[Cerchio] stiglitz sul FMI da La rivista dei libri

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Autor: Emiliano Bussolo
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Asunto: [Cerchio] stiglitz sul FMI da La rivista dei libri
Errori di Fondo (monetario)
BENJAMIN M. FRIEDMAN
Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, trad. di Daria Cavallini, Torino, Einaudi, 2002, pp. 274, €19,00

1.

Il problema economico più pressante dei nostri giorni è che molte di quelle che definiamo economie in via di sviluppo di fatto non lo sono. È scioccante per la maggior parte dei cittadini delle democrazie industrializzate dell'Occidente sapere che in Uganda, in Etiopia oppure in Malawi uomini e donne hanno una speranza di vita che non supera i quarantacinque anni. O che in Sierra Leone il 28% dei bambini muore prima di aver compiuto cinque anni; o che in India più della metà dei bambini sono malnutriti. O che in Bangladesh solo metà degli adulti maschi e meno di un quarto delle donne sa leggere e scrivere.

Ma è ancora più preoccupante vedere che molti, se non la maggior parte dei paesi più poveri del mondo, in cui i bassissimi redditi e l'incompetenza dei governi contribuiscono a creare tale spaventosa tragedia umana, non stanno facendo alcun progresso — perlomeno sul fronte economico. Dei cinquanta paesi con il più basso reddito pro capite nel 1990 (in media appena 1.450 dollari all'anno al cambio attuale), pur tenendo conto dell'enorme differenza del costo della vita fra quei paesi e gli Stati Uniti), ventitré avevano redditi medi più bassi nel 1999 che nel 1990. E nei ventisette che sono riusciti ad avere una crescita almeno in parte positiva, il tasso medio di crescita è stato solo del 2,7% all'anno. Con quel ritmo ci vorranno altri settantanove anni per raggiungere il livello di reddito della Grecia, il più povero dei paesi membri dell'Unione Europea.

Non sorprende quindi che il contrasto fra l'entusiastico ottimismo di allora e la più cupa realtà odierna abbia prodotto un serio (e sempre più astioso) dibattito su due questioni strettamente correlate. Analizzando la situazione a posteriori, che cosa ha provocato l'incapacità di tanti paesi di fare i progressi previsti con sicurezza una generazione fa? E come dovrebbero agire ora quei paesi e coloro che hanno a cuore la loro sorte e che cercano di aiutarli?



È dalla grande depressione mondiale degli anni '30 che non si affrontava un problema da tanti e così diversi punti di vista: le economie non ancora in via di sviluppo (per definirle per quello che sono) hanno forse perseguito politiche nazionali sbagliate? O sono state le vittime innocenti dello sfruttamento del mondo industrializzato? È inutile cercare di favorire lo sviluppo economico senza adeguate infrastrutture sociali e politiche, fra cui ciò che ora chiamiamo rule of law e forse anche la democrazia politica? O piuttosto si creano e si affermano istituzioni favorevoli solo dopo che è già in atto un miglioramento consolidato nei livelli di vita materiali? Potrebbero servire più aiuti internazionali? O l'assistenza diretta dall'estero crea a livello nazionale quella "dipendenza dal welfare", come la definiscono a volte negli Stati Uniti, che indebolisce la spinta a intraprendere riforme difficili, ma necessarie in quei paesi? Quanto è colpa della corruzione dei governi dei!
paesi non ancora in via di sviluppo, che spesso si traduce in un vero e proprio furto di gran parte degli aiuti ricevuti a opera dei funzionari governativi? E poi c'è la questione più controversa: è possibile che la "cultura" di questi paesi — soprattutto se raffrontata con la cultura occidentale — semplicemente non incoraggi il successo economico?

Una delle espressioni concrete dell'ottimismo con cui nel mondo industrializzato si affrontava la sfida dello sviluppo economico una generazione e più fa, prima che questi penosi quesiti balzassero in primo piano, fu la creazione di nuove istituzioni multinazionali per favorire i vari aspetti del più ampio obiettivo dello sviluppo. A tale scopo, le Nazioni Unite hanno istituito una serie di programmi, in particolare il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite e la Conferenza sul commercio e lo sviluppo. La FAO (anch'essa fondata nel 1945, ma separatamente dall'ONU) e l'Organizzazione mondiale della sanità (1948) avevano mandati più specifici. La Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (nota come Banca mondiale), creata nel 1944 soprattutto per aiutare la ricostruzione dell'Europa distrutta dalla guerra, rivolse presto la sua attenzione al mondo in via di sviluppo, una volta che il suo compito primario era stato in gran parte svolto.

