LA CRISI DEL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE
LE RAGIONI DELLA CRISI, UNA PROPOSTA PER USCIRNE
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novembre 2001, REDS
A pochi mesi dalla sua nascita, il movimento antiglobalizzazione è già in
crisi. Ben pochi hanno voglia di dirlo apertamente, tali e tante erano le
attese che animavano tutti noi sino a due mesi fa. Le cose, però, vanno
chiamate col loro nome.
La crisi
I segnali della crisi sono piuttosto evidenti. Tra agosto e inizio settembre
sono sorti una novantina di social forum locali. La crescita è stata
impetuosa e qualche volta non del tutto spontanea (vedi il nostro articolo
Social forum: quello che non va), ma era comunque significativa di una certa
urgenza di mettersi insieme a prescindere dalle diversità, di "mettere a
frutto" sul piano organizzativo l'esperienza collettiva rappresentata da
Genova.
Oggi assistiamo ad un calo verticale della partecipazione ai social forum
delle grandi città. L'entusiasmo che animava i singoli militanti ha subito
un brusco ridimensionamento. Il movimento nel suo complesso e le sue singole
componenti dedicano gran parte delle proprie riunioni a parlare di se
stessi: regole, funzioni, compiti, gruppi di lavoro, ruolo dei portavoce,
con annesse interminabili riunioni di mediazione tra le varie componenti
sulle parole e le virgole di questo o quel comunicato, ecc. Così è andata
l'assemblea di Firenze dei social forum del 20 e 21, ma in fondo così sono
andate anche le assemblee regionali della Rete Lilliput (dove al centro
c'era il dibattito sui rapporti con il movimento). Quando i movimenti sono
in salute non discutono di sé (del chi si è e del cosa si vuol fare), ma
"fanno".
Cominciamo a trovare così sempre più persone che sono deluse dei social
forum ("parlano solo e non si conclude niente"), ed altre, più schierate con
una determinata componente, che addossano la responsabilità a tutte le
altre: il militante dell'area cobas che trova insopportabili i disobbedienti
e quelli di Lilliput, quello di Lilliput che incolpa l'"area del PRC" senza
fare tante distinzioni tra componenti, quello di Rifondazione che ce l'ha
coi "cattolici" perché non "politicizzano" il movimento, ecc. Il risultato è
che assistiamo ad un ritorno alla dimensione locale e di componente. In
poche parole, delusi dalle forme "generali" di organizzazione del movimento,
la massa dei militanti "ritorna" alle aggregazioni di origine (partito,
sindacato, associazione) o alla dimensione più "piccola" (il quartiere, il
paese, ecc.). I social forum, così, si trasformano in intergruppi, arene
dove si scontrano le numerossissime leadership che la frammentazione degli
anni novanta ha prodotto. Siamo ad un passo dalla dissoluzione: l'unico
motivo infatti per cui queste leadership trovano interessante stare in
ambiti "larghi" è proprio la presenza di una "massa" da poter influenzare,
ma se questa sparisce, stiamo pur certi che in breve avremo spaccature,
defezioni, e fughe anche da parte dei suddetti piccoli ceti dirigenti. I
social forum cioè, rischiano di diventare una sigla, gusci vuoti. E, in vari
luoghi, già in parte lo sono.
Le ragioni della crisi
Le ragioni di questa crisi sono "oggettive" e "soggettive".
La ragione oggettiva è, ovviamente, l'11 settembre. Gli attentati hanno
influito in maniera assolutamente negativa sul movimento. Ciò è avvenuto in
primo luogo perché il movimento antiglobalizzazione godeva di una larga
simpatia di massa dopo i fatti di Genova, una simpatia sentita da tutti come
qualcosa di confortante, una sorta di "calore" che aiutava nel prendere
qualsiasi genere di iniziativa. Dopo l'11 settembre e lo scatenarsi della
"guerra di civiltà" (vedi la nostra lettura degli avvenimenti in Il dilemma
dei forti e La crociata infinita), questa simpatia si è ridimensionata. In
qualche misura il mondo occidentale e i suoi disvalori, che erano stati
messi in discussione dal movimento antiglobalizzazione, erano stati colpiti
ma in maniera diametralmente opposta ai nostri metodi e alle nostre speranze
(cioé col terrorismo), producendo a livello di massa una reazione difensiva
tribale, etnica, e rendendo dunque difficoltosa la circolazione del discorso
antiglobalizzazione.
