[RSF] Riflessioni sul viaggio in Iraq

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Autore: Luigi Pirelli
Data:  
Oggetto: [RSF] Riflessioni sul viaggio in Iraq
Da: Riccardo Troisi [mailto:riccardo.troisi@libero.it]
Inviato: domenica 15 dicembre 2002 23.41


Impressioni di Pace da Bagdad

Ci sono moltissime sensazioni che riporto da questo viaggio di pace.

Sicuramente la pace non si costruisce con un viaggio, ma dal suo
continuo generare impressioni e riflessioni, è possibile trovare la
forza per cogliere nuovi percorsi.

Una azione di diplomazia dal basso come quella organizzata dalla
delegazione di parlamentari ed alcune organizzazioni della società
civile, rappresenta infatti un tentativo per riempire l’attuale vuoto
informativo che tanti squilibri provoca nella formazione di una opinione
pubblica italiana e mondiale. Farsi un idea di quello che accade al di
la del nostro orizzonte mediatico è sempre più difficile, visto che
ormai questi orizzonti sono appiattiti verso omologazione e la
disinformazione.

Per cui occorre iniziare non a controinformare, ma a ridare dignità alla
comunicazione e all’informazione, rompendo il muro dell’esistente
colonizzazione dell’immaginario collettivo che da per inevitabile il
concetto di guerra, e il suo simbolico che genera soltanto una perpetua
violenza strutturale dalla quale non riusciamo a venire fuori.

Questo viaggio rimane una metafora di questo percorso conoscitivo e le
sensazione provate sono ancora incapaci di generare in me visioni di
cambiamento di rotta.

La prima cosa rilevante è aver incontrato la gente di Bagdad, aver dato
finalmente un nome ai volti al di là dell’immagine televisiva, aver
sentito le voci di chi non ha possibilità di farsi sentire, di chi per
anni hanno vissuto tra l’oppressione di un embargo e la “libertà” di una
assurda dittatura.

Siamo riusciti dunque ad incontrare le persone, questo era uno degli
obiettivi del viaggio e in pochi giorni con un serrato programma di
lavoro abbiamo avuto riunioni con : il Presidente del Parlamento
iracheno; i Presidenti delle Commissioni parlamentari di esteri, sanità
e ambiente, lavoro e affari sociali e della religione e del culto; la
locale chiesa Caldea, nella persona del Vescovo; le agenzie delle
Nazioni Unite, direttori di UNICEF, e UNDP, e il coordinatore umanitario
per le attività oil for food; le ONG internazionali e le organizzazioni
umanitarie attive in loco; gli Ispettori delle Nazioni Unite, nelle
persone del portavoce e del direttore del centro operativo; il
rappresentante della nostra “sezione di interessi italiani” a Baghdad.
Abbiamo inoltre visitato: l'ospedale pediatrico oncologico, dove abbiamo
incontrato il direttore sanitario; la facoltà di scienze politiche
dell'Università di Baghdad, ospiti del direttore della facoltà stessa e
una scuola elementare di una zona disastrata della città di Baghdad.

Durante gli incontri, ci siamo resi conto della precarietà delle
condizioni di vita dei cittadini iracheni, imposte dall'embargo, e alle
possibili conseguenze umanitarie di un eventuale conflitto armato. Gli
operatori umanitari delle Nazioni Unite, in particolare, ci hanno
esposto il quadro di un paese in estrema emergenza dove, mortalità
infantile, denutrizione e condizioni igienico sanitarie sono
strettamente connesse all'embargo e sono solo parzialmente arginate dal
programma oil for food, che qualora dovesse essere interrotto, in caso
di conflitto, causerebbe una catastrofe umanitaria con migliaia di morti
civili.

La gente per la strada ci ha accolto con curiosità, ma i tentativi di
trovare un contatto più stabile del sorriso sono stati vani, sia per la
presenza delle continue ombre di Saddam, sia per una naturale difficoltà
a trovare un adeguata empatia con il nostro stile del “mordi e fuggi”.
La vita continua tra le strade di Bagdad, come se nulla dovesse
succedere come se nulla fosse mai successo, solo la nostra scia di
bandiere di pace mi ricorda che qui la guerra si deve assolutamente
evitare.

Sono rimasto colpito da tanti luoghi e da tanti volti senza rimanerne
affascinato, forse perché avevo paura che da un momento all’altro
diventassero nuovi obbiettivi da colpire e nuove cifre di vittime
innocenti da elencare nei nostri telegiornali e questo pensiero continua
a farmi orrore.

Più di ogni altra cosa prevale in me il disagio di non trovare un perché
si possa arrivare a concepire una guerra come questa, un inganno strano
dove la vittima è già morta e il suo assassino continua a non poter fare
a meno di ucciderla. Credo che l’angoscia che ci portiamo dentro su
questo guerra e legata al aver compreso che infondo quel assassino è il
nostro modello di sviluppo che non può fare a meno di alimentare
ingiustizie perché su queste regge la sua ragione e il suo essere
modello culturale, capace di genere libertà sulla pelle dei tanti
apartheid globali che dissemina nel sud del mondo.

Per questo penso che il lavoro da fare per contrapporsi alla guerra
parta proprio da questa angoscia, che deve essere sentita dalle nostre
realtà, tra la nostra gente e trasmessa con i nostri volti e soprattutto
dalla nostra convinzione di cancellare tutte le guerre, non solo perché
non sono lo strumento per risolvere alcun tipo di conflitto ma
soprattutto perché sono il nuovo strumento per mantenere in piedi la
baracca nella quale noi stessi viviamo. Per raccontare che il “nuovo”
di tutta questa vicenda, occorre ritornare a parlare con le persone e
non con le moltitudini o con le masse indefinite, spettatrici passive di
tanti orribili abomini nel passato recente, bisogna arrivare alle
coscienze individuali, ricostruire valori collettivi ricreare un
immaginario di convivenza pacifica tra i popoli, e ripartire da questa
per costruire una nuova cultura di pace.



Riccardo Troisi