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Sujet: [autorgstudbo] Mer 23/12 Presidio nel 25esimo anniversario della strage di via Gobetti
Il comunicato di Resistenze in Cirenaica sulla strage al campo nomadi
di via Gobetti, compiuta nel 1990 dalla banda della Uno Bianca. Nel
giorno del 25esimo anniversario, mercoledì 23 dicembre'015, presidio
con due appuntamenti: alle ore 12,30 in piazzetta Pasolini per chi
vuole arrivare in via Gobetti a piedi lungo il Navile; alle ore 14
ritrovo all'ex Fornace Galotti.

* * *

23 dicembre 1990: i killer della Uno Bianca uccidono in via Gobetti

Sono passati 25 anni dalla strage al campo nomadi dell’ex Fornace
Gallotti, uno degli episodi più truci della Banda dei fratelli Savi.
Una delle date meno ricordate della scia di sangue lasciata dagli ex
poliziotti. “Resistenze in Cirenaica” propone di ricordare le vittime
nei pressi del Cippo all'ex Fornace Galotti.


23 dicembre 1990, dai lanci di agenzia si apprende una tragica
notizia: “Assalto al campo nomadi di via Gobetti, alla periferia di
Bologna, alle 8.15. Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina sono
rimasti uccisi. Feriti in modo grave: Sara Bellinati, una bambina di
appena sei anni e Lerje Lluckaci, 34enne slava. Secondo una prima
ricostruzione gli assalitori sarebbero giunti al campo a bordo di due
auto, una Fiat Uno bianca ed una Lancia Y10. Dalle auto sono scesi due
uomini, a volto scoperto e armati di pistola e mitra. Hanno sparato
dagli otto ai quindici colpi, quattro dei quali fatali a Patrizia
Della Santina. E' stato invece un colpo sparato dal mitra ad uccidere
Rodolfo Bellinati. Alcuni nomadi testimoniano la presenza nel campo di
un uomo con un giubbotto poco prima dell'arrivo delle auto”.

Pochi giorni dopo la sparatoria, un'abitante del campo, presente al
momento dell’agguato, fu chiamata in Questura a testimoniare. Tra i
poliziotti presenti in Piazza Galileo riconobbe uno degli aggressori:
era Roberto Savi, ma nessuno le diede ascolto. Tutti uguali davanti
alla morte, ma non davanti agli inquirenti: la testimonianza portata
in quell’occasione fu ascoltata come si fa con un bambino che sostiene
di aver visto il lupo mannaro.

Ai funerali dei due nomadi uccisi dai killer della Uno Bianca erano
presenti poche centinaia di persone. Fu una vergogna per Bologna… in
quel momento affiorò visibilmente l’indifferenza sociale e il razzismo
perbenista alla petroniana. E il freddo di una giornata terribile e
triste si trasformò subito in gelo: forse per i più non valeva rendere
omaggio a una coppia di zingari “brutti sporchi e cattivi”.

La prima commemorazione che si tenne un anno dopo aveva come titolo
“per non dimenticare”. Era un’esortazione già sentita in precedenza,
per la strage del 2 Agosto alla Stazione, per i 12 studenti uccisi al
Salvemini. Un impegno civile ridotto, nel migliore dei casi, a un
semplice rituale. In effetti, a un anno di distanza, furono molto
pochi quelli che si ricordarono di Rodolfo e Patrizia. Anzi, in quei
365 giorni, l’odio per gli zingari, ormai percepiti come uno “sciame
di cavallette”, stava aumentando a dismisura. Il popolo nomade veniva
ormai percepito come qualcosa di ingombrante, come un pericolo. Questo
sentimento diffuso influenzò anche il padre di una delle due vittime
che, dopo quel 23 dicembre maledetto, propose alcune volte questa
tesi: “Gli assassini si sono sbagliati. Hanno colpito noi al posto di
altri, sparando nel mucchio, ma non avevamo fatto nulla. La gente del
quartiere ci ha sempre rispettati. I killer volevano colpire gli slavi
perché, forse, avevano compiuto qualche torto. Le persone, però, non
distinguono più: siamo diventati tutti uguali. Non esiste più alcuna
differenza tra noi italiani e gli slavi… Non sappiamo nulla sui
responsabili dell’omicidio, neppure la magistratura è riuscita finora
a scoprirli. Erano addestrati militarmente. Mio figlio è stato ucciso
con un colpo alla testa”. (Intervista tratta da Mongolfiera del 20
dicembre 1991).

All’epoca, gli investigatori, tra le varie ipotesi ne formularono una
che legava gli assalti agli accampamenti di Santa Caterina di Quarto
(10 dicembre 1990) e di via Gobetti (23 dicembre 1990), riconducendoli
alle attività illegali dei nomadi slavi. Dall’ottobre ‘89 al dicembre
’90, si diceva, erano stati compiuti in città molti furti di
appartamenti. In quel periodo erano arrivati in Emilia-Romagna nuclei
di slavi, provenienti da Torino e Roma, approdati in Italia alla fine
degli anni ’70.

Quell’ipotesi, però, non spiegava come mai le stesse armi dei raid
erano state utilizzate all’Ipercoop (il 22 dicembre 1990, due
immigrati di colore feriti) e al Pilastro (il 4 gennaio 2001, tre
carabinieri uccisi).

Solo nel 1994, si scoprì che dietro ai ventiquattro morti, ai centodue
feriti, alle centotré azioni delinquenziali riconducibili alle gesta
sanguinarie della "Banda della Uno bianca" (sette anni e mezzo di
attività criminali e di terrore, dal 1987 al 1994), c’erano sì dei
fanatici razzisti, dei rapinatori sanguinari, delle schegge impazzite
di un disegno oscuro, ma quegli assassini erano cinque poliziotti,
armati e senza scrupoli, che usavano le attrezzature di servizio, e,
senza destare sospetto alcuno, lasciavano la loro scia di morte lungo
le strade dell’Emilia-Romagna.

