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Szerző: Marcantonio
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"TUTTI PARLANO DI ARAFAT MA QUI CI SONO CENTOMILA PERSONE NELLE SE
CONDIZIONI
"Il mitra alla nuca mentre soccorrevo un ferito"
Il racconto dell'eurodeputata Luisa Morgantini e degli altri dimostranti
          ROMA STAMATTINA eravamo davanti al Medical Relief, stavamo
caricando sulle ambulanze medicine, ma soprattutto acqua e cibo: perché a
Ramallah c'è il coprifuoco, per consegnare i viveri bisogna entrare sin
dentro casa, se trovano un palestinese gli israeliani lo portano via. In un
minuto, siamo stati circondati dai carrarmati. I soldati sono scesi, e
hanno comnciato i rastrellamenti. Sono entrati in una casa, e hanno portato
fuori venti uomini. Erano poliziotti dell'Anp, in divisa: li hanno
disarmati, bendati, fatti sdraiare in terra. Abbiamo cercato di opporci,
mio padre era partigiano e mi diceva sempre che erano i nazisti a fare i
rastrellamenti, ho detto a un soldato. Quello, per tutta risposta ha girato
la faccia dall'altra parte. Poi, è scoppiato il finimondo. Perché mentre
portavano via i palestinesi, dalla casa di fronte dei cecchini hanno
cominciato a sparare. Gli israeliani allora hanno bombardato con i tank,
hanno distrutto due case. Ho visto un poveretto che per la paura s'è
gettato dalla finestra. Allora, con una barella, siamo andati a prenderlo.
Niente da fare. Mi hanno sbattuta a terra, hanno puntato i mitra, contro di
me e contro un ragazzo francese di Action for Peace». Luisa Morgantini,
l'eurodeputata diessina che da vent'anni si occupa di Palestina, in quella
posizione è rimasta fino a tarda sera, quando poi è stata rilasciata,
mentre le agenzie di stampa avevano già dato per certo il suo arresto.
Tutti, in queste ore, pensavano che lei fosse nel bunker di Arafat: «Tutto
il mondo parla di Abu Ammar: ma qui a Ramallah ci sono centomila persone
che vivono nelle sue stesse condizioni, senz´acqua, senza luce, senza
viveri. E in prigione. Quando non vengono rastrellate». I soldati, gli
ufficiali israeliani sulla linea più calda del conflitto con i palestinesi,
nonostante la brutalità delle operazioni e il 95% dei riservisti richiamati
alla guerra, non hanno tutti lo stesso atteggiamento. «Ho notato molte
differenze, e ordini contraddittori», dice Morgantini. «Quando abbiamo
tentato di forzare il blocco per entrare nel quartier generale di Arafat
eravamo in cinquanta, a piedi nella piazza Al Manhara invasa da carri
armati. Non sapevamo come andare avanti. Io ero in prima fila con José Bové
e con una ragazza ebrea americana: mi ricordo una forte emozione, due
soldati di Tel Aviv col pollice levato e un sorriso, andate, andate
avanti», dice il deputato Verde Mauro Bulgarelli. Morgantini, Bulgarelli,
da ieri sera anche il prosindaco di Venezia Gianfranco Bettin e l'assessore
Beppe Caccia, un centinaio di pacifisti italiani e una cinquantina di
francesi sono a Ramallah a fare quello che dovrebbero fare i Caschi blu: le
forze di interposizione di pace. Funziona? Funziona: «L'altra mattina stavo
tentando con gli altri di entrare da Arafat. Ma passando davanti
all'ospedale (a Ramallah ce ne sono sei, ndr) ho visto i soldati che lo
circondavano di blindati ed entravano. Ci siamo messi a parlamentare, dopo
un'ora se ne sono andati. I malati, i medici, gli infermieri ci hanno
chiesto di rimanere con loro», dice Roberto Giudici, che in Italia è
sindacalista della Fiom. Rastrellamenti, bombardamenti di case civili,
ambulanze bloccate devono fare i conti con la presenza degli attivisti di
Action for Peace e di Yá Basta, e dei deputati e pacifisti italiani. «Oltre
che delle televisioni di tutto il mondo: quando gli israeliani hanno chiuso
la città e decretato il coprifuoco, e interdetto la zona ai giornalisti,
non si sono accorti che impedendo alla gente di entrare, impedivano anche
di uscire: anche alle telecamere», dice Bulgarelli.  «Io resterò qui ad
oltranza, fin quando non arriverà a Ramallah una delegazione qualificata
delle istituzioni internazionali, italiane ed europee», dice Gianfranco
Bettin, arrivato ieri con un percorso avventuroso. Ramallah è vietata al
mondo, «abbiamo fatto un lungo giro tra cave, fabbriche distrutte, una
pericolosa spianata e poi su per una rupe con quattro palestinesi che ci
facevano da guida, che ci hanno poi consegnato ad altri quattro e ad altri
quattro ancora». Gli spari si odono anche al telefono, continuamente: colpi
di mortai, di mitra e carri armati. «Ieri non era così», dice Morgantini.
«Ma se venite a Ramallah, non dimenticate le sigarette, e batterie dei
telefoni, tante e cariche: solo così potremo ricominciare a comunicare con
il mondo, e solo così potremo resistere all'ansia e alla mancanza di cibo».
Le richieste, dal bunker in cui è assediato Arafat, senza luce, senza
viveri, senza acqua, «asserragliato in un edificio mezzo distrutto
circondato da tank che hanno tutti la torretta puntata verso di lui», sono
sempre le stesse. «Quando siamo riusciti a entrare gli ho chiesto: cosa
possiamo fare? Lui ha sgranato gli occhi, ma non ti accorgi di cosa sei già
riuscito a fare?, voi siete le prime persone civili che incontriamo da
quando l'assedio è cominciato. Poi ha stretto forte la carica del
cellulare: terrorista è chi impedisce a un popolo di comunicare, ha detto,
noi siamo in prigione, isolati dal mondo, ma vivi. E non ci arrenderemo