Il Fondo monetario internazionale (FMI, o semplicemente Fondo) è stato l'ultimo arrivato nel settore dello sviluppo. Istituito insieme con la Banca mondiale nel 1944, la missione originaria del Fondo era quella di mantenere la stabilità nei mercati finanziari internazionali, aiutando i paesi a fare correzioni economiche quando si trovavano ad affrontare uno squilibrio dei pagamenti internazionali e a mantenere il valore delle loro valute in quello che tutti ritenevano un regime permanente di tassi di cambio fissi.

Ma all'inizio degli anni '70 il sistema di cambi fisso si dimostrò indifendibile e le fluttuazioni dei cambi di un qualche tipo diventarono la norma. Inoltre, man mano che le economie dell'Europa occidentale si rafforzavano, mentre parallelamente sempre più paesi in via di sviluppo entravano nell'economia commerciale e finanziaria internazionale, aumentò il numero dei paesi in via di sviluppo che si scontravano con il problema della bilancia dei pagamenti o con difficoltà valutarie e che quindi chiedevano l'aiuto dell'FMI. Di conseguenza, col tempo l'FMI si è trovato sempre più coinvolto nel settore dello sviluppo economico. E poiché lo sviluppo vacilla in molti paesi — inclusi molti di quelli in cui il Fondo ha svolto un ruolo significativo — le strategie e gli interventi dell'FMI sono diventati sempre più oggetto dell'attuale acceso dibattito su chi o cosa è responsabile dei fallimenti passati e cosa bisogna cambiare per il futuro.

Nel suo ultimo libro, La globalizzazione e i suoi oppositori, Joseph E. Stiglitz propone le sue opinioni in merito a cosa sia andato storto e a cosa occorra cambiare, ma l'accento è soprattutto su chi ne porti la responsabilità. Secondo Stiglitz, nella storia del mancato sviluppo c'è un cattivo, e un cattivo davvero detestabile: l'FMI.

2.

Joseph Stiglitz è un economista che ha vinto, meritatamente, il premio Nobel. Nel corso della sua lunga carriera, ha fornito contributi incisivi e molto apprezzati alla comprensione di una vastissima gamma di fenomeni economici, fra cui le tasse, i tassi di interesse, il comportamento dei consumatori, la finanza delle imprese e molti altri ancora. Fra gli economisti più anziani e ancora attivi, è considerato un gigante nel suo campo. Negli ultimi anni, ha anche partecipato attivamente alla definizione delle politiche economiche, dapprima come membro e in seguito come presidente del Consiglio dei consulenti economici (nell'amministrazione Clinton), e poi, dal 1997 al 2000, quale economista capo della Banca mondiale. Come si capisce dai numerosi esempi e dai ricordi personali riportati nel libro, le sue informazioni e le sue impressioni sono spesso di prima mano.

Nella Globalizzazione e i suoi oppositori, Stiglitz basa le sue argomentazioni a favore di scelte economiche diverse esattamente sui temi evidenziati in decenni di studi teorici, e cioè, cosa succede quando mancano le informazioni chiave per le decisioni che si devono prendere, o quando non esistono o sono inadeguati i mercati per importanti tipi di transazioni, o quando sono assenti o difettose altre istituzioni che il pensiero economico tradizionale dà per scontate.

Le implicazioni di ciascuna di queste lacune o difetti è che il libero mercato, lasciato a se stesso, non produce necessariamente gli esiti positivi previsti dalla teoria economica, la quale presuppone che si abbiano informazioni esaurienti, si possa operare in mercati completi ed efficienti e si possa contare su adeguate istituzioni legali o di altro genere. Riferendosi in parte al suo stesso lavoro, Stiglitz sostiene che "progressi recenti della teoria economica … hanno dimostrato che ogniqualvolta l'informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, vale a dire sempre, e in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, la famosa mano invisibile opera in maniera quanto mai imperfetta".

Quindi, prosegue Stiglitz, i governi possono migliorare gli esiti con interventi ben ponderati. (Che poi un governo possa effettivamente fare le scelte giuste è un altro discorso). A livello di economie nazionali, quando le famiglie e le imprese comprano troppo poco rispetto a ciò che l'economia può produrre, i governi possono combattere la recessione e la depressione impiegando politiche monetarie e fiscali espansionistiche per stimolare la domanda di beni e servizi. A livello microeconomico, i governi possono disciplinare banche e altre istituzioni finanziarie per mantenerle sane. Tramite politiche fiscali, possono indirizzare gli investimenti verso le industrie più produttive, e, attuando adeguate politiche commerciali, consentire a nuove industrie di sostenere la concorrenza straniera. I governi hanno anche a disposizione una serie di strumenti, dalla creazione di posti di lavoro, alla formazione della manodopera, al welfare, per riassorbire la disoccupazione e, al contemp!
o, alleggerire i costi sociali derivanti da ciò che — secondo la teoria dell'informazione, dei mercati o delle istituzioni imperfette — non è colpa di nessuno.

