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Szerző: Antonio Bruno
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Tárgy: [NuovoLab] La forza trasformativa della vulnerabilità contro il neoliberismo

La forza trasformativa della vulnerabilità contro il neoliberismo


TERESA FORCADES. Un’intervista con la monaca femminista oggi al Macro di Roma con la lectio «Che cos’è la teologia queer?». «Solo attraverso la fiducia nell’altro posso essere libera, anche politicamente. Con la paura no». «Sono per la depenalizzazione dell’aborto e a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso»



[ https://ilmanifesto.it/archivio/?fwp_author=Alessandra%20Pigliaru | Alessandra Pigliaru ]

EDIZIONE DEL [ https://ilmanifesto.it/edizione/il-manifesto-del-02-10-2019/ ] 2.10.2019, 0:01





Gli ultimi della terra, gli indifesi, sono gli inermi ed è al loro cospetto che si trova Dio. Sono parole di Teresa Forcades, monaca benedettina del monastero di Montserrat, teologa e femminista, indipendentista catalana che nel messaggio evangelico riconosce il dettato di una militanza incarnata e generativa contro le politiche neoliberiste.
«Guardare il mondo dalla prospettiva di chi è più svantaggiato, dei proletari – oggi chiamati precari o scartati – è fondamentale e vorrei che le decisioni politiche fossero prese da questa prospettiva. Tutto cambierebbe». Teresa Forcades, raggiunta per qualche domanda, oggi è a Roma al Macro per la rassegna di incontri «Ripensare la comunità» organizzata da Castelvecchi editore (che in Italia sta traducendo la sua intera opera) e Filosofia in Movimento, in collaborazione con Macro Asilo e Voices of Faith.

Nel volume «Siamo tutti diversi», lei considera la vulnerabilità una dimensione aperta che è rischiosa ma verso cui bisogna avere fiducia. Cosa significa?
Dobbiamo distinguere tra la vulnerabilità associata al nostro «essere sensibili» verso gli altri – che apprezzo come un tesoro e il cui opposto è la durezza del cuore – e poi la vulnerabilità dell’impotenza, della povertà, dello sradicamento o dell’emarginazione sociale. Questo secondo tipo di vulnerabilità – che potremmo chiamare politica – non la celebro affatto. Maria di Nazaret canta con gioia sulle montagne della Giudea dopo aver saputo che è incinta e grida: «Ha abbattuto i potenti e ha esaltato gli umili». Ciò per dire che le differenze di classe rendono vulnerabili le persone con meno risorse e non lo voglio per niente. Tuttavia esiste una vulnerabilità legata all’apertura verso l’altro che ritengo necessaria per esistere umanamente. È quella che Simone Weil ha mostrato quando, dopo essere stata informata di una carestia in Cina, ha cominciato a piangere. Simone de Beauvoir racconta che, ad averla vista, ha desiderato avere un cuore capace di lasciarsi colpire in quel modo.

Profonda lettrice di Weil ma anche di Dorothy Day e delle grandi parabole di donne su cui ha riflettuto. Ha letto però anche Marx, considerando lo stretto legame con la visione cristiana in capo alla giustizia sociale…
Negli scritti di Marx scopro molte metafore teologiche dalla mano del filosofo della liberazione Enrique Dusel. Per esempio è disumano lavorare senza partecipare al processo decisionale. L’essere umano è alienato quando viene trattato come fosse un oggetto, quando cioè – per motivi di efficienza lavorativa – le sue capacità di pensare e sentire vengono ignorate.

Senza amore non c’è libertà, lo sostiene come luogo cruciale dei suoi studi teologici e filosofici. È un ambito concettuale poi applicato anche alla pratica politica?
Solo attraverso la fiducia nell’altro posso essere libera, anche a livello politico. La paura e la libertà sono dunque incompatibili. Del resto, sono libera quando difendo teorie razziste oppure sono ignorante, interessata, egoista? L’ignoranza è un limite e la difesa dell’interesse personale o dell’egoismo nasce dalla paura di perdere il proprio. Intendo dire che non è sufficiente difendere le cosiddette «libertà individuali». La struttura neoliberista è crudele e autodistruttiva. Non si tratta allora di contrastare la libertà individuale e collettiva, ma di concepire la libertà – che è necessariamente personale – in un quadro politico e sociale solidale, di effettiva corresponsabilità. Con una democrazia economica, per esempio.

