[Lecce-sf] lettera aperta di Nichi Vendola a Ruppi

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Autor: Antonella Mangia
Data:  
Asunto: [Lecce-sf] lettera aperta di Nichi Vendola a Ruppi
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Carissimo Monsignor Ruppi,

Le scrivo dal punto estremo della mia coscienza: e cioè da una latitudine interiore in cui il bisogno di verità è più forte di qualsiasi prudenza politica. So che la “verità” è un concetto più consono al Suo magistero che non alla mia militanza, eppure è proprio questa parola che interroga le vite di noi tutti e ci chiede conto dei nostri gesti. Io penso che il Regina Pacis sia una ciclopica contraddizione con quella pastorale dell’accoglienza degli stranieri di cui Lei si è fatto spesso interprete. Penso che ogni Centro di Permanenza Temporanea per clandestini sia uno scandalo, una ferita, una mutilazione di tutti i nostri codici di civiltà e di tutti i precetti cristiani. Questo vale anche per il Centro gestito dalla Chiesa leccese. E lo penserei anche se lì, oltre i cancelli e le blindature di San Foca, tutto fosse lindo e confortevole: ma lì, eccellentissimo Monsignore, dentro quel perimetro di pena senza colpa, nulla è lindo e nulla è confortevole. Lei sa bene che io non ho aperto bocca sulle indagini che la magistratura ha avviato nei confronti Suoi, di don Cesare Lodeserto, della struttura gestionale del Regina Pacis: perché è bene che la giustizia faccia il suo corso e che nessuno si senta autorizzato ad emettere improprie sentenze extragiudiziarie, ma anche perché conosciamo le luci dell’impegno sociale della diocesi coinvolta. Voglio dire che non vi è mai stata ombra di pregiudizio, da parte mia, nei confronti di un Vescovo a cui ho offerto amicizia e dialogo sincero. Ma le luci non cancellano le ombre: e ogni volta che vado via da San Foca mi sento come inseguito da una processione di ombre, di ansie, di dubbi. Le “voci di dentro” rimbalzano dal quel mondo chiuso, spesso in forma di lacrime o di bisbigli, spesso nelle frasi spezzate di chi non ha interpreti per una disperazione che parla arabo o albanese o dialetti intraducibili: dicono di una violenza endemica e strutturale, violenza intrinseca al regime di segregazione ma talvolta acuita ed esacerbata da chi svolge le improprie funzioni di carceriere; dicono di condizioni igieniche indecenti, ed io le ho potuto verificare personalmente nello squallore e nel luridume dei dormitori; dicono di assistenza sanitaria tanto costosa quanto superficiale: e su questo don Cesare mi ha detto di essere incazzato con la Asl che prende 700 milioni di vecchie lire per garantire un servizio privo di qualità. Certe notti mi rivedo i volti di quei ragazzi smagriti e dolenti che, con aria di sfidare l’Istituzione, mi raccontavano delle botte e delle minacce. Per chi viene da storie di esproprio di vita, per chi è fuggito dalla guerra e dalla tortura, per chi ha tentato di salvarsi dalla fame e dalla dannazione della miseria, ma anche per chi semplicemente si è fatto migrante in cerca di fortuna: per ciascuno di costoro è terribile trovarsi in quel limbo penitenziario, sospesi all’incertezza del futuro, condannati senza processo a sessanta giorni di dolce campo di concentramento: ciò che avviene nella quotidianità di San Foca può essere normale rigore per chi vigila e può essere percepito come tortura da chi è vigilato. Per questo, caro Monsignor Ruppi, non cerchi protezione in quella politica che è prodiga di riconoscimenti ipocriti, a Lei, a don Cesare, al Regina Pacis. Non le mancherà il conforto dei potenti di governo e neppure dei potenti dell’opposizione. Piuttosto si liberi da questa impresa anti-evangelica: se alla Sua coscienza ripugna la struttura dei Cpt, perché gestirne una? Perché tenere sottotraccia il dissenso verso il nuovo razzismo e le sue macchine istituzionali di negazione della dignità umana? Perché non gestire una vera comunità di accoglienza, di condivisione, di libertà e di convivialità delle differenze? Diamo a don Cesare quello che è di don Cesare: che butti a mare il chiavistello di quella mascherata prigione e faccia valere il suo genio di moderno missionario. Questo Le chiedo, umilmente, caro Monsignore, ricordando quello che anche Lei mi ha insegnato: la Verità ci farà liberi…











Lettera aperta del deputato di Rifondazione Comunista on. Nichi Vendola a Monsignor Ruppi