Stiglitz accusa l'FMI di aver prodotto gravi danni con le politiche economiche che ha imposto e che i paesi dovevano seguire per poter accedere ai prestiti del Fondo stesso, o delle banche e di altri istituti di credito privati che seguivano le indicazioni del Fondo in materia di affidabilità dei debitori. Afferma che l'organizzazione e i suoi funzionari hanno ignorato le implicazioni dell'informazione imperfetta, dei mercati incompleti e delle istituzioni inaffidabili — tutte cose caratteristiche dei paesi in via di sviluppo. Di conseguenza, l'FMI ha ripetutamente richiesto politiche che si rifanno alla teoria economica, ma che invece non hanno senso nei paesi ai quali il Fondo le raccomanda. Stiglitz cerca di dimostrare che le conseguenze di queste politiche sbagliate sono state disastrose, non soltanto in termini di misurazioni statistiche astratte, ma anche in termini di sofferenze umane nei paesi che le hanno seguite.



Chiunque abbia prestato un minimo di attenzione ai recenti problemi economici dei paesi in via di sviluppo (che in questo senso comprendono anche l'ex Unione Sovietica e gli ex paesi satellite sovietici, che stanno ora sbrogliando i decenni di malgoverno comunista) conoscerà gran parte delle politiche specifiche che Stiglitz critica.

Austerità fiscale. Il consiglio più tipico e più noto dell'FMI è che un paese tagli la spesa pubblica o aumenti le tasse, o entrambe le cose, che metta in parità il bilancio ed elimini la necessità del debito pubblico. Il generale presupposto di base è che molte delle spese pubbliche sono comunque degli sprechi. Stiglitz accusa l'FMI di essere tornato all'economia di Herbert Hoover nell'imporre tali politiche a paesi con profonde recessioni in corso, in cui il deficit è soprattutto frutto di un calo indotto delle entrate; sostiene che i tagli alla spesa o gli aumenti fiscali non fanno che peggiorare tale calo. Sottolinea inoltre il costo sociale dei tagli ai vari programmi governativi — a esempio, l'eliminazione dei sussidi alimentari per i poveri (come avvenne in Indonesia su ordine del Fondo nel 1998) che finisce per provocare soltanto dei disordini fra la popolazione.

Alti tassi di interesse. Molti paesi si rivolgono al Fondo perché hanno problemi a mantenere il valore del cambio delle loro valute. Una raccomandazione tipica del Fondo sono alti tassi di interesse, che rendono più attraenti i depositi e altri beni nella valuta locale. Uno dei problemi più comuni nel Terzo Mondo è il rapido aumento dei prezzi — talvolta a livello di iperinflazione — e il correttivo standard è ancora una volta una rigorosa politica monetaria, attuata soprattutto tramite gli alti tassi di interesse. Stiglitz ritiene che gli alti tassi di interesse imposti a molti paesi dall'FMI abbiano peggiorato la crisi economica. Intanto, perché mirano a combattere l'inflazione, che non è mai stata il vero problema, poi perché hanno spinto alla bancarotta innumerevoli imprese, altrimenti produttive, che non sono riuscite a far fronte all'improvviso aumento del costo dei loro debiti.

Liberalizzazione del Commercio. Tutti sono a favore della liberalizzazione degli scambi commerciali — tranne molti di coloro che costruiscono beni e li vendono. Eliminare tariffe, quote, sussidi e altre barriere al libero scambio di solito ha direttamente poco a che fare con ciò che ha indotto un paese a chiedere un prestito del Fondo; ma l'FMI di norma consiglia (anzi, richiede) di eliminare tali barriere come condizione per ottenere il prestito. La tesi è la solita, che alla lunga la liberalizzazione del commercio praticata da tutti va a beneficio di tutti: ogni paese arriverà alla combinazione di prodotti che può vendere in modo competitivo usando le sue risorse e competenze in modo efficace. Stiglitz sottolinea che i paesi industrializzati di oggi non praticavano il libero scambio agli inizi del loro sviluppo e che anche oggi lo fanno in modo molto imperfetto. (Lo testimonia l'aumento dei sussidi agricoli e le nuove barriere alle importazioni di acciaio negli Stati Uniti q!
uest'anno.) Afferma che costringere i paesi in via di sviluppo a liberalizzare il commercio prima che siano pronti distrugge l'industria nazionale non ancora in grado di affrontare la concorrenza.

