Re: [Pacifistat] sul nuovo vertice europeo 28-29 giugno - a…

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Autor: Maria Carla Congia
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Dla: Roberto Badel, pacifistat
Temat: Re: [Pacifistat] sul nuovo vertice europeo 28-29 giugno - articoloFabrizio Gatti

È così raro in Italia trovare degli articoli di approfondimento di politica internazionale così ben fatti, mentre impera il giornalismo da talk show, che non veicola informazioni e analisi ma solo opinioni e litigi, che non stupisce se siamo arrivati a questa situazione politica...

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Da: "Roberto Badel" <robadel@???>
A: "pacifistat" <pacifistat@???>
Oggetto: [Pacifistat] sul nuovo vertice europeo 28-29 giugno - articolo Fabrizio Gatti
Data: mer, giu 27, 2018 12:40




https://urlsand.esvalabs.com/?u=http%3A%2F%2Fgatti.blogautore.espresso.repubblica.it%2F2018%2F06%2F26%2Fcosa-bisogna-sapere-sul-vertice-del-consiglio-europeo-e-il-debito-di-matteo-salvini-in-libia%2F&e=ba54c7f6&h=30e2b1b7&f=y&p=y

*Se il riconoscimento italiano dei danni coloniali fosse stato preteso
da tutte le nazioni africane occupate militarmente dagli europei, oggi
la Francia sarebbe una terra tra le più povere in Europa. E i suoi
cittadini sarebbero probabilmente costretti a emigrare in cerca di
lavoro verso Paesi ricchi di risorse naturali, come l'Algeria o il Niger*


Matteo Salvini torna dalla Libia con un debito di cinque miliardi di
dollari (circa 4,3 miliardi di euro) e nessun credito. Durante la sua
prima visita a Tripoli, il ministro dell'Interno leghista è riuscito a
risvegliare nel governo di Fayez al Serraj le aspettative legate al
Trattato di amicizia, firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 dall'allora
dittatore Muhammar Gheddafi e da Silvio Berlusconi. Ma non ha ottenuto
in cambio nessun impegno concreto sul transito di profughi e migranti
economici. Nemmeno da parte delle poche milizie armate che ancora
sostengono il primo ministro libico, l'unico riconosciuto dalle Nazioni
Unite.

L'accordo Gheddafi-Berlusconi, all'articolo 8 “Progetti infrastrutturali
di base”, prevedeva il versamento da parte dell'Italia di 250 milioni di
dollari americani all'anno per vent'anni, da destinare alla costruzione
di infrastrutture in Libia, tra le quali la famosa autostrada costiera
di cui si parla ancora oggi. In pratica i libici avrebbero beneficiato
delle opere realizzate. Mentre il denaro sarebbe tornato completamente
indietro, con il pagamento delle commesse alle imprese italiane. Lo
stabilivano il comma 2 dell'articolo 8: “Le aziende italiane
provvederanno alla realizzazione di questi progetti...”; e il comma 4:
“I fondi finanziari assegnati vengono gestiti direttamente dalla Parte
italiana”.

Il Parlamento italiano ha ratificato il Trattato il 6 febbraio 2009.
L'accordo aveva lo scopo di «chiudere definitivamente il doloroso
"capitolo del passato", per il quale l'Italia ha già espresso, nel
Comunicato Congiunto del 1998, il proprio rammarico per le sofferenze
arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana». Un
annuncio che ha creato scompiglio nelle segrete stanze della presidenza
francese, allora nelle mani di Nicolas Sarkozy. Più o meno negli stessi
mesi, dal 2 febbraio 2009 al 31 gennaio 2010, il colonnello Gheddafi era
tra l'altro presidente dell'Unione africana, composta dai capi di Stato
di tutti i Paesi membri. Se il riconoscimento italiano dei danni
coloniali fosse stato preteso da tutte le nazioni africane occupate
militarmente dagli europei, oggi la Francia sarebbe una terra tra le più
povere in Europa. E i suoi cittadini sarebbero probabilmente costretti a
emigrare in cerca di lavoro verso Paesi ricchi di risorse naturali, come
l'Algeria. Oppure il Niger che, senza giuste compensazioni, ancora oggi
fornisce da solo l'uranio con cui i francesi producono il 33 per cento
della loro energia nucleare: quindi dell'elettricità che alimenta
industrie, trasporti e intere città e fa della Francia una potenza mondiale.

Questa è una delle ragioni per cui Parigi con Sarkozy ha contribuito
alla letterale demolizione dello Stato libico, fino all'omicidio di
Gheddafi avvenuto il 20 ottobre 2011. L'ha fatto prima fomentando in
segreto la rivolta di Bengasi. Poi spingendosi oltre il mandato
internazionale, come ha detto a “Le Figaro” Jean-Pierre Chevènement, già
ministro francese della Difesa e dell’Interno: «Nel 2011 noi abbiamo
distrutto la Libia... sotto la guida di Sarkozy. Abbiamo violato la
risoluzione delle Nazioni Unite, che ci dava il diritto di proteggere la
popolazione di Bengasi e ci siamo spinti fino al cambiamento del
regime». Le altre ragioni dell'intervento francese in Libia le potete
leggere nel bel libro dei giornalisti Fabrice Arfi e Karl Laske “Avec
les compliments du guide” (Fayard).

