
schiaffo in faccia per me e i miei bambini, come se tutto accadesse di
nuovo», dice alla Bbc Leila Negron, vedova di Peter, uno specialista
ambientale che lavorava al World Trade Center. Per la sorella di una
vittima, «la gente fruga per storie di horror, non per cose buone». Altri
congiunti sono invece favorevoli: la mamma di una vittima dice che per
quanto sia choccante, «conosco un sacco di famiglie che vorrebbero ascoltare
le voci registrate». «Non c'è nulla di privato in tutto questo», dice
un'altra vedova: «Forse in mezzo a tutto ciò ci sarà qualche informazione
utile per capire cosa è andato storto».
Per ora non sono certo le informazioni che emergono, anche perché nessuno ha
avuto il tempo di studiare le 2.000 pagine. Ma leggere gli scambi a quasi
due anni di distanza (gli americani si preparano a celebrare il secondo
anniversario fra meno di due settimane), è un'esperienza conturbante. È come
se queste fievoli voci di umani tornassero dopo due anni a farsi ascoltare
dall'oltre morte, è vederli ancora fuggevolmente vivi. La signora Negron ha
almeno in parte ragione: nel ripubblicare gli scambi telefonici c'è un po'
di necrofilia, oltre che una commozione di maniera, da atmosfera
pre-anniversario.
Ma c'è qualcosa di più. Proprio nella sciatta casualità delle conversazioni,
c'è una sorta di sindrome da Ponte di San Luis Rey (1927), il celebre
romanzo di Thornton Wilder (1897-1975) che racconta le vite di un gruppo di
persone che non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra, sono di
condizioni, origini e percorsi esistenziali diversi, ma per caso si trovano
tutte a passare su quel ponte nel momento in cui crolla, e sono così unite
dalla morte.
La prima cosa che colpisce è la difficoltà con cui capì quel che stata
succedendo chi quel mattino si trovava nel World Trade Center. La
conversazione più impressionante, proprio per - letteralmente -
l'incoscienza che ne traspare, è quella di un giovane che in un posto di
polizia vicino al piano terra risponde al telefono a proposito di qualcosa
che ha colpito l'edificio: «Peserà su tutte le pratiche, ancora pratiche da
sbrigare». Una donna gli chiede «Ma è un aereo piccolo o grande? «Dovrebbe
essere piccolo». Ma qualche istante più tardi un secondo aereo colpisce, e
mentre l'onda d'urto traversa la struttura, cambia di tono: «Ahi, questo
faceva male».
A colpire poi è anche la disciplina mostrata dagli occupanti. Ê
straordinaria, nella sua dimessa ordinarietà, la registrazione delle quattro
telefonate di Christine Olender, un'assistente del direttore del ristorante
Windows on the World («Finestre sul mondo») al 106-esimo piano - l'aereo
aveva colpito al 90-esimo piano. Christine telefona alla polizia: «Non
riceviamo istruzioni. C'è fumo. La maggior parte della gente è al 106-esimo
perché al 107-esimo c'è troppo fumo. Abbiamo bisogno di istruzioni il prima
possibile per sapere dove dirigere i nostri dipendenti e i nostri ospiti.»
Poliziotto: «Ok, noi stiamo facendo del nostro meglio, abbiamo chiamato i
pompieri, cerchiamo di arrivare fino da voi...».
In una telefonata successiva, Christine è allarmata: «La situazione al
107-esimo sta peggiorando rapidamente. Non abbiamo più aria fresca, non sto
esagerando». È drammatica la solerzia con cui Christine vuole convincere la
polizia che la situazione è grave davvero, che lei non esagera, non è
isterica. Il poliziotto risponde: «Signora, lo so che non sta esagerando,
stiamo ricevendo un sacco di chiamate simili, stiamo mandando i pompieri più
in fretta che possiamo.» - «Che dobbiamo fare per l'aria?» «Signora, i
pompieri... » - «Possiamo rompere una finestra? - «Potete fare qualunque
cosa per ricevere aria» -«D'accordo». Ecco, se c'è un simbolo della
disciplina civica americana, è in questa cameriera che in mezzo all'inferno
chiede il permesso di rompere un vetro: e noi sappiamo che non trovò scampo
nessuno di coloro che si trovava nel ristorante.
La disciplina è forse il fattore che l'11 settembre 2001 permise di salvare
migliaia di vite, anche se ne sacrificò alcune, come quella di Patrick Hoey,
dirigente della Port Authority che, poco dopo il secondo aereo, dal 64-esimo
piano della Torre Uno (la Nord) chiamò la polizia per ricevere istruzioni:
«Ho circa 20 persone qui con me... Cosa suggerite?» Il sergente di turno gli
dice: «State fermi ... sembra che ci sia un'esplosione anche alla Torre Due.
State vicino alle scale e aspettate che arrivi la polizia» - «Verranno, eh?
Ispezioneranno ogni piano? Senta, se potesse giusto riferire che noi stiamo
qui su» - «Ho capito». Poco più di un'ora dopo - la Torre Sud è già
crollata -, Hoey chiama di nuovo: «Sono nel Trade Center Uno. Sono della
Port Authority e stiamo al 64-esimo piano. Il fumo sta diventando davvero
pesante ... dobbiamo decidere di scendere le scale. È ragionevole (Does that
make sense?) - «Sì, provate ad uscire». Ma - commentano i giornalisti del
Washington Post - è troppo tardi: mentre Hoey e i suoi quindici colleghi
scendono le scale, sentono che i piani superiori della torre stanno
crollando. Due persone del gruppo si salvano miracolosamente. Hoey e gli
altri no.
Oggi è facile criticare quel sergente che ritardandone l'uscita provocò la
loro morte. Ma era prioritario evitare il panico che avrebbe causato una
strage ben maggiore. Non va infatti dimenticato che, se quel mattino
perirono 2.792 persone - cifra impressionante, anche se di gran lunga minore
dei numeri che continuarono a circolare per mesi, di 7-8.000 morti -, altre
25.000 riuscirono però a salvarsi, anche grazie a episodi di modesto
eroismo, di persone che aiutarono a mantenere la calma e a organizzare
un'evacuazione ordinata.
Certo è che resteranno impressi a lungo i due estremi «Un'altra pratica da
sbrigare» e «Posso rompere il vetro?» che ci giungono dall'oltre morte.
Speriamo solo che queste vittime non siano uccise una seconda volta,
strumentalizzando le loro parole a scopi politici, di campagna elettorale
presidenziale: non a caso l'anno prossimo George W. Bush terrà la Convention
repubblicana proprio qui nell'ostile New York, a ridosso del terzo
anniversario dell'11 settembre, per capitalizzare in voti i defunti di
Ground Zero. L'equivalente politico de Le anime morte di Nikolai Gogol.