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Autore: isi&emi
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Oggetto: [peer_to_peer] Cyber safety e GDPR: in gioco i diritti e le libertà delle persone fisiche
https://www.ictsecuritymagazine.com/articoli/cyber-safety-gdpr-gioco-diritti-le-liberta-delle-persone-fisiche/


A cura di: Monica A. Senor avv. Penalista


Qualunque analisi in tema di sicurezza con riferimento alla normativa
sulla protezione dei dati personali rimanda immediatamente alla
necessità di adottare adeguati interventi di tipo informatico a
protezione dei dati oggetto di trattamento.

L’approccio è corretto ma, specie alla luce del nuovo Regolamento
europeo in materia di protezione dei dati personali (meglio noto con
l’acronimo inglese GDPR), non può essere ricondotto esclusivamente ad
adempimenti di cyber security.

Invero, sia il codice privacy – agli artt.31 e ss., così come nel
disciplinare tecnico di cui all’allegato B – che l’attuale sezione
seconda del capo IV del Regolamento fanno espresso riferimento (tali
sono i rispettivi titoli) a misure di “sicurezza dei dati”.

In particolare, l’art.32 del GDPR, sebbene non elenchi più in modo
tassativo le misure minime come previsto dal D. L.vo 196/2003, individua
una serie di misure (dalla pseudonimizzazione alla resilienza dei
sistemi, alle procedure di back-up e disaster recovery, a varie attività
di testing) che ribadiscono la natura prettamente informatica del
concetto di sicurezza riferito ai dati personali.

L’intero impianto del Regolamento, tuttavia, è costruito attorno ad un
principio che va ben oltre la mera sicurezza del dato in sé e che
riguarda, invece, la sicurezza dei diritti e delle libertà delle persone
fisiche.

Il concetto emerge anche nel già menzionato art.32, nella parte in cui
prescrive al titolare di mettere in atto misure tecniche ed
organizzative adeguate a garantire un livello di sicurezza adeguato al
rischio, tenuto conto dello stato dell’arte e dei costi di attuazione,
della natura, dell’oggetto, del contesto e delle finalità del
trattamento nonché del “rischio di varia probabilità e gravità per i
diritti e le libertà delle persone fisiche”.

Viene poi ripreso, quale parametro modulare di riferimento, nei
successivi artt. 33 e 35: nella disciplina in tema di data breach
costituisce il discrimine per la notifica all’Autorità di controllo (non
tutte le violazioni di dati, infatti, debbono essere notificate
all’Autorità di controllo, ma solo quelle che mettono a rischio diritti
e libertà degli interessati), mentre, con riferimento alla valutazione
di impatto dei trattamenti sulla protezione dei dati, il rischio per i
diritti e le libertà degli interessati rappresenta uno dei presupposti
della DPIA (Data Protection Impact Assessment), ma solo qualora si versi
in un’ipotesi di “rischio elevato”.

Da quanto esposto appare chiaro che la ratio del concetto di sicurezza
nel GDPR non è tanto la protezione del dato in sé quanto piuttosto della
persona che dal trattamento di quel dato può subire lesioni ai suoi
diritti e alle sue libertà.

Si tratta di un concetto molto ampio di sicurezza il cui significato è,
forse, più facile cogliere nella duplice accezione inglese di “security”
e “safety”.

Con il primo termine s’intende l’insieme di misure volte a prevenire e
contrastare atti di interferenza illecita esterna nei confronti di un
sistema, mentre il secondo si riferisce alla sicurezza sotto il profilo
della progettazione, della costruzione e della manutenzione di un
sistema affinché il sistema stesso non pregiudichi l’incolumità o la
salute delle persone.

In quest’ottica, un sistema (informatico e non) può dirsi secure se è
invulnerabile rispetto ad attacchi esterni, mentre è safe se è
improbabile che causi danni alle persone.

La conferma che il Regolamento graviti attorno al concetto di safety
emerge non solo dagli articoli sopra citati, ma anche dal disposto di
cui all’art.25, in tema di privacy by design e by default (volti
rispettivamente ad attuare, in concreto, i principi di minimizzazione e
limitazione delle finalità) che, a sua volta, impone di tenere conto,
tra l’altro, dei “rischi aventi probabilità e gravità diverse per i
diritti e le libertà delle persone fisiche costituiti dal trattamento”.

Un sistema che tratta dati personali sarà, dunque, sicuro (safe) solo se
sarà fisiologicamente in grado di tutelare i diritti e le libertà delle
persone; al contempo, però, lo stesso dovrà essere sicuro (secure) anche
rispetto ad eventuali situazioni patologiche rappresentate da pericoli
esterni.

L’impostazione del GDPR, sotto questo profilo, non è dissimile da quella
adottata dal legislatore europeo (recepita in Italia, da ultimo, con il
D. L. vo 81/2008) in tema di tutela della salute e della sicurezza nei
luoghi di lavoro, in cui, trattandosi di salute dei lavoratori, il
concetto di safety risulta sicuramente più immediato.

Entrambe le normative si basano sul risk assessment.

