Per forza o per amore?
Lo spettacolo della forza ci pervade, ma non tutto il mondo è consegnato
alla logica dei rapporti di forza. In una società sempre più segnata dalla
presenza femminile, sotto il cielo della politica c'è dell'altro, che la
cultura laica stenta a vedere e che possiamo vedere solo sottraendo lo
sguardo alla seduzione della forza.
E' da qui che comincia un altro mondo possibile
di LUISA MURARO
su:
http://www.ilmanifesto.it/
Lo spettacolo della forza è letteralmente impressionante e qualche volta
spaventoso: si imprime a tutti i livelli, fino ai nervi e ai muscoli. La
legge del più forte, quando la vediamo all'opera, ci entra nella mente e
sbaraglia i ragionamenti. C'è poco da fare. Ma, forse, c'è da dire almeno
una cosa e cioè che questo vale più per gli uomini che per le donne. Lo
dico sapendo di andare vicina ad uno stereotipo sessista che personalmente
detesto. Lo dico lo stesso, per uno scopo molto preciso e cioè che si
cominci a fare un qualche uso pensante delle nostre differenze. Nel
tremendo frangente storico in cui ci troviamo, tutte e tutti siamo
impressionati dallo spettacolo della forza che schiaccia gli inermi, e
moralmente abbattuti dal trionfo della legge del più forte. Ma questo non
vuol dire che tutti facciamo il passo ulteriore (e a mio giudizio,
catastrofico) di prendere la legge del più forte come criterio politico
definitivo, al quale si potrebbe opporre unicamente l'utopia di un mondo
pacificato, in cui il lupo e l'agnello bevono alla stessa fonte. No. Ci
sono alcuni e, fra le donne, molte, che conoscono l'esistenza di un altro
passaggio.
Un esempio del contrasto di posizione fra donne e uomini, lo dà lo scambio
tra Ida Dominijanni e Mario Tronti, Che fare dell'Occidente (il manifesto
di venerdì 11 aprile). C'è un punto in cui lo scambio si arresta e «lei»
dice: «Non sono d'accordo». Non è d'accordo che lo strapotere Usa possa e
debba essere fermato solo con l'uso di un potere uguale e contrario, non è
d'accordo che tutto il resto che abbiamo visto in queste settimane
(manifestazioni, bandiere, mobilitazione mondiale) sia da considerare
impotente e già sconfitto. Ecco, se in quel punto d'arresto anche «lui» si
fosse fermato e avesse ascoltato l'altra, avrebbe visto davanti a sé una
persona che non era tutta invasa dalla legge del più forte, e lo scambio
fra i due poteva ripartire di nuovo, in un orizzonte più grande, non più
interamente occupato dalla logica dei rapporti di forza. Tu, gli chiede
alla fine lei, dovendo appellarti a una figura filosofica della filosofia
occidentale, chi sceglieresti? Risposta: per superare questa frattura - tra
lavoro sporco della guerra, leggi Usa, e il lusso della pace, leggi Europa,
tra guerra e politica - tanto vale ripartire da Hegel.
Era un gioco, per chiudere l'intervista; nondimeno la scelta mi sembra
significativa. Tanto per stare al gioco, io avrei scelto Montaigne. La
risposta di Tronti fa venire in mente, per contrasto, il titolo di un
bellissimo testo di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. A me fa venire in mente
un'altra cosa ancora, poco nota, che Hegel, cercando una figura per
significare la potenza della dialettica nella storia umana, pensò in un
primo momento alla relazione amorosa e poi preferì la figura della lotta
tra servo e padrone.
Questa notizia, velatamente, ci parla dei limiti politici della filosofia
hegeliana, oggi. Oggi, infatti, tra le forze in campo c'è anche quella
dell'amore. Non lo dico misticamente, ma a partire dal grido,
indimenticato, della ragazza americana dopo l'11 settembre: «Perché ci
odiano tanto?». Gli Usa hanno vinto la seconda guerra mondiale ma non
stanno vincendo questa, se non altro per questa ragione, che non suscitano
l'amore di cui, dopo quel grido, tutto il mondo sa che hanno bisogno. Lo
dico perché viviamo in una società e in una cultura segnate sempre più
apertamente dalla presenza femminile e l'amore è, notoriamente, una cosa
importante per la grande maggioranza delle donne. Forse anche degli uomini,
anzi ne sono sicura, ma le donne lo sanno. La sorella che, secondo la
dialettica di Hegel, restava indietro rispetto allo sviluppo etico, per
diventare moglie e madre chiusa nel mondo privato degli affetti, oggi entra
ed esce di casa abbattendo confini che marcavano opposizioni altamente
significative per «lui». Ne parlano anche le tanto citate, ma forse poco
capite, bandiere della pace.
