Certo, Asor Rosa è da decenni lontano da noi, dalle nostre culture e
linguaggi. In +, come dimenticare la sua ipostatizzazione, nel '77, delle "2
società"(spingendo nei fatti x la criminalizzazione della seconda)?
Ma in questi giorni vengono da lui parole stimolanti.
GUERRA
La grande caccia
ALBERTO ASOR ROSA
Che la guerra in Iraq sia lunga o breve, non dipende da noi. Anzi, ho
trovato un po' cinico fin dall'inizio (per usare un termine ormai alla moda)
che se ne discutesse seduti in una comoda poltrona occidentale, mentre a
qualche migliaio di chilometri di distanza esseri umani si stavano scannando
solo per dar ragione apparentemente all'uno o all'altro dei contendenti
nostrani. Questo soltanto possiamo dire con decenza: che la guerra non fosse
rapida, indolore, fulminea e trionfale, lo hanno deciso per noi gli
iracheni, smentendo fin dal primo giorno di riconoscersi nell'etichetta di
«liberati felici», in cui la propaganda statunitense si sforzava in ogni
modo di costringerli. Questo è il primo dato certo che la guerra ha
repentinamente illuminato: quali che fossero le colpe e i crimini di Saddam,
non era vero che i suoi «sudditi» non aspettassero altro che l'occasione per
liberarsene o farsene liberare e buttarsi nelle braccia di quei «missionari»
in divisa, depositari del bene. L'ipotesi più credibile oggi è, alla luce
degli avvenimenti delle ultime settimane, che essi in grandissima
maggioranza si siano sentiti aggrediti e invasi dall'esercito angloamericano
e che, insieme con la loro terra, abbiano difeso il loro onore di arabi, di
musulmani e di «diversi» rispetto ai popoli e alle culture che
prepotentemente cercano di catechizzarli e d'«includerli», con la mite,
ragionevole forza delle armi, nel proprio sistema.
L'apologia della «guerra breve» è stata elaborata da tutte quelle
«anime belle» che, avendo preso le distanze dalla guerra americana prima che
scoppiasse, nel momento in cui la guerra è scoppiata si son trovati nella
dura necessità di dover «scegliere», che è propria di tutte le guerre. Non
più il semplice e tutto sommato evasivo «né... né» ma il difficile e aspro
«o... o». Non volendo scegliere neanche nelle nuove condizioni dettate dal
conflitto, si sono precipitate ad abbracciare l'ipotesi squisitamente
umanitaria di una conclusione rapida dello scontro bellico. Visto che la
guerra è comunque cominciata, e visto che gli angloamericani non possono che
vincerla, che almeno la vincano presto, risparmiando ai due contendenti
lacrime e sangue e soprattutto a loro medesimi l'indicibile sofferenza di
continuare a contemplare, sia pure da lontano, le intollerabili sofferenze
di quei poveri iracheni, così inspiegabilmente legati al loro Capo
sanguinario, così poco propensi a farsi liberare da chicchessia.
Ma ora la guerra è cominciata, e per ora continua, fondamentalmente
perché pare che gli iracheni abbiano deciso di combatterla per tutto il
tempo che sarà necessario, come giustamente non si stanca di ripetere ad
ogni occasione il presidente Bush, un po' scottato, a dir il vero, che la
resistenza incontrata non gli abbia consentito di prendere Baghdad in tre
giorni: ed è la guerra che va giudicata, non il prima né per ora il poi, la
guerra nelle sue motivazioni, nelle sue forme, nel suo svolgimento e nelle
sue probabili conclusioni.
Dunque, riassumendo in maniera senza dubbio eccessivamente sintetica:
siamo di fronte a una guerra di aggressione di due paesi forti, anzi
fortissimi, contro un paese debole, con una sproporzione dei mezzi e delle
possibilità di vittoria addirittura disumana, non legittimata da alcun
organismo internazionale, giustificata sulla base di affermazioni che si
sono rivelate di pura propaganda (le armi di distruzione di massa, i legami
dell'Iraq con il terrorismo, l'Iraq minaccia per il mondo intero, ecc.
ecc.), condotta con violenza e brutalità (le stragi di civili a Baghdad e
altrove), destinata ad aprire una piaga infetta in un'area già ampiamente
destabilizzata come il Medio oriente, sospetta di poco onorevoli motivazioni
come la ricerca di un pieno controllo su importantissime fonti energetiche,
inscritta in una prospettiva di dominio globale che prevede per il futuro
l'apertura sistematica di altri fronti di guerra.
Una guerra, dunque, che si presenta come tappa per un rafforzamento
decisivo dell'egemonia imperiale sul mondo, e fonte a sua volta, quando sarà
vinta, di altre guerra, giustificate e fomentate da argomentazioni non
diverse da questa. Tutto ciò resta vero sia che la guerra duri venti giorni
sia che duri tre mesi o più, e soprattutto è destinato a diventare più vero
dopo il conseguimento fatale della vittoria preannunciata. Insomma, ci sono
abbastanza motivi per concludere che, una volta scoppiata la guerra, i
nostri nemici nel mondo restino ovviamente molti e diversi, ma quelli
principali diventino per noi la guerra stessa, la strategia mondiale che
essa sottende e chi ne fa un uso illimitatamente spregiudicato ai fini del
proprio dominio. Cioè, in pratica, il gruppo Bush, la sua politica, la sua
cultura, il suo disegno, ai quali si devono la teoria e la pratica della
«guerra preventiva», cioè della guerra totale e infinita in tutte le sue
possibili forme.