Liberalizzazione del mercato dei capitali. Molti paesi in via di sviluppo hanno sistemi bancari deboli e poche opportunità di altri tipi di risparmio per i loro abitanti. Una delle condizioni che spesso l'FMI pone per aumentare il credito di un paese, è che i suoi mercati finanziari siano aperti alla partecipazione di istituzioni di proprietà estera. La logica è che le banche straniere sono più solide e che, insieme con altre società di investimento straniere, riusciranno meglio a mobilizzare e distribuire i risparmi del paese. Stiglitz ribatte che le più grandi ed efficienti banche straniere mandano in fallimento le banche locali; che le istituzioni straniere sono molto meno interessate a fare prestiti alle imprese locali (a parte le più grandi); e che mobilizzare i risparmi non è un problema, perché molti paesi in via di sviluppo hanno comunque i più alti tassi di risparmio del mondo.

Privatizzazioni. Vendere imprese pubbliche — società telefoniche, ferrovie, acciaierie, eccetera — è stata una delle principali iniziative degli ultimi venti anni sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Una delle ragioni per farlo è che si presume che con una gestione privata queste attività funzioneranno meglio. Un'altra è che molte di queste imprese pubbliche non dovrebbero esistere affatto e che vengono tenute in piedi soltanto dal desiderio dei governi di fornire assistenza travestita da lavoro, o peggio ancora per l'opportunità di corruzione. Soprattutto quando i paesi che si rivolgono all'FMI hanno deficit di bilancio, la raccomandazione standard oggigiorno è quella di vendere le imprese del settore pubblico a investitori privati.

Stiglitz sostiene che molti di questi paesi non hanno ancora sistemi finanziari in grado di gestire tali transazioni, o sistemi normativi in grado di prevenire comportamenti dannosi una volta che le società sono privatizzate, o sistemi di corporate governance in grado di monitorare le nuove gestioni. In Russia e in altre parti dell'ex Unione Sovietica, a suo parere, il risultato di privatizzazioni premature è stato quello di consegnare le ricchezze del paese alla nuova classe criminale.

Paura dell'inadempienza. Una delle priorità della politica del Fondo, sin dall'inizio, è stata quella di mantenere la finzione, laddove era possibile, che i paesi onorano i loro debiti. Da un punto di vista formale, l'FMI viene sempre ripagato. E quando le banche non possono recuperare ciò che è loro dovuto, accettano una riformulazione "volontaria" del debito del paese. Ma il problema, sostiene Stiglitz, è che l'ampliamento del credito concesso dall'FMI, per evitare che il paese appaia inadempiente, spesso serve soltanto a togliere dai guai le banche e altri creditori privati che hanno concesso prestiti a rischio in cambio di alti rendimenti e che vogliono essere messi al riparo dalle conseguenze delle loro incaute politiche creditizie. Stiglitz sostiene inoltre che, per un paese in via di sviluppo, il risultato finale è quello di gravare i contribuenti con il fardello permanente del pagamento degli interessi e del capitale sui nuovi debiti che liquidano gli errori del passat!
o.



La condanna del Fondo e delle sue politiche da parte di Stiglitz è ben più di un elenco dettagliato di capi d'accusa. La sua tesi è che ci sia una linea coerente alla base delle singole scelte politiche, che gli errori che imputa al Fondo non siano soltanto casuali. A suo parere, l'insieme di quelle politiche — che definisce Washington Consensus — costituiscono qualcosa di sgradevole, se non addirittura di ripugnante.

Primo, Stiglitz sostiene che le politiche dell'FMI non derivano dall'osservazione e dall'analisi economica, ma dall'ideologia — in particolare da una dedizione ideologica alla liberalizzazione del mercato e da un'antipatia concomitante per il dirigismo. Accusa ripetutamente i funzionari dell'FMI di aver ignorato deliberatamente le caratteristiche dei paesi ai quali fornivano i loro consigli. Li accusa in parte di non aver capito, o almeno di non aver tenuto conto dei lavori teorici suoi e di altri economisti, che dimostrano come i mercati senza vincoli non producono necessariamente risultati positivi, quando le informazioni o le strutture di mercato o le infrastrutture istituzionali sono incomplete.