Lo strapotere degli Usa non si ferma con le bandiere iridate, dicono.
D'accordo. Non si ferma neanche con l'amore, aggiungiamo pure, con gli
occhi pieni dell'immagine di Rachel Corrie davanti al bulldozer che la
schiaccerà insieme alla casa che lei ha tentato invano di difendere.
Naturalmente che no, se facciamo il confronto sul terreno dei rapporti di
forza. Ossia, se noi stessi restiamo su questo tereno e ragioniamo in
questo orizzonte, facendo di quello che lì s'impone la nostra legge
mentale. Il punto è proprio questo, strapparsi a quel terreno, allargare
l'orizzonte, non farsi trovare lì.
Lo spiegherò con un'idea di Cristina Campo, citando le sue esatte parole,
perché, come sa chi l'ha letta, lei pesava le parole con bilancia
d'orefice. Parla delle fiabe (che vuol dire che parla anche del Vangelo) e
dice: «La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla
legge di necessità e assolutamente niente altro, perché niente altro c'è da
imparare su questa terra» (Parco dei cervi). Gli eroi delle fiabe, spiega,
sono chiamati ad affrontare prove che superano solo quando, uscendo dal
sistema dei rapporti di forza, cercano la salvezza in un altro ordine di
rapporti. Finché valgono i rapporti di forza, non c'è gigante al quale non
possa opporsi un più tremendo gigante e non c'è fine al gioco pendolare
delle contrapposizioni. E cita il pastorello coraggioso sfidato al tiro a
segno da un tremendo gigante: se avesse tirato una pietra, non ce l'avrebbe
fatta perché il bersaglio era troppo distante; vince perché fino al
bersaglio invia un uccello in volo.
L'idea di Cristina Campo è un'idea immediatamente politica. Per saperlo, la
si applichi al movimento no-global. Insegna la libertà di un agire politico
che si schioda dal confronto speculare con l'avversario dentro al sistema
del potere. Non c'è solo la libertà di optare fra alternative già date. C'è
altro, un altro mondo è possibile e comincia a nascere nello sguardo non
affascinato dallo spettacolo che offre la forza.
Ma la Campo parla di trascendenza e i suoi simboli hanno un significato
religioso. Sorge inevitabile l'obiezione laica, di chi non crede in Dio o,
anche credendoci, non vuole mescolare le cose divine con le faccende umane.
Non è un'obiezione da poco in questo frangente che vede la religione
portare acqua al mulino della guerra, aggravando i conflitti oltre ogni
misura umanamente praticabile. La cultura laica ci insegna a tenere Dio e
la religione separati dalla scienza, dalla politica, dal diritto. Lo ha
ribadito su questo giornale Valentino Parlato in garbata polemica con un
noto opinionista che voleva spiegare (a noi europei) il senso normale e
civile della giornata di meditazione e preghiera proclamata da Bush durante
la guerra. Mi hanno insegnato a tenere separate certe cose, ha scritto
facendo un elenco e nell'elenco c'era anche la separazione tra vita privata
e vita pubblica. Sembrava quasi che dicesse: una volta... sembrava che
sapesse che ormai l'equilibrio inventato dai filosofi moderni non regge
più. Infatti. I nodi vengono al pettine. La modernità laica occidentale era
una complicata costruzione della classe intellettuale al potere. Doveva
tenere a bada la bigotteria e il fanatismo, ha fallito e sarebbe ridicolo
mettersi a difenderla come una religione.