La resistenza irachena rischia di spingere le forze angloamericane a
una nuova escalation della violenza. Non è da escludere un vero massacro,
prima del crollo finale. E' chiaro che i Bush e i suoi hanno meno
alternative di Saddam Hussein: non possono che vincere questa guerra. Per
vincerla sono disposti a tutto. «Fermare la guerra» è una parola d'ordine
irrealistica - dicono le «anime belle», sempre alla ricerca di una qualche
soluzione tranquillizzante. Dunque per evitare il massacro gli iracheni
dovrebbero smettere di resistere? Siamo tornati al punto di partenza.
Mentre si dispiega l'immondo mercato delle commesse postbelliche, -
uno dei punti più bassi che l'ethos dell'Occidente abbia mai raggiunto,
ulteriore riprova dello spirito con cui si va attualmente non alla conquista
ma alla ri-conquista del mondo, - «fermare la guerra» non significa più
soltanto arrestare l'inarrestabile conflitto in Iraq, ma diventa il punto di
coagulo di tutte quelle forze che s'oppongono ovunque all'unilateralismo
americano. La guerra, infatti, invece di esserne espulsa, diventerà uno dei
meccanismi motore della «società del mercato», ossia della globalizzazione,
il compagno assiduo e solerte, che ci accompagnerà di qui in poi in ogni
momento della nostra vita. Il pericolo non sta soltanto nella concreta
possibilità di un massacro sulle sponde del Tigri e dell'Eufrate. Il
pericolo sta anche in una violenta torsione autoritaria e antidemocratica
del sistema occidentale al proprio interno, oltre che nelle sue relazioni
con il resto del mondo, come effetto e conseguenza dell'adozione e
diffusione di questa pratica guerriera.
E' lecito dubitare, ad esempio, che l'inflessibile durezza con cui il
gruppo Bush fa la guerra in giro per il mondo non sia più avanti
compiutamente declinata sia nelle relazioni con sistemi più complessi, come
quelli delle democrazie occidentali, sia in seno alle stese democrazie.
Ossia: la guerra cambia il diritto internazionale e contemporaneamente
cambia la democrazia, in peggio; e le due cose saranno contestuali. Si sente
ripetere ad ogni pie' sospinto che il rovesciamento di Saddam porterebbe la
democrazia agli sventurati iracheni. Mi sembra più probabile che, mentre
esportiamo la democrazia in Iraq, ne importiamo la logica della guerra in
casa nostra. Bush non è Hitler, com'è ovvio, ma il leader artatamente
carismatico (il carisma non è suo, gli stato costruito addosso con alcune
delle più ardite operazioni politico-militari del nostro tempo) che si è
assunto il compito missionario di rimodellare i connotati storici di quello
che una volta era il cosiddetto sistema democratico-rappresentativo, ormai
obsoleto di fronte ai compiti del dominio globale, per esempio introducendo
sistematicamente per i prossimi decenni il fattore guerra nella
manipolazione dei flussi del consenso (e questo tanto per cominciare, perché
di ben altro lo si deve credere capace).
Era il Signor Nessuno prima dell'11 settembre 2001. E' diventato il
Dio degli Eserciti, aureolato di spiriti guerrieri, il profeta armato una
nuova religione del potere (Libertà + Mercato), dopo quella terribile
sciagura, che, al di là dei suoi micidiali effetti immediati, è risultato
essere la Madre di tutte le battaglie, la prima fonte del nuovo diritto e
del nuovo ordine. Nel mio libro La guerra ho sviluppato il mio ragionamento
dando rigorosamente per scontato (come da vulgata) che la causa scatenante
di questo processo fosse il terrorismo islamico (del resto, non era la prima
volta che i peggiori nemici risultassero i migliori alleati: era già
avvenuto nella storia del terrorismo italiano). Ma, considerando quel che ne
è seguito, diventa forse legittima una riflessione più critica e attenta su
questa ricostruzione degli eventi (a cui, sul piano fattuale, l'anno e mezzo
trascorso non ha aggiunto nessunissimo nuovo elemento di conoscenza, e
questo è davvero ben strano). Fantascienza? Certo. Ma occorre anche dire
che, osservato con un certo distacco, lo spettacolo politico-mediatico cui
stiamo assistendo da allora rischia di appare la creazione di uno
sceneggiatore privo di rispetto per qualsiasi logica o, per dirla più
chiaramente, decisamente folle. Contro l'evidenza illogica dei fatti reali,
la logica, per ritrovarsi e preservarsi, è costretta a collocarsi in
un'altra dimensione, quella che va al di là del «reale» come ce lo
vorrebbero sbattere nella testa a forza di missili e cannonate.
Vedremo dunque, quando avrà trionfato in Medio Oriente con il sangue e
con il terrore, se il potere imperiale non farà i conti con gli oppositori
interni, - Stati e individui, - noi con tutti quelli che in Occidente hanno
una diversa visione del Male e del Bene rispetto all'intransigentismo
imperiale. La guerra non sta solo al di là del mare, nei deserti e sulle
montagne orientali. La guerra è infinita e preventiva, ma anche totale: non
fa sconti, non ammette eccezioni, prevede sistematicamente il perseguimento
di quelli che non vogliono stare nell'«accordo di sistema» regolato dalle
leggi imperiali. La Grande Caccia è cominciata. Quando dovremo difendere noi
stessi, invece dei civili iracheni massacrati, tutto sarà più chiaro.