In secondo luogo la natura complessa del fondamentalismo islamico e
l'oggettiva difficoltà a comprendere nel profondo la natura della guerra in
corso, hanno reso impotenti sul piano interpretativo l'intero movimento, che
ha lasciato passare senza fiatare misure vergognose come la nuova legge
sull'immigrazione o l'ondata repressiva che si è scatenata sugli islamici.
Tutti ormai erano abituati a considerare il dominio dell'Occidente sul mondo
dall'angolo visuale del consumo critico, delle manipolazioni genetiche,
dell'imperio del logo, ma non dal lato suo più crudo: quello della guerra.
Così un movimento che si definisce nonviolento, non è stato in grado di
praticare un'opposizione sistematica contro la più efferrata forma di
violenza: quella della guerra dei potenti.
Le ragioni soggettive sono presto dette (ne avevamo parlato in Social forum:
quello che non va). Le assemblee dei social forum, compresa quella nazionale
di Firenze, sono assemblee dove la nuova militanza che si è formata, o
ritrovata, durante e dopo Genova non ha alcuna voce in capitolo. Gli anni
novanta hanno dato vita a tanti ceti politici dirigenti frammentanti e in
guerra tra loro. Centri sociali, piccoli sindacati, opposizioni sindacali,
piccole organizzazioni politiche, correnti interne al prc, grandi
associazioni, hanno prodotto gruppi dirigenti abituati a far politica in
maniera minoritaria: la loro "arena di combattimento" sino all'altro giorno
sono state le lotte di corrente interne al PRC e ai DS, quelle interne al
sindacato, tra le diverse piccole componenti del sindacalismo di base,
quelle interne alle istituzioni, oppure di partnership con le istituzioni
per favorire "progetti", ecc. Sono gruppi che hanno contato sempre su un
piccolo numero di militanti, alle cui iniziative aderivano settori di massa
molto limitati ("sempre i soliti"), abituati a fare tutto per conto proprio
senza relazionarsi con "altri". Questi gruppi dirigenti si sono ritrovati
insieme, assai malvolentieri, spinti dal basso e dagli eventi, a gestire un
movimento che era di massa, e non hanno superato questa prova assai
difficile. Hanno portato dentro questo movimento, assetato di un nuovo modo
di far politica, tutti i loro vecchissimi modi di far politica: il
leaderismo esasperato, le furbizie dei giochi di corridoio per far passare
dietro le quinte le mediazioni tra gruppi dirigenti a prescindere dalla
volontà della base, il maschilismo, il presenzialismo che trasforma molte
assemblee di social forum in una intollerabile passerella di interventi
prolissi e superflui, l'ansia di egemonia, l'inconcludenza, la subalternità
verso i mass media, ecc. ecc. Il tutto è aggravato dalla pesante cappa di
ipocrisia che avvolge questi evidenti limiti. Tutti, ad esempio, sono a
parole per l'orizzontalità, ma si guardano bene dal dare gambe concrete a
questa esigenza: in alcune città ristretti gruppi mantengono il monopolio
dei "contatti" (indirizzi, nomi, e-mail), le presidenze e le relazioni
iniziali sono patrimonio di ristrette cerchie, ecc. Tutti sono contro il
leaderismo a parole, poi nei fatti a parlare ai giornali sono sempre gli
stessi. E via dicendo. Il movimento antiglobalizzazione ha espresso una
nuova generazione di attivisti: non solo giovani, ma anche adulti che erano
stati ai margini negli anni novanta e che ora trovavano nuove motivazioni.
Ma i vecchi, piccoli, furbissimi gruppi dirigenti hanno rapidamente, coi
loro modi, rotto le scatole a tutti. A Firenze chi ha deciso (o non deciso)
non erano certo i 90 social forum locali, ma i capi delle varie correnti che
dietro le quinte hanno cercato le loro mediazioni, senza, tra l'altro,
nemmeno riuscire in questo intento.
Che fare?