Fra le molte cose lette in questi mesi di intensificate letture, ricordo il
lungo articolo di un analista inglese che diceva, acuto e sprezzante: Bush
non ha né l'intelligenza né la cultura minime richieste per parlare di
politica con argomenti razionali, e perciò si aggrappa al linguaggio
religioso. Azzeccato, ma che cosa prova questo se non il fallimento della
cultura laica? Fallimento tacitamente registrato, in sostanza, anche dai
molti fra noi che, senza essere né credenti né cattolici, hanno esultato
per la passione politica con cui il papa cattolico è sceso in campo contro
la guerra. Non è stato solo per un calcolo, del tipo: se può servire, ben
venga anche il papa. No, la sua foga virile intrisa d'angoscia e dolore, ci
ha comunicato un sentimento di commozione e ci ha dato coraggio.
Perciò propongo che torniamo sulla questione della trascendenza e dei
simboli religiosi. Viviamo in un passaggio difficile e lo affrontiamo senza
disporre della nostra eredità religiosa, vale a dire del meglio della
civiltà europea premoderna. Le premesse della separazione tra politica e
religione risalgono al Medioevo, come noto. Ma il Medioevo non ne faceva
una forma del pensiero definitiva, e non spezzava il continuum che è ogni
civiltà, a causa della lingua che la pervade tutta, e che siamo noi stessi,
per la stessa ragione, la lingua. Perciò, nel Medioevo poteva capitare che
un vescovo, Ambrogio, armato della sua autorità spirituale, non consentisse
all'imperatore di entrare in chiesa e lo rimandasse pubblicamente indietro,
a fare penitenza per aver ordinato la distruzione di una città che non si
sottometteva al suo potere.
Noi oggi dobbiamo congedarci dalla modernità e ci tocca farlo senza poter
prendere né fiato né rincorsa. Tant'è che ci chiamiamo, tristemente,
postmoderni. Non abbiamo niente da opporre alle tendenze dell'integralismo.
Lasciamo la religione all'uso e abuso di fanatici e bigotti.
Qualcuno che mi legge si sarà accorto che ho fatto mia l'idea di un prete
che fu anche un politico, ma in una maniera molto diversa da don Sturzo.
Parlo di don Giuseppe De Luca che in politica fu, essenzialmente, un
mediatore. L'idea di far parlare tra loro cultura laica e tradizione
religiosa, in effetti, viene da lui e io non potrei aggiungervi nulla. Ma
c'è una cosa che si può dire in più, perché da allora qualcosa è cambiato,
la stessa che ho ricordato all'inizio, una presenza libera di donne e di
pensiero femminile. Viviamo in una società in cui una donna può fermare il
lui di turno e dirgli «Non sono d'accordo».
La differenza femminile libera - alla condizione che «lui» si fermi e
ascolti, chiaro - è la possibilità che io vedo che abbiamo di schiodarci
dalla legge di necessità in politica, ossia dal paralizzante confronto tra
forze contrapposte. Possibilità che si distribuisce su due versanti, uno
rivolto al presente e uno al passato.
Al presente, sta diventando riconoscibile una politica delle relazioni
praticata di preferenza dalle donne, che si esercita fuori dal terreno del
potere e del dominio, e che sa che il mondo non è tutto consegnato a questa
logica. C'è altro ed è possibile vederlo all'opera se lo sguardo non si
lascia catturare dallo spettacolo della forza. Questo «altro» non è un di
più, è l'essenza della politica, oso dire, in quanto non do nome di
politica al fatto che noi dobbiamo sottostare alla legge del più forte, ma,
al contrario, che riusciamo a vincerla.
Al passato, l'ermeneutica della differenza ci insegna a recuperare
l'eredità religiosa fuori dalla traiettoria di una storia maschile che è
terminata con la inevitabile separazione delle cose divine dalle faccende
umane, pena guerre e intolleranza. Sono ormai parecchi anni che studio la
cosiddetta mistica femminile, che forma un ricchissmo filone di ricerca
libera di Dio, ininterrotto dal Medioevo ai nostri giorni. E ho imparato
una libertà religiosa che non avevo, quella di un dire dio che apre
l'orizzonte chiuso dalla nostra presunta autosufficienza, e che in politica
si traduce, senza troppi passaggi, nel sapere che la libertà è
l'ingrediente più prezioso dell'amore, e l'amore quello della libertà.