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Recensione di Anna Curcio a "Un femminismo decoloniale" di Françoise Vergès (ombre corte 2020)
Oceano Atlantico, seconda metà del Diciottesimo secolo. Zamore e Mirza, due giovani schiavi in fuga, trovano rifugio su un’isola deserta. Zamore, che ha ucciso il comandante di una nave negriera, sa che non sopravviverà a un’eventuale cattura, ma è generoso e non può fare a meno di salvare una coppia di naufraghi che intravede all’orizzonte. Sofia è figlia di un notabile francese e per sdebitarsi con l’uomo a cui deve la vita aiuterà Zamore e Mirza a sottrarsi alla loro condizione di schiavitù. È questa in estrema sintesi la trama del romanzo L’esclavage des noirs, ou l’heureux naufrage di Olympe de Gouges, apparso in Francia nel 1785. Uno dei testi fondativi del femminismo storico europeo, subito tacciato di essere sovversivo per gli spiragli di libertà che lasciava intravedere ai neri schiavi. A questo romanzo, come ad altri analoghi del tempo, in particolare Paule et Virgine di Bernardine de Saint-Pierre, «una delle opere più lette del XVIII secolo», la femminista antirazzista Françoise Vergès riconduce l’origine di un «femminismo civilizzazionale», di cui produce una accurata e tagliente critica nel volume Un femminismo decoloniale, di recente tradotto dal francese per le edizioni ombre corte (2020, pp. 115, euro 11,00). Sofia, la vera protagonista del romanzo di de Gouges è colei che consente l’emancipazione dei due giovani schiavi: «senza la donna bianca, nessuna libertà» sottolinea la femminista antillana, per portare l’accento sulla politica della compassione al fondo del femminismo bianco e della sua missione civilizzatrice. Vergès, cresciuta a La Réunion in una famiglia comunista impegnata nella lotta di liberazione anticoloniale, sa che, sullo sfondo della narrazione eurocentrica della modernità, il femminismo ha sistematicamente cancellato le donne non bianche dall’analisi dei conflitti e delle forme di resistenze. E questo vale allora come oggi.
Parigi, Champs-Elisées, luglio 1989. La Francia celebra il bicentenario della Rivoluzione. Al cospetto dei G7, sei mila artisti e figuranti mettono in scena lo spettacolo della «globalizzazione felice»: gli africani ballano mezzi nudi, gli inglesi incedono sotto una pioggia artificiale, i sovietici marciano tra la neve di carta. È la rappresentazione stereotipata e orientalista della «tribù planetaria» messa in scena dai grandi del mondo. In contemporanea, alla Mutalitè prende forma la prima manifestazione antiglobalizzazione. Il posizionamento politico è diametralmente opposto ma la retorica è analoga. Il «Primo summit dei sette popoli più poveri» (questo è il nome dell’incontro che si inserisce nel solco della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli adottata ad Algeri nel 1976) traduce gli ideali della Rivoluzione sul piano della lotta culturale e designa come nemico l’Islam. Sta raccogliendo l’offensiva contro il «velo» lanciata qualche mese prima dal femminismo bianco della sinistra repubblicana e consacra, sull’altare delle laicità, il femminismo civilizzazionale nel nuovo ordine mondiale e nell’agenda umanitaria-liberale. All’alba dell’ultimo decennio del Novecento, la controffensiva neoliberale è dispiegata. Si è fatta lotta universale, polarizzata e manichea: il bene contro il male, l’occidente delle fine della storia, quello che ha tirato giù il muro di Berlino, contro l’oriente islamico che adesso prende il posto del comunismo; un’offensiva ideologica contro tutto ciò che non è occidente, lotte anticoloniali in primis. Sinistra e femminismo sono in prima fila in questa crociata. Alla guerra per l’indipendenza dell’Algeria, fiore all’occhiello della Francia repubblicana, contestano il limite di aver lasciato intatto un patriarcato tradizionale figlio di un anticolonialismo ingenuo, che non ha liberato le donne.
Son trascorsi duecento anni tra l’opera di de Gouges e i discorsi che accompagnano le celebrazioni per il bicentenario della Rivoluzione ma la donna bianca resta l’unica paladina della libertà. Vergès è netta: il femminismo, nel suo anelito di civilizzazione del mondo, ha definitivamente sposato la controrivoluzione. Qui colloca la sua critica a un «femminismo civilizzazionale» imperante e la proposta di un «femminismo decoloniale» che sappia «depatriarcalizzare le lotte rivoluzionarie». Un femminismo capace di valorizzare e portare avanti conflitti, troppo spesso taciuti, che si sono opposti allo sviluppo della modernità capitalista e coloniale e che ancora riverberano nella Francia contemporanea: intorno alla spinosa questione del velo che anima da oltre trent’anni il dibattito pubblico in Francia o a quella del bikini che nella calda estate del 2017, ha scaldato gli animi delle femministe civilizzazioniste nella loro crociata contro il burkini. Sullo sfondo, un dibattito di matrice razzista e coloniale che continua a dividere il mondo «tra culture aperte e culture ostili all’uguaglianza delle donne».
