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Szerző: Antonio Bruno
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Tárgy: [NuovoLab] A Genova 2001 fu violenza di stato Enrico Zucca IL MANIFESTO 14.6.2015
A Genova 2001 fu violenza di stato
Genova 2001. La denuncia del pm genovese: «La maggior parte dei reati commessi dalle forze dell’ordine durante quel luglio del 2001 non sono stati oggetto di azione giudiziaria. Degli oltre 300 arresti effettuati, due terzi non furono convalidati. Sono state decine le violenze impunite, i verbali falsificati e le false testimonianze rese da poliziotti e carabinieri. I disordini in piazza furono causati dall’attacco indiscriminato contro manifestanti pacifici, e la loro ribellione fu giustificata»


Il testo che qui pub­bli­chiamo è uno stral­cio del sag­gio «Genova: 14 anni dopo il luglio 2001» pub­bli­cato nel numero mono­gra­fico «Qua­le­giu­sti­zia» della rivi­sta Il Ponte (4–5/2015), a cura di Livio Pepino.

1. Il lapi­da­rio giu­di­zio che Amne­sty Inter­na­tio­nal ha espresso in rela­zione ai fatti del G8 di Genova, cioè quello di aver rap­pre­sen­tato «la più grave vio­la­zione dei diritti umani occorsa in una demo­cra­zia occi­den­tale dal dopo­guerra», vale a signi­fi­care la por­tata del trauma che ha subito in tale occa­sione il sistema giu­ri­dico isti­tu­zio­nale che, pur sot­to­po­sto a uno stress test di por­tata rela­ti­va­mente mode­sta fron­teg­giare epi­sodi di dis­senso vio­lento a mar­gine d’imponenti mani­fe­sta­zioni di massa ha scelto senza esi­ta­zione, per rista­bi­lire l’ordine, niente di meno che l’alternativa di una dram­ma­tica «sospen­sione della legge». Ancora oggi, per­tanto, rico­no­scere l’entità e la vastità dei fatti che hanno meri­tato il giu­di­zio di Amne­sty è un’urgenza democratica.

Una veri­fica obiet­tiva dei dati con­sen­ti­rebbe di ren­dersi conto, con­tra­ria­mente alla per­ce­zione dif­fusa, che la mag­gior parte dei reati com­messi dalle forze dell’ordine non sono stati oggetto di azione giu­di­zia­ria, così rima­nendo in gran parte sco­no­sciuti all’opinione pubblica.
I grandi pro­cessi per l’irruzione alla scuola Diaz, per gli abusi sui dete­nuti nella caserma di Bol­za­neto, per alcuni epi­sodi di arre­sto ille­gale rap­pre­sen­tano il per­se­gui­mento solo dei fatti più ecla­tanti per gra­vità (nel caso della scuola Diaz anche per l’inquietante pieno coin­vol­gi­mento dei mas­simi diri­genti della Poli­zia di Stato). Restano fuori decine di epi­sodi di vio­lenza con­tro mani­fe­stanti paci­fici e inermi, le vio­lenze e le inti­mi­da­zioni com­messe all’interno degli ospe­dali nei con­fronti dei feriti ivi tra­spor­tati e anche dei rico­ve­rati, men­tre poli­ziotti indi­stur­bati occu­pa­vano anche i luo­ghi di cura e si acca­ni­vano su vit­time nel momento della mas­sima vul­ne­ra­bi­lità.
Restano fuori le vio­lenze e le tor­ture com­messe nell’altro cen­tro di deten­zione tem­po­ranea gestito dalla poli­zia peni­ten­zia­ria all’interno del Forte di S. Giu­liano, sede del comando dei Carabinieri.
Degli oltre 300 arre­sti effet­tuati, circa due terzi non sono stati convalidati.
Restano quindi fuori, nella mag­gior parte di que­sti casi, le rico­no­sciute fal­sità dei ver­bali redatti da poli­zia e cara­bi­nieri. Restano infine fuori le false testi­mo­nianze dei poli­ziotti, pur evi­den­ziate dai giu­dici nella cele­bra­zione dei pro­cessi con tra­smis­sione di atti all’ufficio del pub­blico mini­stero, che è tut­ta­via rima­sto inerte.