Pubblicata da “Repubblica” del 3 dicembre 2002



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<P class=MsoNormal style="MARGIN: 0cm 0cm 0pt"><SPAN style="FONT-SIZE: 14pt"><FONT face="Times New Roman">Le scrivo dal punto estremo della mia coscienza: e cioè da una latitudine interiore in cui il bisogno di verità è più forte di qualsiasi prudenza politica. So che la “verità” è un concetto più consono al Suo magistero che non alla mia militanza, eppure è proprio questa parola che interroga le vite di noi tutti e ci chiede conto dei nostri gesti. Io penso che il Regina Pacis sia una ciclopica contraddizione con quella pastorale dell’accoglienza degli stranieri di cui Lei si è fatto spesso interprete. Penso che ogni Centro di Permanenza Temporanea per clandestini sia uno scandalo, una ferita, una mutilazione di tutti i nostri codici di civiltà e di tutti i precetti cristiani. Questo vale anche per il Centro gestito dalla Chiesa leccese. E lo penserei anche se lì, oltre i cancelli e le blindature di San Foca, tutto fosse lindo e confortevole: ma lì, eccellentissimo Monsignore, dentro quel perimetro di pena senza colpa, nulla è lindo e nulla è confortevole. Lei sa bene che io non ho aperto bocca sulle indagini che la magistratura ha avviato nei confronti Suoi, di don Cesare Lodeserto, della struttura gestionale del Regina Pacis: perché è bene che la giustizia faccia il suo corso e che nessuno si senta autorizzato ad emettere improprie sentenze extragiudiziarie, ma anche perché conosciamo le luci dell’impegno sociale della diocesi coinvolta. Voglio dire che non vi è mai stata ombra di pregiudizio, da parte mia, nei confronti di un Vescovo a cui ho offerto amicizia e dialogo sincero. Ma le luci non cancellano le ombre: e ogni volta che vado via da San Foca mi sento come inseguito da una processione di ombre, di ansie, di dubbi. Le “voci di dentro” rimbalzano dal quel mondo chiuso, spesso in forma di lacrime o di bisbigli, spesso nelle frasi spezzate di chi non ha interpreti per una disperazione che parla arabo o albanese o dialetti intraducibili: dicono di una violenza endemica e strutturale, violenza intrinseca al regime di segregazione ma talvolta acuita ed esacerbata da chi svolge le improprie funzioni di carceriere; dicono di condizioni igieniche indecenti, ed io le ho potuto verificare personalmente nello squallore e nel luridume dei dormitori; dicono di assistenza sanitaria tanto costosa quanto superficiale: e su questo don Cesare mi ha detto di essere incazzato con la Asl che prende 700 milioni di vecchie lire per garantire un servizio privo di qualità. Certe notti mi rivedo i volti di quei ragazzi smagriti e dolenti che, con aria di sfidare l’Istituzione, mi raccontavano delle botte e delle minacce. Per chi viene da storie di esproprio di vita, per chi è fuggito dalla guerra e dalla tortura, per chi ha tentato di salvarsi dalla fame e dalla dannazione della miseria, ma anche per chi semplicemente si è fatto migrante in cerca di fortuna: per ciascuno di costoro è terribile trovarsi in quel limbo penitenziario, sospesi all’incertezza del futuro, condannati senza processo a sessanta giorni di dolce campo di concentramento: ciò che avviene nella quotidianità di San Foca può essere normale rigore per chi vigila e può essere percepito come tortura da chi è vigilato. Per questo, caro Monsignor Ruppi, non cerchi protezione in quella politica che è prodiga di riconoscimenti ipocriti, a Lei, a don Cesare, al Regina Pacis. Non le mancherà il conforto dei potenti di governo e neppure dei potenti dell’opposizione. Piuttosto si liberi da questa impresa anti-evangelica: se alla Sua coscienza ripugna la struttura dei Cpt, perché gestirne una? Perché tenere sottotraccia il dissenso verso il nuovo razzismo e le sue macchine istituzionali di negazione della dignità umana? Perché non gestire una vera comunità di accoglienza, di condivisione, di libertà e di convivialità delle differenze? Diamo a don Cesare quello che è di don Cesare: che butti a mare il chiavistello di quella mascherata prigione e faccia valere il suo genio di moderno missionario. Questo Le chiedo, umilmente, caro Monsignore, ricordando quello che anche Lei mi ha insegnato: la Verità ci farà liberi…<SPAN style="mso-spacerun: yes">&nbsp; </SPAN><o:p></o:p></FONT></SPAN></P>
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