Con Bonaccini il ritorno al futuro del renzismo
CONGRESSO PD. Dietro i nuovi rayban di Bonaccini si ripropone la vecchia 
minestra, come in una scena di Ritorno al futuro: ricette blairiane, 
fighettismo spacciato per modernità, peana alla crescita e alle imprese
Non è certo la presenza dell’ex grillino Giarrusso il cuore politico 
della due giorni di convention di Stefano Bonaccini dello scorso weekend 
a Milano. Nonostante l’amplissimo spazio dedicato al «caso» da quasi 
tutti i giornali. Il nodo vero è il ritorno alla ribalta prepotente, a 
tratti sfacciato, di tutta la classe dirigente che è stata protagonista 
del renzismo e che, dal 2019, con la vittoria di Zingaretti, era stata 
in minoranza, la ridotta «riformista» che poi significa renzismo orfano 
della persona fisica di Renzi ma non della sua idea di paese. Da Lorenzo 
Guerini a Giorgio Gori e Dario Nardella, Pina Picierno, Alessandra 
Moretti, Simona Bonafè, Debora Serracchiani (che fu vice del 
fiorentino): tutti per anni hanno popolato tv e giornali magnificando il 
loro Capo e le sue «riforme», dal Jobs Act alla Buona Scuola fino alla 
riforma costituzionale bocciata dagli italiani. E non ne hanno mai preso 
le distanze.
Non c’è nulla di strano nel fatto che la minoranza dell’ultimo congresso 
punti ora tornare maggioranza nel partito. Si pone però un immenso tema 
di credibilità, che non riguarda le correnti in senso astratto o la 
competizione tra amministratori locali e politici “romani”. Anche perché 
si tratta di persone che sono ormai da anni dirigenti nazionali e 
parlamentari o ex ministri. *Le dicotomie che Bonaccini ostenta per non 
parlare dei nodi veri sono puro fumo negli occhi. Il tema è la pervicace 
volontà di non fare i conti con gli anni del renzismo, con quella 
lettura del capitalismo e dei rapporti sociali, del ruolo e della 
rappresentanza sociale della principale forza del centrosinistra. Un 
fenomeno, quello del renzismo, che non fu solo una degenerazione, ma una 
conseguenza del Lingotto di Veltroni,* e cioè del partito pigliatutti, 
blairiano, che guarda a un fantomatico centro e introietta tutti i 
cardini del neoliberismo, a partire dal lavoro precario, che finge di 
abolire il conflitto sociale per non dire esplicitamente che sta con i 
più forti.
*
**Gli elettori, in realtà, l’hanno capito benissimo: tra operai, 
disoccupati e precari, nelle periferie geografiche e sociali, il Pd è 
una forza residuale. *Scelta legittima, ma va dichiarata, come ha fatto 
il re delle ztl Carlo Calenda. Dire come fa Bonaccini che il suo Pd sarà 
«laburista» non significa nulla: laburista alla Blair o alla Corbyn? Per 
i ceti medio-alti urbani altamente scolarizzati o per chi non arriva a 
fine mese? Nessuna risposta. Così come non si è sentita mezza 
giustificazione da parte di chi, nel Pd, nel 2013 osteggiava Bersani con 
l’Agenda Monti e dieci anni dopo ha spinto Letta verso l’ultradraghismo, 
in nome di un sempre più vuoto «riformismo».
*Poi a palazzo Chigi sono arrivati i camerati, che se ne sono fregati 
della moderazione, del centro, e di tutte le stupidaggini che da 
trent’anni ossessionano il centrosinistra italiano. Si sono presentati 
con il loro volto, a riprova che nella società italiana del 2023 le 
mezze misure non funzionano più: 15 anni di crisi finanziaria ed 
economica, la pandemia e la guerra hanno impoverito e spaventato settori 
sempre più larghi della popolazione, non solo anziani, ma anche 
tantissimi giovani che non vedono più un futuro strozzati da un mercato 
del lavoro sempre più avido. E i risultati si sono visti: nel 2018 il 
M5S al 33%, l’anno dopo la Lega al 34%, oggi FdI al 30%. Populismo? No, 
rabbia sociale che cerca rappresentanza. Della buona amministrazione 
(dove c’è ancora) e della responsabilità del Pd gli italiani non sanno 
che farsene. *Ed è davvero provinciale pensare di proiettare i buoni 
risultati nei Comuni in una ricetta per il governo nazionale. Non 
funziona dal 1994, quando i progressisti si illusero dopo i successi 
nelle città, e il replay del 2022 dovrebbe averlo ricordato.
Dunque lo stupore davanti alla classe dirigente renziana che si 
ripropone, imperterrita, con stuolo di hashtag e selfie, non è solo per 
una questione di credibilità delle persone. Il problema è che dietro i 
nuovi rayban di Bonaccini si ripropone la vecchia minestra, come in una 
scena di Ritorno al futuro: ricette blairiane, fighettismo spacciato per 
modernità, peana alla crescita e alle imprese. In sostanza difesa dello 
status quo. E chi cerca di farlo presente, e magari di scriverlo nel 
nuovo manifesto dei valori, viene tacciato di essere «una sinistra 
minoritaria di cui non so che farmene», ha detto domenica il governatore 
emiliano. Peccato che l’Italia sia cambiata, e che i ceti benestanti 
abbiano già il loro rappresentante in Calenda (con Renzi).
A Bonaccini non basta ricordare di essere stato del Pci, o dire a bassa 
voce che «eliminare l’articolo 18 è stato un errore». O presentarsi ai 
cancelli di Mirafiori. Gli elettori, soprattutto quelli che stanno male, 
giustamente non si fidano. E i residui militanti sanno che con questa 
minestra riscaldata il M5S di Conte è destinato a prendersi lo spazio 
sociale e politico della sinistra. Infine, l’Italia non è l’Emilia 
Romagna: è più grande, socialmente complessa, più arrabbiata e più 
povera. Non si conquista con un po’ di buon governo e pacche sulle 
spalle ai ceti medi produttivi. Già Bersani (il frutto politicamente 
migliore di quella terra) nel 2013 commise questo errore di valutazione. 
E gli costò caro.
Andrea Carugati
https://ilmanifesto.it/con-bonaccini-il-ritorno-al-futuro-del-renzismo