2. La con­sa­pe­vo­lezza della vastità dei fatti è in grado di smen­tire alcuni falsi miti che offu­scano la realtà degli avve­ni­menti storici.

In primo luogo la tra­di­zio­nale giu­sti­fi­ca­zione delle forze di poli­zia, che cir­co­scrive gli epi­sodi di abusi ad alcuni occa­sio­nali com­por­ta­menti ascri­vi­bili a sin­goli sog­getti non rap­pre­sen­ta­tivi del corpo di appar­te­nenza, devianti per par­ti­co­la­rità indi­vi­duali o per debo­lezza mani­fe­stata in con­di­zioni di lavoro stres­santi, nella sostanza le poche «mele marce». Que­sta è stata la posi­zione del capo della Poli­zia al tempo del G8 e tale è rima­sta fino all’impegnativa presa di posi­zione del suo suc­ces­sore, chia­mato a espri­mersi all’esito delle sen­tenze che accer­ta­vano defi­ni­ti­va­mente fatti e respon­sa­bi­lità indi­vi­duali nei pro­cessi della Diaz e Bolzaneto.
Il corpo di poli­zia ha, da ultimo, con l’abbandono di ogni pro­ce­di­mento disci­pli­nare, addi­rit­tura negato la realtà delle pro­nunce giu­di­zia­rie, ha man­te­nuto in ser­vi­zio effet­tivo e in prima linea gli agenti e i fun­zio­nari coin­volti nelle inchie­ste, garan­tendo pro­gres­sioni di car­riera, con­cre­ta­mente boi­cot­tando e osta­co­lando l’accertamento giu­di­ziale in corso.
In secondo luogo, occorre altret­tanto con­sa­pe­vol­mente pren­dere atto di quanto nel com­plesso timida e com­pro­messa sia stata l’azione di ripri­stino di lega­lità ad opera della magi­stra­tura soprat­tutto inqui­rente. Infatti, in un cospi­cuo numero di casi, pur in pre­senza di com­por­ta­menti in vio­la­zione dell’art. 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti dell’uomo da parte di agenti dello Stato, non è stata atti­vata alcuna inda­gine, come la stessa Con­ven­zione impone.
Sot­to­po­sta alla pres­sione dello schie­ra­mento poli­tico e dei suoi equi­li­bri, cui la poli­zia tra­di­zio­nal­mente si affida cer­cando coper­tura, la magi­stra­tura inqui­rente non è stata in grado di svol­gere con rigore il suo com­pito, che avrebbe dovuto rivol­gersi con­tro i pro­pri col­la­bo­ra­tori isti­tu­zio­nali, per di più coin­volti in per­sona dei mas­simi refe­renti di ver­tice. Pesanti con­di­zio­na­menti esterni hanno sug­ge­rito di con­cen­trare l’attenzione solo sui casi più evi­denti. E l’ufficio del pub­blico mini­stero ha espresso mes­saggi di ambi­guità, pro­ce­dendo a com­par­ti­menti sta­gni con l’adozione di stan­dard diversi a seconda del con­te­sto processuale.