Una presenza sempre più ingombrante, quella di Parigi, che continua
anche oggi: sia sostenendo il generale di Bengasi Khalifa Haftar, il cui
esercito non è riconosciuto dall'Onu, sia sfruttando la debolezza
internazionale italiana e obbligando il primo ministro Serraj ad
accettare elezioni comuni il 10 dicembre prossimo, come ha recentemente
imposto il presidente Emmanuel Macron.

L'accelerazione rischia di far riesplodere la guerra strisciante in un
nuovo conflitto aperto: sarebbe il pretesto con cui Haftar (e la
Francia) potrebbero isolare Tripoli e far fuori il governo di Serraj (e
l'Italia). Con una pace gestita da Haftar, i contratti per le
infrastrutture, la ricostruzione e l'estrazione di gas e petrolio
verrebbero ovviamente riformulati a favore delle società inviate da
Parigi. Un risultato l'Eliseo l'ha comunque già ottenuto: dal 2011 le
imprese italiane sono rimaste alla larga visto che, a parte Eni e poche
altre aziende specializzate, non esistono le condizioni di sicurezza per
realizzare quanto previsto dal Trattato di amicizia.

Tripoli ha quindi alzato la posta e ora chiede al premier Giuseppe Conte
un impegno su quanto firmato da Berlusconi. Anche per un senso di
continuità: l'allora ministro dell'Interno molto presente in Libia era
Roberto Maroni, leghista pure lui. È questo il messaggio consegnato al
termine della visita di lunedì 25 giugno al ministro Salvini. Il resto è
aria fritta che non risolve nulla. Lo sono le dichiarazioni sulla
retorica delle torture e l'annuncio dell'apertura di campi di raccolta
per profughi e migranti economici nei Paesi confinanti con la Libia. Un
deterrente irrisorio che non fermerà la massa che tenta la fuga verso
l'Europa. Il territorio libico è già oggi un immenso campo di detenzione
dove i trafficanti e le milizie praticano sistematicamente la tortura e
dove gli stranieri rapiti che non pagano il riscatto vengono uccisi.
Peggio di così non potrebbe essere. Eppure tutto questo non ha mai
scoraggiato il transito. Anche Salvini dovrebbe cominciare a chiedersi
perché.

Sorprende la cecità con cui i governi si stanno preparando al vertice
del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. I dieci punti presentati
domenica scorsa dal premier Conte ai colleghi dell'Unione prevedono
giustamente «adeguate contromisure finanziarie rispetto agli Stati che
non si offrono di accogliere rifugiati»: in altre parole il presidente
del Consiglio sta però chiedendo che siano applicate sanzioni a Paesi
come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria che sono gli unici
alleati europei del suo governo e in particolare del ministro Salvini.
Non è credibile.

Basterebbe invece chiedere a ciascun governo di rispondere a una sola
domanda: perché povertà e conflitti colpiscono soprattutto Paesi ricchi
di risorse naturali utili alla nostra società? La fuga di centinaia di
migliaia di persone verso la Libia non è la causa, ma la conseguenza
della risposta a questa domanda. Della Francia abbiamo già detto. Ma le
responsabilità su cui suddividere gli oneri riguardano anche l'Italia.
Da inizio 2018 al 31 maggio sono sbarcati: 2.734 tunisini, 2.211
eritrei, 916 nigeriani. Sono le tre nazionalità in testa alla
classifica. La Tunisia è una democrazia di appena undici milioni di
abitanti, poco più della Lombardia. L'Eritrea è una ex colonia italiana
di cinque milioni di abitanti, tanti quanti la Sicilia. Queste sono le
vere dimensioni della crisi migratoria. Dal 2001 gli eritrei sono
dominati da una feroce dittatura che costringe i giovani a fuggire e che
però imprenditori italiani, esponenti politici di destra, di sinistra e
del sindacato hanno continuato a sostenere.

La Nigeria è la potenza energetica africana e lo Stato extraeuropeo dove
l'italiana Eni ha più personale: 1.177 dipendenti. I vertici della
società petrolifera con i colleghi dell'olandese Shell, che comunque
respingono le imputazioni, sono sotto processo a Milano per corruzione
internazionale con l'accusa aver autorizzato il pagamento di una
tangente di un miliardo e 92 milioni di dollari (936 milioni di euro) in
cambio di concessioni petrolifere: «Un fiume di soldi destinati in
teoria allo Stato nigeriano ma in realtà intascati interamente da ex
ministri, politici e faccendieri legati all’ex presidente Goodluck
Jonathan», ha scritto Paolo Biondani nella sua inchiesta.

Se spesi diversamente, quanti posti lavoro si sarebbero potuti creare e
quante persone si sarebbero potute trattenere in Africa con un miliardo
di dollari? Nel 2015 avevamo provato a fare un calcolo, proprio dal
Niger, Paese confinante con la Nigeria, dove ora Salvini e Bruxelles
vorrebbero costruire campi di detenzione: con un investimento di
venticinquemila euro si può avviare una piccola impresa di venti
dipendenti nel settore della trasformazione alimentare. Ovviamente è un
calcolo grossolano, ma rende l'idea dell'esproprio di risorse: la
presunta corruzione Eni-Shell equivale così a ben 748.800 posti di
lavoro. Moltiplicando per sette, che è la media di componenti di un
nucleo familiare, fa un totale di oltre cinque milioni e
duecentoquarantamila persone: quelle a cui la tangente ha letteralmente
tolto il pane di bocca. Chissà se giovedì e venerdì i capi dei governi
dell'Unione Europea ne parleranno.