Israele, la diaspora, l'identità ebraica. Termini troppo spesso
confusi e sovrapposti. A 55 anni dalla dichiarazione di indipendenza dello
Stato di Israele intervista a Stefano Levi Della Torre
La stella sul confine
Guido Caldiron Liberazione
Il 14 maggio del 1948 con la lettura da parte di David Ben Gurion
della Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele inizia un nuovo
capitolo della storia di questa terra. Cinquantacinque anni dopo
quell'evento fondativo, quale è il rapporto che lega oggi Israele alla vasta
comunità della diaspora ebraica? E ha senso, come si fa di frequente anche a
sinistra, ridurre l'identità ebraica a quanto avviene nello Stato di
Israele? Sono questi alcuni degli interrogativi che abbiamo voluto porre,
nell'anniversario della dichiarazione di Ben Gurion, a Stefano Levi Della
Torre, l'intellettuale milanese che si segnala da anni come una delle voci
più stimolanti e critiche dell'ebraismo italiano.
A più di mezzo secolo dalla Dichiarazione di Indipendenza, come
potremmo definire oggi il rapporto tra le comunità della diaspora e Israele?
Credo si possa dire che la nascita di Israele ha dato allora agli
ebrei del mondo il senso di un grande riscatto, di una speranza e la
dimostrazione di una capacità costruttiva dopo tanta distruzione. Mentre
attualmente Israele rappresenta un punto di grave preoccupazione sia per
coloro che sono favorevoli alla sua politica, sia per chi è anche molto
critico verso questa politica. Un punto di preoccupazione per la
sopravvivenza stessa di Israele che ponendosi in così forte contrasto con la
regione in cui è presente rischia molto in ogni caso, per l'ostilità di chi
ha intorno come per l'ostilità che esso stesso fomenta, per l'ostilità che
c'è a priori nei suoi confronti e per l'ostilità che la sua politica
produce. In questo senso si può dire, appunto, che da luogo di
rassicurazione per tutti gli ebrei, Israele è diventato oggi anche un luogo
che desta molte preoccupazioni e credo che questa sia la maggiore
modificazione che è avvenuta nel corso di tutti questi anni, dalla nascita
di Israele ad oggi. C'è stata poi anche una modificazione interna al
sionismo che ha fondato Israele. Nel senso che il sionismo del 1948 era un
sionismo molto dinamico, costruttivo, prevalentemente connotato dal pensiero
socialista, mentre attualmente coloro che si presentano come i prosecutori
del sionismo della prima ora hanno in realtà un segno molto più di destra,
nel senso che sono quelli che vogliono aumentare e incorporare maggiori
territori, a scapito dei palestinesi. Cioè l'elemento pionieristico della
prima ora aveva il senso di aiutare l'esistenza e lo sviluppo di Israele,
mentre invece i "pionieri" di ora sono piuttosto volti a far si che i
palestinesi non riescano a conseguire i loro diritti nazionali. Perciò c'è
un evidente cambiamento di segno: dalla volontà di esistere al contrasto
affinché altri non esistano.
Cosa rispondi a chi considera che la nascita di Israele abbia in
qualche modo assorbito l'intera "identità ebraica"?
Per molti ebrei Israele tende ad assorbire e riassumere esageratamente
l'identità ebraica. In realtà quando si riduce l'ebraismo semplicemente ad
uno Stato, alla sola nazione israeliana, non si tiene conto di quello che è
l'ebraismo come civiltà. Inoltre ciò che si indica con il termine di "popolo
ebraico" è composto di molte nazioni diverse, di molte entità diverse, di
molte culture diverse: quindi possiamo parlare di una civiltà ebraica che
configura una costellazione molto articolata. Da questo punto di vista il
fatto di delegare a Israele l'identità ebraica è molto riduttivo rispetto a
ciò che rappresenta l'identità ebraica anche in termini storici, al di là
del fatto religioso, come civiltà. Perché si tratta di qualcosa di
estremamente disomogeneo che non può essere ridotto all' "uno", ma che è
invece attraversato da molti conflitti e diversità. C'è poi un punto che ha
anche a che fare con il rapporto tra diaspora e Israele che credo stia
emergendo come centrale per definire oggi l'identità ebraica. Mi sembra
infatti che una delle grandi difficoltà psicologiche e intellettuali
dell'ebraismo attuale sia rappresentata dal come coniugare quello che è un
punto di vista sedimentato nel corso dei secoli - come caratteristica del
punto di vista ebraico - cioè il punto di vista di una minoranza oppressa
sul mondo, con la condizione attuale degli ebrei che è invece, soprattutto
in alcune zone anche molto ben inserita, come ad esempio negli Usa, o come
in Israele, di vera maggioranza.