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Non solo i ver­tici dell’ufficio hanno mani­fe­stato, anche pub­bli­ca­mente, le pro­prie per­ples­sità sulle inda­gini in corso nei con­fronti delle forze dell’ordine, ma nes­suna distanza è stata presa nei con­fronti dei poli­ziotti inda­gati, alcuni uti­liz­zati ancora da altri pub­blici mini­steri che dele­ga­vano loro le inda­gini con­tro i mani­fe­stanti. E nel «pro­cesso dei ven­ti­cin­que», cui è stato affi­dato il com­pito della repres­sione esem­plare dei disor­dini geno­vesi, occor­rerà la veri­fica della giu­ri­sdi­zione a rista­bi­lire il neces­sa­rio equi­li­brio nell’accertamento dei fatti, sia pur all’interno dell’impostazione che l’accusa ha pre­scelto, con la con­te­sta­zione di una fat­ti­spe­cie dai con­torni molto ampi e che pre­vede limiti edit­tali fra i più pesanti.
Il nucleo cen­trale della rico­stru­zione accu­sa­to­ria è, infatti, ribal­tato dalle sen­tenze, in cui si accerta che l’elemento cata­liz­za­tore dei più gravi disor­dini avve­nuti è l’attacco indi­scri­mi­nato da parte delle forze dell’ordine a un cor­teo paci­fico e auto­riz­zato. Viene addi­rit­tura rico­no­sciuta per circa la metà degli impu­tati la scri­mi­nante della rea­zione all’atto arbi­tra­rio del pub­blico uffi­ciale. Si tratta, dicono i giu­dici, di una rivolta giu­sti­fi­cata. Un caso unico nella sto­ria giu­di­zia­ria ita­liana che viene pas­sato sotto silen­zio. I giu­dici stig­ma­tiz­zano anche l’uso della vio­lenza spro­por­zio­nata e ritor­siva, «male­vola» nei con­fronti dei mani­fe­stanti, ad esem­pio anche con l’uso di man­ga­nelli non d’ordinanza, pezzi di ferro e legno, che hanno pro­vo­cato lesioni più gravi ai feriti.

3. La rimo­zione della memo­ria impe­di­sce ancora di affron­tare il que­sito prin­ci­pale che dovrebbe sca­tu­rire dall’analisi dei fatti, vale a dire se e come i feno­meni di devianza emersi siano ricon­du­ci­bili a cause o pro­blemi strut­tu­rali, anche a livello cul­tu­rale, all’interno delle forze dell’ordine. Il fronte giu­di­zia­rio, ad esem­pio, pone il tema attuale se i reati com­messi siano la spia di una pra­tica dete­riore che alli­gna ordi­na­ria­mente nei corpi di poli­zia. Non si tratta delle vio­lenze, ma della fab­bri­ca­zione delle prove, delle false dichia­ra­zioni e dei falsi verbali.
È alta­mente signi­fi­ca­tivo che nella valu­ta­zione e rie­vo­ca­zione degli eventi del G8, passi sotto silen­zio ciò che ha costi­tuito l’asse cen­trale degli abusi com­messi dalla poli­zia, vale a dire — per usare l’icastica defi­ni­zione della Corte di cas­sa­zione nella sen­tenza sui fatti della Diaz — la «scel­le­rata ope­ra­zione misti­fi­ca­to­ria», che è con­se­guenza neces­si­tata per coprire gli abusi com­messi. Se a richie­dere la fab­bri­ca­zione delle prove e la com­mis­sione di falsi sono addi­rit­tura i ver­tici degli uffici inve­sti­ga­tivi cen­trali, il mes­sag­gio è dirompente.
L’assenza di rifles­sioni sul punto è l’aspetto più pre­oc­cu­pante, tanto più se si con­si­dera che le prese di posi­zioni uffi­ciali da parte di espo­nenti della poli­tica, fra cui il primo mini­stro, fanno chia­ra­mente inten­dere di con­si­de­rare la fal­si­fi­ca­zione dei ver­bali e le calun­nie una vio­la­zione minore, una for­za­tura det­tata comun­que da buone inten­zioni, come tale non scre­di­tante l’autore, quasi costretto alla com­mis­sione del reato per osse­quio ai pro­pri doveri.

*Magi­strato, sosti­tuto pro­cu­ra­tore presso la Pro­cura gene­rale di Genova