Il segno più evidente della fragilità di questo movimento, in tutte le sue
componenti, è costituito dall'atteggiamento verso la guerra. Battersi contro
la guerra oggi significa anche porsi contro il "senso comune" di buona parte
della popolazione, stare dalla parte degli immigrati islamici significa
scontare una buona dose di impopolarità. Abbiamo notato però con grande
amarezza la completa latitanza nel contrastare il clima di linciaggio verso
la comunità islamica da parte di un movimento che si proclama nonviolento,
ma non ha fatto nulla di significativo contro quella forma di violenza
abominevole; così i vari pezzi del sindacalismo di base non hanno trovato di
meglio che proclamare scioperi generali, nelle categorie dove sono più
forti, in date diverse, senza mettersi d'accordo per uno sciopero unitario
contro la guerra che avrebbe trovato l'adesione anche di pezzi significativi
della cgil. Abbiamo l'impressione che nel movimento prevalga una sorta di
tacita speranza che questa guerra finisca alla svelta e tutto ritorni come
prima dell'11 settembre, quando si poteva con grande tranquillità
prendersela con multinazionali così lontane. Invece, compagni e amici,
questa è la globalizzazione: è il dominio sanguinario del mondo da parte di
una "civiltà" su tutte le altre, una civiltà della quale facciamo parte, e
contro la quale dobbiamo lottare se non vogliamo passare agli occhi del
resto del mondo come complici.
La guerra contro l'Afghanistan è parte della guerra contro i Paesi islamici,
che a sua volta è parte della guerra che dura da 500 anni contro il Sud del
mondo. Ogni componente del movimento può dare il suo utilissimo e specifico
contributo per far cessare questa guerra (e contemporaneamente lottare
contro il fascismo talebano, ad esempio sostenendo gruppi che da anni si
battono contro di essi, come RAWA), non ci si deve dividere sui mezzi di
questa lotta: le componenti sindacali (cobas, cub, rdb, slai, unicobas, usi,
rsu cgil e altri) possono accordarsi tra loro per uno sciopero generale che
vada al di là dei meschini calcoli di sigla, le associazioni della Rete
Lilliput possono mettere le proprie capacità di sensibilizzazione dal basso
al servizio della lotta contro il pregiudizio religioso ed etnico, l'area
dei disobbedienti, che ha un maggiore radicamento giovanile, potrebbe
utilizzarlo per far crescere nelle scuole e nelle università una coscienza
antiguerra di civiltà e far divenire i centri sociali isole di incontro tra
arabi e italiani, ecc. In una situazione di rapporti deteriorati non stiamo
pensando a un qualche salvifico ripensamento di un qualche gruppo dirigente:
ma ognuno di noi, in qualsiasi gruppo o componente sia inserito, può
spingere perché il proprio gruppo assuma la lotta contro la guerra come il
tema centrale della propria iniziativa. La riunificazione del movimento può
partire dal basso se, nella diversità e varietà delle iniziative, ci si
batte tutti insieme per far cessare questa guerra. E i segnali di questa
opposizione devono essere chiari, evidenti, leggibili non solo in Italia, ma
in tutto il mondo: solo così possiamo contribuire anche a sconfiggere la
corrente politica del fondamentalismo islamico, che altrimenti rischia,
nutrito della nostra indifferenza, di far proseliti anche tra gli immigrati.
Certo, in questa lotta non vi è alcun dubbio che ci scontreremo contro il
governo Berlusconi: è il governo della guerra, è il governo dello scontro di
civiltà, ed è per questo che non possiamo fare a meno dell'unità preziosa
che abbiamo costruito a Genova. A Firenze i nostri dirigenti non sono
riusciti a mantenerla. Come singoli militanti però possiamo influenzare i
singoli gruppi nei quali militiamo per spingerli a priorizzare il no alla
guerra e la solidarietà verso gli immigrati.
Abbiamo l'impressione che la crisi del movimento antiglobalizzazione sia
passeggera: non assistiamo a massicci ritorni a casa, non c'è disimpegno
dall'attività, ma la ripresa non è scontata. Di fronte all'enorme compito
che ci si è parato inaspettatamente davanti, la lotta contro lo scontro di
civiltà, la lotta contro la guerra, anche nel momento in cui schegge del Sud
del mondo colpiscono pure noi, e la nostra tranquilla vita quotidiana, il
movimento si è come rattrappito e fermato, incerto, confuso, esitante.
Eppure le liti interne ai gruppi dirigenti del movimento, mentre la notte
dell'Afghanistan è illuminata dalle bombe che cadono su tutti fuorché sui
talebani, hanno un qualche cosa di osceno e immorale. Se non abbiamo la
forza etica, prima ancora che politica, di assumere la lotta contro la
guerra della "nostra" civiltà, come compito centrale per tutti noi, questo
movimento non è degno di esistere, è solo la piccola rivolta di piccoli,
sazi, insoddisfatti omini bianchi.
l'unica lotta che si perde e' quella che si abbandona.
(madri di plaza de mayo)