La sua posizione è critica anche nei confronti della visione patriarcale del mondo. Come si misura con la chiesa a cui ha deciso di appartenere e quali margini di agibilità ci sono al suo interno?
Questa «chiesa patriarcale» è l’istituzione che ha saputo conservare per secoli, onorare e dare l’esempio al mondo delle vite, delle opere e delle iniziative sociali delle donne del passato: da Maria Maddalena, Tecla, Blandina a Hilda di Whitby, Chiara di Assisi, Caterina da Siena, Giovanna D’Arco e altre. Vissero più di cinquecento anni fa, alcune più di mille anni fa. La chiesa non le ha dimenticate. Tra loro ci sono schiave e regine, dottoresse e analfabete, poete e guerriere. Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Teresa di Lisieux e Ildegarda di Bingen sono riconosciute come dottori della chiesa, ciò significa che i loro scritti sono considerati un riferimento e che il loro studio e promozione sono diffusi.
Ho nominato alcune delle più antiche per segnalare il contrasto con ciò che accade nelle discipline umanistiche e, peggio ancora, nella scienza. I contributi di molte scienziate sono stati attribuiti agli uomini, i loro nomi sono sconosciuti. Quando ho studiato medicina, mi hanno parlato del modello di Watson e Crick (riguardo la struttura elicoidale del Dna). Nessuno mi ha parlato di Rosalind Franklin, pioniera che ha aperto la linea di ricerca e ha dato i contributi più decisivi per rendere possibile la determinazione della struttura del Dna. Franklin è morta di cancro alle ovaie a trentotto anni nel 1958. Mi sono laureata in medicina nel 1990. In soli cinquant’anni, la scienza l’aveva completamente dimenticata. Non si parla del suo lavoro, ancora meno della sua vita o dei suoi scritti intimi. La chiesa, d’altro canto, mi presenta quasi quotidianamente una donna che considera mirabile di cui ha conservato un ricordo integrale; cosa ha fatto, provato e scritto, lettere, biografia di lavoro, chi ha pensato a lei e chi la conosceva.

Quanto è stato decisivo l’incontro con la teologa femminista Elisabeth Schüssler Fiorenza e che conseguenze ha avuto sulla sua formazione?
È una biblista di fama mondiale con una capacità di ricerca e lavoro impressionante. Sono i suoi scritti ad avermi aperto gli occhi sulla necessità di avere uno sguardo critico: l’ermeneutica del sospetto, lei la chiama. È stato uno stimolo avere il suo pensiero e la scoperta che la Bibbia e, in particolare, i Vangeli, potevano essere interpretati in modo da evidenziare l’importanza delle donne.

Da femminista il suo desiderio è quello di mostrare come sia impossibile alcuna convivenza senza riconoscere la centralità delle donne, sia simbolicamente che nel discorso pubblico. Quali sono le pratiche più efficaci?
Non permettere alle iniziative delle donne di annegare. Non si possono promuovere le donne «dall’alto». Credo che il successo del femminismo attraversi la vera democrazia che non abbiamo ora e il superamento del capitalismo. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario fermare la deriva autoritaria e tecnocratica che ci invade. Creare spazi per le decisioni popolari, decentralizzare il potere. Ogni volta che ciò accade – per esempio in gruppi auto-organizzati – ho osservato che le donne esercitano una leadership naturale, sia da sole che in modo condiviso con gli uomini.

È del parere che l’uso di un termine politico sia intenzionale. Definire la sua teologia «queer» è dunque stato pensato; perché non era sufficiente l’accezione «femminista»?
Uso entrambi e non credo che il primo termine superi il secondo. Queer sta a indicare che ogni persona è un «pezzo unico», che ciò che il femminismo ha sempre sostenuto non è un modello di una donna rispetto a un’altra bensì lo spazio necessario per ogni donna di vivere «senza un modello», in modo che possa autodeterminarsi liberamente; e in modo che tutte le persone possano autodeterminarsi liberamente, senza imposizioni sociali, senza sanzioni, senza stereotipi. La parola «queer» focalizza l’attenzione sulle minoranze sessuali e aiuta a sollevare discussioni sostanziali su cosa significhi essere una donna, essere un uomo, essere un essere umano.

In che modo si confronta con le unioni omosessuali e con altri temi quali l’aborto?
Sono a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso e vorrei che potesse essere non solo civile ma anche benedetto dalla Chiesa come sacramento. E sono a favore della depenalizzazione dell’aborto perché lo considero un male minore rispetto alla sua criminalizzazione.

A cosa sta lavorando adesso?
È un progetto accademico che vogliamo promuovere dal mio monastero, in inglese e online, con il titolo «Conoscenza, arte e interiorità». Un contributo per reagire con urgenza all’attacco che le discipline umanistiche e lo spirito critico in generale subiscono nell’università, a causa del dominio della razionalità tecnica e utilitaristica e della sponsorizzazione economica delle grandi multinazionali. *
CENNI BIBLIOGRAFICI E APPUNTAMENTI


La casa editrice Castelvecchi sta pubblicando tutte le opere di Teresa Forcades. L’ultimo volume, del 2016, è «Siamo tutti diversi. Per una teologia queer», a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco. Gli altri titoli sono «Fede e libertà», «Nazione e compassione». Di prossima pubblicazione «La Trinità, oggi» e «Per amore della giustizia. Dorothy Day e Simone Weil». Teresa Forcades sarà a Roma oggi al Macro (Auditorium, ore 17) con una lectio magistralis dal titolo «Che cos’è la teologia queer?». L’ambito è la rassegna di incontri «Ripensare la comunità» organizzata da Castelvecchi Editore e Filosofia in Movimento, in collaborazione con Macro Asilo e con Voices of Faith. Introduce Cristina Guarnieri; interviene Antonio Cecere.