Più specificamente, Stiglitz afferma che l'FMI ignora la necessità di un opportuno ordine cronologico negli interventi. Liberalizzare il commercio di un paese ha senso quando la sua industria si è sufficientemente sviluppata da poter reggere l'impatto della concorrenza, ma non prima. Privatizzare imprese pubbliche ha senso, quando esistono adeguati sistemi normativi e leggi sulla corporate governance, ma non prima. Il Fondo, a suo parere, ha deliberatamente ignorato questi fattori, adottando piuttosto un approccio generalizzato, in cui una serie di misure viene reputata adatta a tutti i paesi indipendentemente dalle situazioni particolari. Ma ancora più importante per Stiglitz è che la motivazione di base sia ideologica: la convinzione, cioè, della superiorità del libero mercato che, secondo lui, diventa una sorta di religione impermeabile sia alle argomentazioni che alle prove di segno contrario.

Un'ulteriore implicazione di tale fiducia nell'efficacia della liberalizzazione del mercato, secondo Stiglitz, è che l'FMI ha abbandonato la sua originaria missione keynesiana di aiutare i paesi a mantenere la piena occupazione mentre operavano le necessarie correzioni alle loro bilance dei pagamenti; invece, il Fondo raccomanda politiche che si traducono in tendenze al ribasso ancora più forti e in un aumento della disoccupazione. Non pensa, ovviamente, che il Fondo preferisca gravi recessioni e disoccupazione, ma che agisca semplicemente basandosi sulla convinzione — a suo parere gravemente sbagliata — che lasciando che i mercati si regolino da soli, quei problemi si risolveranno automaticamente. Di conseguenza, il Fondo non opera per promuovere la crescita economica (che contribuisce a creare la piena occupazione). E questo, ribadisce, non perché al Fondo non piaccia la crescita in sé, ma perché ritiene che basti liberalizzare il mercato per produrre crescita.

Un'altra conseguenza dell'errato indirizzo politico derivante da questa curiosa miscela di ideologia e cattiva economia è che l'FMI stesso è responsabile del peggioramento (in alcuni casi addirittura della nascita) dei problemi che afferma di voler combattere. Facendo mantenere ai paesi tassi di cambio sopravvalutati, che tutti sanno dovranno prima o poi essere abbandonati, offre a chi tratta in valute una scommessa vincente e quindi incoraggia le speculazioni di mercato. Costringendo i paesi in difficoltà a tagliare drasticamente le importazioni, favorisce il "contagio" della depressione economica da un paese a quelli vicini. Imponendo ai paesi alti tassi di interesse, che frenano gli investimenti e fanno fallire le imprese, fomenta una scarsa fiducia da parte dei prestatori stranieri. Allo stesso tempo, venendo più volte in soccorso dei creditori, favorisce standard di credito imprudenti.

Secondo, e più oscuro punto, Stiglitz ritiene che il Fondo agisca sistematicamente nell'interesse dei creditori, e più in generale delle élite ricche, piuttosto che in quello dei lavoratori, dei contadini e di altra povera gente. Non gli pare casuale che l'FMI fornisca regolarmente denaro che va a ripagare prestiti fatti da banche e detentori di titoli obbligazionari, ansiosi di prendersi gli alti tassi di interesse che accompagnano l'assunzione del rischio (lodando però al contempo le virtù del libero mercato), ma anche altrettanto ansiosi di essere salvati dai governi e dal Fondo quando i rischi si tramutano in realtà.

Stiglitz ritiene inoltre che non sia una coincidenza che i sussidi alimentari e altri strumenti per attenuare le sofferenze degli strati più poveri siano fra i primi programmi che il Fondo consiglia di tagliare, quando un paese si trova nella necessità di pareggiare il bilancio. Osserva che i funzionari del Fondo tendono a incontrare soltanto ministri delle Finanze e governatori delle banche centrali, oltre che direttori di istituti di credito e di banche d'investimento, mentre non incontrano mai contadini poveri o lavoratori disoccupati. Nota inoltre che molti funzionari dell'FMI provengono da impieghi nel settore finanziario privato, mentre altri, lasciato il Fondo, passano a banche o altre società finanziarie.

Stiglitz considera, e respinge, la possibilità che queste e altre scelte siano frutto di una cospirazione fra l'FMI e potenti interessi nei paesi più ricchi — opinione sempre più diffusa fra i contestatori della globalizzazione, che si presentano ora alle riunioni del Fondo (e della Banca Mondiale). L'opinione dell'economista è che negli ultimi decenni il Fondo non abbia preso parte a nessuna cospirazione, ma che abbia tuttavia rappresentato gli interessi e l'ideologia della comunità finanziaria occidentale.