La valutazione dei rischi costituisce, infatti, sia nel GDPR che nella
normativa anti-infortunistica sul lavoro il presupposto necessario per
procedere all’adozione di misure di prevenzione e protezione idonee ad
eliminare o ridurre alla fonte i rischi riscontrati e, solo in seconda
battuta, si tratta di un’attività volta a soddisfare l’onere, posto in
capo al titolare del trattamento o al datore di lavoro, di dimostrare la
compliance normativa.

In entrambi i casi l’analisi dei rischi deve confluire in un documento
ed è soggetta a costante revisione qualora intervengano variazioni dei
rischi a seguito di modifiche dell’attività di trattamento o
dell’attività produttiva.

Non solo.

Entrambe le normative prevedono la designazione di un responsabile che
collabori con il titolare o il datore: nel primo caso, la normativa ha
introdotto la figura del responsabile per la protezione dei dati
personali (Data Protection Officer, DPO, nell’acronimo inglese), nel
secondo quella del responsabile del servizio di prevenzione e protezione
dei rischi (RSPP).

Si tratta di due figure (indifferentemente interne o esterne
all’azienda), in possesso di comprovate conoscenze e qualità
professionali, a cui vengono attribuite funzioni di consulenza,
cooperazione, coordinamento e vigilanza. Alcune differenze emergono solo
in relazione all’autonomia finanziaria ed organizzativa che l’art.38, 2°
co., GDPR prevede in maniera più marcata rispetto al D. L.vo 81/2008 e,
per contro, un maggior coinvolgimento nell’individuazione e valutazione
dei rischi da parte del RSPP (art.33, 1° co., lett. a), D. L.vo 81/2008)
rispetto al DPO, il quale deve fornire al titolare un parere in merito
alla DPIA, solo se richiesto (art.39, 1° co., lett. c), GDPR).

Si potrebbe legittimamente obiettare che nel caso di beni immateriali,
come i dati personali, sia fuori luogo far riferimento al concetto di
safety, concetto strettamente legato all’incolumità fisica delle
persone, nonché tentare un parallelo con la disciplina in tema di
sicurezza sui luoghi di lavoro in cui oggetto di tutela è esplicitamente
la salute dei lavoratori.

Siffatta critica, a parere di chi scrive, non convince per due ordini di
motivazioni.

Da un lato, si osserva come, da anni, la più attenta dottrina (Rodotà)
abbia elaborato, sulla falsariga dell’habeas corpus, teorizzato nella
Magna Carta e trasfuso nell’art.13 della nostra Costituzione, il diritto
di habeas data, ovverosia il diritto all’inviolabilità ed integrità del
corpo digitale.

Si tratta di un diritto che va oltre la mera autodeterminazione del
singolo in ordine ai dati personali che lo riguardano, innanzitutto
perché ribalta la prospettiva (è una libertà rispetto al potere
dispositivo altrui, a prescindere dal controllo attivo che il soggetto
può rivendicare sui suoi dati) ed in secondo luogo perché si riferisce
non ai dati singolarmente considerati (sarebbe come tutelare ogni
singolo capello o pelo di un corpo fisico) bensì il corpo digitale,
ovverosia il complesso dinamico delle informazioni che rappresentano
l’individuo nel mondo digitale.

Riconoscere una safety digitale, significa dunque riconoscere che
oggetto di tutela non sono più i singoli dati in sé ma ogni individuo
nella sua interezza e dimensione digitale.

Dall’altro lato, il parallelo con la normativa anti-infortunistica sul
lavoro consente di sviluppare un approccio culturale alla materia che,
allontanandosi dall’ottica del soggetto singolo, proponga una tutela
collettiva del diritto alla protezione dei dati personali.

Per comprendere meglio il parallelo è sufficiente ricordare come a
seguito della rivoluzione industriale la diffusione delle macchine e
delle lavorazioni pericolose aumentò in modo impressionante il numero
degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, ma solo una
regolamentazione del lavoro di stampo collettivo riuscì a garantire una
tutela effettiva del diritto alla salute del singolo lavoratore. Oggi,
di fronte alla c.d. rivoluzione digitale ed alla impellente necessità di
garantire un’adeguata protezione della privacy e dei dati personali dei
cittadini, può essere utile ricordare l’evoluzione normativa in tema di
sicurezza sui luoghi di lavoro e sottolineare come la prima legge
italiana in materia fu la legge 11 febbraio 1886, n. 3657 a tutela del
lavoro dei fanciulli negli opifici industriali, nelle cave e nelle
miniere ed il primo intervento volto ad assicurare, attraverso un
sistema di prevenzione, la tutela della integrità fisica del prestatore
d’opera fu il Regolamento generale per la prevenzione degli infortuni
del 1899 (R. D. 18 giugno 1899, n.230), emanato alcuni decenni dopo
l’inizio del processo italiano di industrializzazione.

Concludendo, la vera sfida del GDPR, nella sua concreta applicazione,
sarà quella di riuscire a garantire, attraverso i nuovi strumenti
tecnico-organizzativi (DPIA, privacy by design e by default, DPO), una
tutela non tanto dei dati in sé quanto delle persone da quei dati
rappresentati.

Per vincere questa sfida occorre andare oltre il concetto di cyber
security e provare ad approcciare la materia sotto il diverso profilo
della cyber safety.














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