Quando la notte del 31 dicembre 2015 a Colonia alcune centinaia di donne e uomini in arrivo alla stazione ferroviaria, vengono aggrediti, rapinati e tra le donne alcune molestate, figure preminenti del femminismo europeo lanciano l’ennesima crociata contro «i musulmani che minacciano le conquiste femministe». Si tratta, sottolinea Vergès, di una lettura faziosa che passa sotto silenzio le continue minacce all’autodeterminazione riproduttiva, lo sfruttamento del lavoro femminile razzializzato, la divisione sessuale del lavoro e la continua dequalificazione del lavoro delle donne, tutte al fondo della stessa logica capitalistica. Nella prospettiva del femminismo civilizzazionale, le diseguaglianze sociali non hanno origine nel nesso inscindibile tra razzismo e capitalismo che informa la società europea moderna e contemporanea, sono piuttosto una questione soggettiva, il risultato di un deficit di educazione o una questione di mentalità. Da questa angolazione, viene completamente cancellata la critica antirazzista, antisessista e di classe prodotta dalle lotte anticoloniali e dal femminismo nero, mentre emerge in modo esplicito l’incapacità del femminismo bianco a compiere la sua decolonizzazione, ovvero a pensare il momento coloniale come fondativo dell’intera storia europea e occidentale.
Al contrario, la proposta di un femminismo decoloniale, si colloca immediatamente dentro e contro il «capitalismo razziale». Piuttosto che insistere sulla separazione dalla «classe degli uomini» secondo una visione ancora in voga nel dibattito femminista francese, propone una lotta per liberare la società tutta dal giogo delle gerarchie della razza. Nell’analisi di Vergès, al netto di una esplicita riflessione sulla misogynoir che denuncia «il maschilismo degli uomini afro», il femminismo decoloniale si fa carico delle «terribili tensioni che gravano sulle vite nere, quale che sia il loro genere o la loro sessualità» e interroga apertamente «la condanna moralista del dominio maschile nelle comunità nere» che il femminismo civilizzazionale mette continuamente a lavoro, come si è visto nelle retoriche che hanno informato i fatti della notte di Capodanno a Colonia.
Vergès è chiara: il femminismo civilizzazionale è quello che piace al capitalismo. Quello del women’s empowerment che collega la capacità di agire delle donne al loro essere funzionale allo sviluppo capitalistico. Quello delle conferenze ONU - Città del Messico (1975), Copenaghen (1980), Nairobi (1985), Pechino (1995) - che spinge i Piani di aggiustamento strutturale in Asia, Africa e America latina e promuove il microcredito tra le donne contribuendo a definire un’economia del debito nei paesi del Sud del mondo. Quello che ha spinto l’ingresso delle donne nell’ordine neoliberale e che abbiamo visto a lavoro alla Mutalitè nel 1989; quello che si è impegnato a riscrivere la narrazione militante delle donne fuori da una dimensione collettiva: Rosa Parks invece del Women’s Political Council, per intenderci, e che ha reso icone femminili le figure militanti che ha potuto «sbiancare», tacciando le altre di inguaribile estremismo: Coretta Scott King tra le prime, Claudia Jones o Fatima Bedar, la giovanissima vittima del massacro degli algerini a Parigi dell’ottobre del 1961, tra le seconde.
Vergès sottolinea che in una delle sue declinazione più deleterie, il femminismo civilizzazionale si è fatto «femonazionalismo». Riprendendo la definizione coniata da Sara Farris per descrivere la cattura del discorso femminista da parte del pensiero nazionalista e neoliberista, spinge l’analisi oltre la posizione delle destre e indietro fino agli anni Settanta del Novecento, quando la società francese, alle prese con la sua modernizzazione, cerca una nuova definizione dell e gerarchie della razza dopo l’indipendenza dell’Algeria. Qui colloca il diffondersi e radicarsi della stigmatizzazione della mascolinità degli uomini musulmani, l’avvio di campagne razziste sostenute in nome dell’uguaglianza di genere e, non da ultimo, l’arruolamento in massa di donne razzializzate nel settore della cura. Da quest’ultima prospettiva, in particolare, legge quella che potremmo definire la cattiva coscienza del femminismo bianco: in nome dell’emancipazione da una cultura maschile che sottomette la donna (così è generalmente intesa la cultura islamica in Francia e non solo), si chiamano a raccolte le donne islamiche per occupare «posizioni che il femminismo, un tempo, denunciava come alienanti» poiché disposte dal domino maschile. Nello stesso tempo, individua, nel lavoro di cura razzializzato, uno degli esempi più chiari del funzionamento del capitalismo razziale.
Nel suo denunciare sistematicamente la doppia morale del femminismo bianco e il suo asservimento alla logica del capitale, Un femminismo decoloniale , è un libro di grande attualità per quanto risulti leggero nei contenuti, frammentario e a tratti anche superficiale nelle argomentazioni. Tuttavia, le questioni che solleva e le domande che pone sono di grande importanza. Interrogano aspetti che pesano in modo significativo sulla vita delle donne, delle donne razzializzate in particolare e soprattutto, affrontano tematiche che definiscono la natura stessa dello spazio di possibilità di un femminismo radicale realmente capace di modificare in modo strutturale la natura dei rapporti sociali e produttivi, proprio a partire dall’organizzazione razzista e capitalista delle nostre società. Il femminismo decoloniale di Vergès affonda la sua analisi nella storia coloniale per mettere a critica l’eurocentrismo strutturale della modernità capitalista, ha nella sua genealogia il femminismo di marronage e le lotte di resistenza alla tratta e allo schiavismo, le lotte anticoloniali e le battaglie antirazziste. È un femminismo che infrange i codici e attinge a un pensiero dell’azione. Non ha lo scopo di migliorare il sistema esistente ma combatte contro ogni forma di oppressione. E per questo convince.