Infine, Stiglitz vede nelle tendenze sistematiche del Fondo il riflesso di una più profonda carenza di ordine morale: "Il fatto di non preoccuparsi dei poveri non era semplicemente una questione di come interpretare il ruolo dei mercati o del governo, pensando che i mercati da soli avrebbero risolto tutti i problemi, mentre un intervento del governo avrebbe soltanto peggiorato le cose; era anche una questione di valori". E ancora: "Nel tentativo, malinterpretato, di preservare quella che riteneva essere la sacralità del contratto di credito, l'FMI è stato disposto a fare a pezzi l'ancor più importante contratto sociale".

Questo senso di indignazione morale traspare in tutto il libro.

3.

Reggono le critiche di Stiglitz?

Tanto per cominciare, è facile accusarlo di ricordare solo quello che gli fa comodo. Leggendo La globalizzazione e i suoi oppositori, si potrebbe pensare che il Fondo non abbia mai fatto niente di utile. O che Stiglitz e i suoi colleghi, prima al Consiglio dei consulenti economici e poi alla Banca mondiale, non abbiano mai commesso errori. O che coloro con i quali ha spesso discusso nel governo americano — in particolare al Tesoro, presentato continuamente come un complice nei misfatti dell'FMI, ma anche alla Federal Reserve — non abbiano mai affrontato una questione nel modo giusto. (Nell'unico accenno ad Alan Greenspan fatto nel libro, Stiglitz lo accusa di essersi troppo preoccupato dell'inflazione soffocando così la vigorosa espansione economica che avrebbe potuto aver luogo durante gli anni di Clinton alla Casa Bianca.)

Si può anche non essere d'accordo con Stiglitz sulle conseguenze dell'operato del Fondo, comprese perfino quelle politiche che ora tutti riconoscono come controproducenti. Nel 2002 la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998 appare ormai un fenomeno passato. Mentre alcuni dei paesi colpiti (soprattutto l'Indonesia) ne subiscono ancora gli effetti, altri possono registrare solide riprese. Stiglitz ha ragione nel dire che non hanno riconquistato, né probabilmente riconquisteranno mai, gli alti tassi di crescita antecedenti alla crisi. Ma forse tassi di crescita così rapidi sono comunque insostenibili. Perfino in Russia, dove il reddito pro capite rimane ben al di sotto di quello che c'era al momento del crollo dell'Unione Sovietica, e dove l'FMI ha applicato le politiche che Stiglitz critica più duramente, oggi la situazione economica è migliorata rispetto al periodo in cui egli scriveva il libro.

Un problema più cruciale, come riconosce prontamente Stiglitz, è che non si può sapere con sicurezza, se le conseguenze delle politiche del Fondo sarebbero state peggiori in caso di soluzioni alternative. Molti osservatori di lunga data del mondo in via di sviluppo, noteranno che raramente Stiglitz menziona gli errori di politica economica che i paesi poveri spesso fanno per conto loro. Né fa molta attenzione alla corruzione su larga scala che è endemica in molte economie in via di sviluppo — tranne che nel caso della Russia, dove afferma che il programma di privatizzazioni incoraggiato dall'FMI spianò la strada a un livello di corruzione senza precedenti. Né sottolinea mai che un tipico paese in via di sviluppo spende molto di più per le sue forze armate (per combattere chi?) di quanto non riceva sotto forma di aiuti internazionali; eppure, bisognerebbe tener conto di tali sprechi, oltre alla corruzione in tutte le sue forme, se si vuol dare un quadro chiaro del perché le eco!
nomie non ancora in via di sviluppo non migliorino.

È anche sorprendente, vista l'enfasi sull'assenza di norme e controlli adeguati delle istituzioni finanziarie nei paesi in via di sviluppo, che Stiglitz non dia più peso agli errori fatti dalle imprese del settore privato. A esempio, ciò che rese la Corea vulnerabile durante la crisi asiatica del 1997-1998 fu il fatto che le grandi aziende del paese (i chaebols) avevano contratto troppi debiti e che le banche locali li avevano finanziati prendendo a prestito dollari americani e concedendo mutui in won coreani. È vero che le banche estere che prestavano dollari alle banche coreane contavano forse troppo sull'eventuale intervento dell'FMI nel caso qualcosa fosse andato storto, ma certamente gran parte della responsabilità della crisi era degli stessi uomini d'affari e banchieri coreani. E una volta costruito il castello di carte, quanti danni avrebbe provocato il suo inevitabile crollo, se il Fondo si fosse semplicemente tenuto da parte?

