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Baghdad, diecimila contro gli Usa invasori
di Gabriel Bertinetto l'Unità
Baghdad ha vissuto venerdì la prima giornata di aperta e massiccia
contestazione anti-americana. Non i piccoli assembramenti di poche centinaia
di individui, a uso e consumo delle telecamere piazzate davanti all'hotel
dei giornalisti stranieri, il Palestine, ma un corteo di almeno diecimila
persone, che sciama per le vie del quartiere di Adamiya, dopo la preghiera
del venerdì nella moschea di Abu Hanif. Una manifestazione all'insegna
dell'unità di tutti i musulmani iracheni contro l'invasione statunitense. «I
fratelli sunniti e sciiti assieme per l'Iraq». «No agli Usa, no a Israele».
Questo si legge sugli striscioni bianchi appesi alle pareti del tempio.
Questo il tema ricorrente negli slogan gridati dalla folla in marcia dopo la
funzione religiosa.
La scelta della moschea di Abu Hanif come luogo di raduno non è casuale.
L'edificio reca i segni evidenti di quella occupazione americana che i
dimostranti denunciano. Nel minareto c'è un buco. L'ha aperto una cannonata
dei tank mandati dal generale Franks. Uno dei muri perimetrali è sbrecciato,
ed anche questo è un regalo dell'artiglieria Usa. Nel cimitero adiacente
sono visibili i crateri scavati dai missili che piovvero sulle tombe l'8
aprile, e, raccontano gli abitanti del quartiere, riportarono alla luce le
ossa dei sepolti. Era la vigilia della presa di Baghdad. Le avanguardie dei
marines già combattevano in questa e altre aree periferiche. A loro si
opposero i volontari arabi venuti da altri paesi per combattere una
originale jihad in difesa della dittatura laica di Saddam. Le truppe Usa li
colpirono dovunque si nascondevano, nella moschea come nelle case vicine,
ancora nere per il fumo degli incendi.
«Un tempo sciiti e sunniti erano divisi -ammonisce nel suo sermone l'imam
Khatib-, ma ora dobbiamo essere uniti. C'è un solo Islam. Dio aiuti il
popolo iracheno». Migliaia di fedeli lo ascoltano nella grande sala della
preghiera. Altri si accalcano all'esterno e assorbono lo stesso messaggio
attraverso gli altoparlanti. Abu Hanif è una moschea sunnita, e sunniti sono
i gruppi promotori del raduno: dalla Fratellanza musulmana ai Wahabiti ai
seguaci di Abdul Aziz Badri. Sino a dieci giorni fa non avrebbero mai osato
mostrarsi in pubblico. La polizia baathista li avrebbe sbattuti subito in
prigione. Ma il regime si è liquefatto e i fondamentalisti colgono
l'occasione al volo: presto, prima che gli uomini di Bush mettano ordine nel
caos in cui è precipitato il paese che hanno conquistato. Il nemico sono
proprio loro, gli invasori stranieri, e gli integralisti sunniti arrestano
il loro estremismo sulla soglia dell'intolleranza settaria: mettiamo da
parte gli odi e le rivalità con l'altra grande famiglia musulmana,
congiungiamo gli sforzi contro il comune bersaglio.
Ma gli sciiti nel corteo sono presenti solo come singoli. Nessun mullah è
venuto dalle moschee di Saddam City, roccaforte sciita di Baghdad. La grande
alleanza panislamica resta per ora un progetto. L'assembramento attira
l'attenzione di una pattuglia di marines, che s'avvicina per capire cosa
stia accadendo. La collera monta sui visi dei militanti fondamentalisti.
Alcuni muovono nella direzione dei soldati per affrontarli. Sono momenti di
grande tensione. Fortunatamente i militari, una decina, si ritirano,
indietreggiando piano, a semicerchio, stringendo le armi in pugno.
Parte finalmente il corteo. In testa striscioni inneggianti al popolo
iracheno e all'unità islamica. La gente scandisce: «Non uccidete i civili»,
«l'Iraq agli iracheni», «no agli Usa, no a Saddam». Vecchi slogan del regime
vengono riciclati sostituendo il termine Islam al nome del raìs: «Con il
nostro sangue, con la nostra anima difenderemo l'Islam». La processione si
snoda in un crescendo di violenza polemica. I primi inneggiano all'Iraq e
all'Islam. Segue un gruppo che reclama niente meno che la Repubblica
islamica, e se non fossimo tra i sunniti di Baghdad verrebbe da pensare che
il loro modello sia Teheran. Dietro, ecco altri militanti per i quali
l'unica legge è il Corano, una formula teocratica che non ammette alcuna
interpretazione o sviluppo progressivi della dottrina islamica. Infine un
gruppo in coda invoca ripetutamente la jihad, la guerra santa.
Guarda sfilare il corteo con aria compiaciuta un uomo vestito
all'occidentale, e racconta: «Mi chiamo Akram Izad, sono ingegnere, e ho
fatto parte della Commissione atomica nazionale. Posso assicurare che dal
1999 l'Iraq non ha più avuto armi di sterminio. Oggi provo grande sdegno nel
vedere una gente straniera tentare di imporre il suo volere agli iracheni,
che sono un popolo di antica e profonda civiltà, e non meritano di essere
trattati come bambini».
Ma la fine della tirannia non è per lei un fatto positivo? «No, non sono
affatto orgoglioso -risponde- perché non è stata opera nostra. Non ha senso
parlare di libertà. Parliamo piuttosto di questi pazzi americani che sono
venuti a distruggere tutto». Akram Izad è un laico, ha fatto parte del Baath
sino al 1995, quando ne è uscito, sembra di capire, perché deluso dal
regime. Oggi applaude i fondamentalisti religiosi. L'insensata guerra
preventiva di Bush e Rumsfeld ha prodotto anche questo effetto nefasto.