In uno dei tuoi libri, "Essere fuori luogo" (Donzelli, 1995) tu sembri
dare dell'ebraismo la definizione di un processo ancora in corso, nel quale
confluiscono molte fonti. Da questo punto di vista il clima dello "scontro
di civiltà" che ha accompagnato in parte anche la guerra in Iraq e che
comunque è tra i lasciti di questo conflitto, ha fatto porre a molti una
domanda su dove si potesse situare l'ebraismo, se ad Occidente piuttosto che
ad Oriente. Cosa pensi in merito?
Così come ritengo che l'ebraismo non sia, diciamo così, realizzabile
nell'insediamento, quanto piuttosto, e questo anche secondo i suoi testi più
significativi, nell'oscillazione tra l'essere insediato e l'essere in
viaggio, allo stesso modo ritengo che l'ebraismo stesso - non solo in senso
religioso ma come cultura e punto di vista sedimentato storicamente - non
possa essere qualificabile né in un senso né nell'altro. Credo che
l'ebraismo sia in realtà qualcosa che elabora un rapporto tra Oriente e
Occidente, anche come è collocato. C'è un famoso passo del profeta Isaia che
dice: "Israele come tramite tra la Siria e l'Egitto", cioè il fatto che la
terra di Israele è un luogo di ponte e non solo in termini geografici per
ciò che rappresenta. Perciò, al di là della linea politica del momento, è
questo carattere dell'ebraismo che difficilmente può essere legato
all'Oriente piuttosto che all'Occidente. A me sembra che sia questo
carattere di "ponte" a caratterizzare davvero l'esperienza dell'ebraismo.
Kafka diceva che se un ponte si dimentica di essere tale non può che
precipitare, quindi qualunque rattrappimento di questa sua visione ampia
rappresenta un pericolo molto grave per l'ebraismo stesso.
A questo quesito credo si possa legarne anche un altro: l'ebraismo ha
sempre rappresentato una sorta di "alterità" creativa nel cuore dell'Europa.
Eppure oggi questo contributo segnato dal dubbio, dall'interrogarsi
intellettuale, dalla resistenza ai totalitarismi culturali, sembra farsi
sentire sempre meno, quasi che l'ebraismo europeo si stesse richiudendo
nella propria vita comunitaria, rinunciando a far sentire la sua voce. Qual
è lo stato delle cose da questo punto di vista?
Penso che questo fenomeno sia dovuto in particolare a tre elementi. Il
primo riguarda la difficilissima elaborazione di una profonda mutazione
storica, cioè quella che citavo parlando del passaggio da un punto di vista
di "minoranza", spesso oppressa, a quello di "maggioranza", spesso legata
anche al mondo dei vincitori. Coniugare questi due elementi è molto faticoso
e rende oggi particolarmente ottuso il discorso all'interno dell'ebraismo.
Il secondo è rappresentato dalla polarizzazione preoccupata sui destini di
Israele, sulla sua sopravvivenza e sulla sua "qualità" in termini di
democrazia e ebraismo. Il terzo elemento è costituito dal riaffiorare
dell'antisemitismo anche in Europa. A mio modo di vedere queste tre
preoccupazioni stanno spingendo gli ebrei a chiudersi a riccio, in un
eccesso di difesa. Credo si tratti invece di un atteggiamento che aumenta in
realtà i pericoli perché la vitalità dell'ebraismo è una delle maggiori
garanzie per la sua stessa difesa e sopravvivenza.
Infine una domanda sull'attualità del processo di pace che sembra
avanzare timidamente tra israeliani e palestinesi. Qual è il ruolo che le
comunità della diaspora possono svolgere perché il clima del dialogo si
rafforzi?
Mi pare che in particolare le comunità della diaspora europea abbiano
tutto l'interesse ad appoggiare lo sforzo che l'Europa fa, sia per ragioni
politiche che morali, per diventare fautrice di una ripresa dei rapporti tra
israeliani e palestinesi. La diaspora ha tutto l'interesse che questo
processo di dialogo vada avanti, questo anche perché è nell'interesse stesso
della vita di Israele che cambi il clima anche intorno al paese, che si
costituisca una pace duratura e si sviluppi in tutta l'area una democrazia
che nasca dall'interno e dalla lotta contro le ingiustizie e non certo solo
dalla lotta militare contro il terrorismo.