I difensori dell'FMI non possono dire che sia andato tutto bene dopo che i paesi hanno applicato le raccomandazioni del Fondo. Ma potrebbero sostenere che le cose sarebbero andate anche peggio in altro modo. Forse aggiungerebbero che ovviamente si sapeva che l'informazione era imperfetta, i mercati incompleti e le istituzioni assenti nei paesi che si rivolgevano al Fondo per avere aiuto. La questione, da vedere caso per caso, è quali interventi diversi si sarebbero potuti dimostrare più vantaggiosi.



Stranamente, oggi non ci si trova d'accordo neanche su quanto sia prevalente l'estrema povertà nel mondo in via di sviluppo (e più importante ancora, se la povertà sia in aumento o in diminuzione). Stiglitz ripete l'opinione corrente che il numero di persone al mondo che vivono con meno di un dollaro al giorno è aumentato negli ultimi anni. Invece, il suo collega al dipartimento di Economia della Columbia, Xavier Sala-i-Martin ha di recente pubblicato uno studio in cui sostiene esattamente l'opposto. Sala-i-Martin afferma che, allo scopo di valutare se una persona sia economicamente abbiente o povera, ciò che importa non è quanti dollari americani il reddito di quella persona potrebbe acquistare sul mercato delle valute estere, bensì quale livello di vita quel reddito può consentire nel posto in cui la persona vive. Poiché i valori delle valute stabiliti sul mercato dei cambi (e anche i valori che i governi fissano ufficialmente per valute che non hanno mercato) spesso non ne !
riflettono precisamente il potere d'acquisto, la differenza fra le due misure del reddito può essere piuttosto rilevante.

Si dovranno fare molte ricerche empiriche e molti dibattiti analitici prima di poter decidere con sicurezza quale di queste due misure contrastanti sia più precisa. Ma val la pena di sottolineare che l'origine principale del calo della povertà nell'ultimo quarto di secolo, secondo i calcoli di Sala-i-Martin, è la straordinaria riduzione della povertà in Cina, il paese più popoloso del mondo — e anche Stiglitz loda i risultati della Cina come uno dei più grandi successi economici recenti nel mondo in via di sviluppo. (In linea con la sua tesi centrale, afferma che la Cina è riuscita a riformare la sua economia e a ridurre la povertà, perché ha ignorato i consigli dell'FMI di liberalizzare e privatizzare di colpo e ha piuttosto seguito un approccio graduale, adattato alla sua situazione, che è la soluzione che lui stesso preferisce.) Di certo, la situazione di molti paesi in via di sviluppo, soprattutto nell'Africa subsahariana, rimane terribile, come sottolinea anche Sala-i-Mar!
tin, e potrebbe peggiorare. Ma se si concentra l'attenzione sulla gente, piuttosto che sui paesi, i grandi progressi fatti in Cina, e in minor misura in India — che insieme contano il 38% della popolazione mondiale — rappresentano necessariamente un miglioramento molto significativo.



L'attacco di Stiglitz all'FMI solleva non solo questioni che riguardano (e confutano) fatti concreti, ma anche problemi sostanziali, in particolare la sua tesi che il Fondo agisca per conto delle banche e dei detentori di obbligazioni e più in generale dei paesi ricchi, e quindi contro gli interessi dei poveri. In che misura l'FMI dovrebbe comportarsi come un normale istituto di credito? Citando casi specifici, Stiglitz accusa l'FMI di violare la sovranità economica dei paesi, quando chiede loro di applicare le sue raccomandazioni come precondizione per concedere i prestiti. Ma chiunque conceda responsabilmente un prestito non impone normalmente delle condizioni a chi lo contrae? Stiglitz non cita mai le serie critiche di cui il Fondo è attualmente oggetto da parte di molti economisti e politici in Occidente, perché concede crediti con pochissime condizioni, cosicché i paesi che prendono in prestito il denaro spesso finiscono per sprecarlo.

O forse il Fondo non dovrebbe considerarsi un istituto di credito, che opera con opportuno senso di responsabilità, ma piuttosto un organismo incaricato soltanto di promuovere il benessere nei paesi a cui concede prestiti, mettendo in conto una certa quantità di sprechi? Parte delle critiche di Stiglitz non sono tanto rivolte al Fondo stesso, quanto alla mancanza di una qualche forma di autorità internazionale in grado di imporre a cittadini relativamente abbienti il carico di assistere altri esseri umani meno fortunati in altre parti del mondo.