Anche dopo i processi e le condanne, è rimasta oscura la ragione che
ha spinto i fratelli Savi e i loro complici a compiere tanti crimini.
Così come sono rimaste oscure le protezioni di cui hanno goduto.

C'è anche una domanda a cui non si è ancora riusciti a dare una
risposta: chi c’era dietro a quella follia sanguinaria, chi ha
protetto i protagonisti di una delle pagine più oscure della storia
contemporanea del nostro paese?


In questi anni, quando le luci di scena sulle malefatte dei killer
della Uno Bianca si sono abbassate, abbiamo continuato ad ascoltare
molti luoghi comuni: “gli zingari sono tutti ladri, sono tutti
bugiardi…” e via discorrendo. Ci siamo ricordati (giustamente) dei
cittadini indifesi, dei benzinai, degli armaioli, dei carabinieri che
hanno trovato la morte per mano della famigerata banda dei Savi. I
familiari delle vittime e le Istituzioni ce lo hanno sempre fatto
presente.

Ma della strage di via Gobetti, dove Patrizia e Rodolfo sono morti a
causa della stessa regia, in molti si sono dimenticati. Rappresentanti
istituzionali si sono fatti vedere a corrente alternata. Quanti anni
sono che all’ex Fornace Galotti non arriva un sindaco, così come va
negli altri luoghi degli omicidi della Uno Bianca?

L’ultima volta che il Comune di Bologna ha fatto pesare la sua
presenza in Via Gobetti è stato il 22 giugno 2006, quando le ruspe del
sindaco Cofferati abbatterono e distrussero le roulotte e le baracche
di un accampamento di rom rumeni, sorto nella stessa area in cui si
verificò la strage.

Se non fosse stato per il vecchio presidente dell’Opera Nomadi Mario
Salomoni, per il “fotografo degli zingari” Mario Rebeschini, per
Monsignor Giovanni Catti e per un piccolo gruppo di compagni del
movimento, anche la piccola cerimonia di ricordo che si è tenuta per
diversi anni sarebbe sfumata.

In quel dicembre insanguinato del 1990 l'intento dei killer della Uno
Bianca era l'eliminazione fisica e la correzione con il terrore di
soggetti concepiti come diversi, non omologabili, nemmeno degni di
essere ascoltati. A distanza di tanto tempo, sui siti e sulle pagine
facebook dei leghisti e dei razzisti di varia natura, si leggono
ancora dei propositi che i fratelli Savi fecero diventare una macabra
realtà.

In questi anni, poi, abbiamo assistito a un proliferare di tanti “muri
della vergogna”, di barriere di cemento, di fili spinati, di
reticolati elettrificati, di guardie armate ai confini, di
respingimenti in mare. Sono i muri nell'era della globalizzazione che
delega il futuro ai fans delle “guerre preventive” e della democrazia
esportata con la forza. Le frontiere sono guardate a vista, non fanno
passare profughi e migranti, se ci provano arrivano a sparargli
contro.

I costi umani di queste scelte politiche sono stati, per numero di
decessi, simili a una guerra.

Alla fine, viene da dire: con tanti muri e recinzioni si ha la
sensazione di essere tutti finiti chiusi in una gabbia, ma il guaio è
che non si capisce più chi stia dentro e chi stia fuori.

Per queste ragioni, invitiamo il prossimo 23 dicembre, a 25 anni dalla
strage dei fratelli Savi, a ritrovarci di fronte al cippo che ricorda
quell'eccidio.

Due sono gli appuntamenti:

- ore 12,30 Piazzetta Pasolini (di fronte al cancello del Lumière in
via Azzo Gardino) per chi vuole arrivare in via Gobetti a piedi lungo
il Navile (ci si impiega poco più di un'ora);

- ore 14,00 ritrovo all'ex Fornace Galotti (ingresso solo da Beverara,
Museo del Patrimonio Industriale), al ponticello che scavalca il
Navile. Il Cippo in ricordo delle vittime in via Gobetti è attualmente
chiuso dentro il cantiere della nuova facoltà di Astronomia.


Vogliamo dar vita a un presidio “civile” per riprendere memoria e non
scordarsi della scia di sangue lasciata dai killer in divisa della Uno
Bianca. Per ricordare tutti i lutti provocati e non solo alcuni.

Perché non vogliamo perdere la memoria delle cose, facendole "uscire
dalla nostra mente".

Resistenze in Cirenaica

* * *

“Resistenze in Cirenaica” è un cantiere culturale permanente, che
organizza serate, laboratori, workshop, campagne civiche. Perché di
storie da raccontare ce ne sono tante e lo si è visto il 27 settembre
2015, quando una brigata di associazioni, centri sociali, fotograf*,
registi* musicist* e varie umanità hanno fatto rivivere, in uno dei
rioni più interessanti e peculiari di Bologna, storie di resistenza al
colonialismo italiano e al nazifascismo. Centinaia di persone, in
quella giornata hanno attraversato il quartiere per il trekking urbano
ai nomi delle vie di Resistenze in Cirenaica e al reading nel giardino
dedicato dal basso al ferroviere anarchico Lorenzo Giusti.

A “Resistenze in Cirenaica” partecipano: Spazi Aperti, Wu Ming, Kai
Zen, Vag61, Compagnia Fantasma, Bhutan Clan, Eat The Rich.


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