Certamente, i paesi ricchi potrebbero semplicemente mettersi d'accordo e devolvere una quota molto maggiore delle loro risorse agli aiuti internazionali (spesso si suggerisce la quota dell'1% del PIL), per un senso di obbligo morale o per la consapevolezza che aumentando il reddito dei paesi poveri si creano vantaggi che si riflettono anche nel mondo industrializzato. Ma non c'è nessun accordo del genere. Gli aiuti della maggior parte dei paesi ricchi diminuiscono rispetto al loro PIL e anche l'efficacia di tali aiuti viene sempre più messa in discussione.

Anche nei paesi con governi democratici di lunga tradizione, si continua a discutere sull'entità dell'assistenza internazionale e sulle forme che questa deve avere. Ma ciò che soprattutto preoccupa Stiglitz, e altri che condividono le sue idee sulle disuguaglianze fra i paesi, è che non solo non esiste un accordo del genere, ma neanche un meccanismo efficace — che lui chiama sistema di governance globale — per scegliere e mantenere una linea politica coerente in questo importante settore. Non è una novità che in certi ambienti si auspichi un approccio più formale alla condivisione degli oneri sul piano internazionale, mentre in altri ci sia una resistenza ugualmente forte all'idea. Ma va riconosciuto chiaramente che questo riguarda fondamentalmente la questione della disuguaglianza.



Anche molti degli aspetti economici più pratici della sua tesi sono questioni di vecchia data. Stiglitz sostiene con decisione politiche che favoriscono il gradualismo rispetto alle "terapie d'urto"; che mettono l'accento non su ciò che i paesi in via di sviluppo hanno in comune, ma sulle loro peculiarità; che si preoccupano più dei poveri che dei creditori; che considerano prioritario il mantenimento della piena occupazione piuttosto che la riduzione dell'inflazione (almeno quando questa non supera il 20% all'anno); e che combattono la povertà e promuovono la crescita economica direttamente, piuttosto che creare semplicemente le condizioni in cui l'economia può crescere e la povertà diminuire autonomamente. C'è un serio dibattito su ciascun aspetto di questo programma. L'economista fornisce un solido inquadramento logico, oltre che ampie prove e dettagli di prima mano, per sostenere il suo punto di vista su ciascuno dei problemi. Ma il suo obiettivo non è quello di dare una v!
alutazione equilibrata del dibattito in corso.

Stiglitz ha presentato, con la massima efficacia possibile, la sua versione della questione, inclusa la sostanziale logica di base per il tipo di sviluppo economico che preferisce, e uno specifico atto d'accusa su ciò che ha fatto il Fondo e perché. Il suo libro si pone come una sfida. È ora importante che qualcun altro, in grado di pensare e scrivere con la sua stessa chiarezza, di comprendere la sottostante teoria economica altrettanto bene e con una conoscenza diretta dei fatti recenti paragonabile alla sua — raccolga quella sfida, scrivendo il miglior libro possibile per illustrare l'argomentazione opposta. Occorre un libro che non solo cerchi di rispondere alle critiche specifiche di Stiglitz sul Fondo, ma che illustri anche la logica sostanziale alla base di determinate scelte e dell'approccio generale attuato dal Fondo.

Chi potrebbe scrivere un libro del genere? Il candidato più ovvio è l'ex economista dell'MIT Stanley Fischer, che negli anni coperti dall'analisi di Stiglitz era il primo vicedirettore del Fondo, cioè il numero due per importanza, ma, a parere di molti osservatori, colui che più di chiunque altro, effettivamente indirizzava le strategie dell'organizzazione. Un altro è il mio collega di Harvard (ora presidente dell'università) Lawrence Summers, che è stato sottosegretario al Tesoro negli Stati Uniti e poi ministro in quegli anni. Altri sostenitori dell'FMI nel mondo accademico, come Rudiger Dornbusch dell'MIT, pur non avendo la stessa conoscenza diretta di "chi ha detto cosa a chi", che deriva dall'aver ricoperto incarichi pubblici di alto livello, sono comunque eccellenti economisti in grado di illustrare con grande chiarezza ed efficacia le proprie posizioni. Se non ci sarà una risposta del genere, il libro di Stiglitz conquisterà certamente grandi consensi. E certo costituis!
ce il più potente atto di accusa rivolto finora contro il Fondo e le sue politiche.

(Traduzione di Lisa Zaffi)


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BENJAMIN M. FRIEDMAN insegna Economia politica all'Università di Harvard. Attualmente, sta scrivendo un libro sulle implicazioni morali della crescita economica.