http://www.connessioniprecarie.org/2014/12/01/il-governo-della-mobilita-1-liberta-condizionata-e-mobilita-vigilata-2/
Il governo della mobilità 1: Libertà condizionata e mobilità vigilata
di Lavoro Insubordinato
Dopo «Il regime del salario», Lavoro insubordinato inaugura un nuovo
ciclo di interventi dedicati al «Governo della mobilità». In questo
primo articolo si analizzano alcune tendenze delle politiche europee su
lavoro, welfare e mobilità interna e le ragioni alla base della retorica
del turismo sociale. Seguiranno indagini su specifiche situazioni di
particolare rilevanza politica generale.
Recentemente il primo ministro britannico David Cameron ha affermato che
«la libertà di movimento non è un diritto incondizionato». Detta in
altri termini, la libertà di movimento può essere limitata. Le parole di
Cameron esprimono chiaramente lo spirito dei tempi. In vari paesi
europei, infatti, si assiste non solo a un’erosione dei diritti sociali
parallela a una generalizzata precarizzazione del lavoro, ma anche – in
particolare in paesi che a partire dalla crisi sono diventati mete di un
crescente flusso migratorio di cittadini comunitari, come Regno unito e
Germania – a una tendenziale restrizione delle possibilità di accesso
ai diritti di welfare da parte dei migranti, interni ed esterni. Le
misure nazionali adottate per restringere la libertà di movimento non
contraddicono le dichiarazioni dell’Unione Europea, che considera la
mobilità interna come un elemento positivo per omogeneizzare lo spazio
dell’Unione in quanto permette di colmare gli scarti tra domanda e
offerta di lavoro, i differenziali di «capitale umano» e dei tassi di
disoccupazione. Si tratta piuttosto di due facce di uno stesso governo
della mobilità
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/09/09/comunicazione-politica-precaria-e-sciopero-transnazionale/)
che, mentre favorisce gli spostamenti funzionali al profitto e in linea
con l’organizzazione regionale della produzione, contrasta la pretesa
che milioni di migranti interni ed esterni hanno di non servire come
forza lavoro usa e getta e di potere effettivamente scegliere dove
andare e dove stare. Dopo che per anni, soli e inascoltati, i migranti
extraeuropei hanno rivendicato la libertà di movimento, ora il problema
comincia a investire anche i cittadini dell’Unione Europea. Anche chi da
tempo sostiene che la condizione dei migranti avrebbe anticipato quella
degli europei non ha però particolari motivi di soddisfazione. Lo spazio
della libera circolazione di merci e persone è ormai solcato da
gerarchie e differenze che ogni giorno colpiscono milioni di uomini e
donne. La specifica condizione dei migranti extraeuropei non viene per
questo cancellata, ma milioni di altri lavoratori iniziano a fare
esperienza dell’inclusione parziale e temporanea che essi subiscono
quotidianamente.
Durante la crisi, la mobilità interna all’UE è nel complesso cresciuta
sebbene in maniera disomogenea, differenziandosi secondo gli squilibri
salariali e il rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Rispetto agli
anni prima della crisi, cioè dal 2004 al 2008, il flusso dai paesi del
Sud dell’Europa è aumentato del 38%. I migranti dall’Europa centrale e
dell’Est continuano però a costituire la quota maggiore di migranti
interni (58%) mentre quelli dal Sud dell’Europa costituiscono il 18% del
totale. Nel complesso, i migranti interni sono circa 13 milioni.
Parallelamente all’aumento della mobilità interna, si è diffusa la
retorica del turismo sociale, cioè l’idea secondo cui le migrazioni
verso i paesi più ricchi dell’Unione siano motivate dall’intenzione di
sfruttare il loro sistema di welfare: d’altronde si sa che con questa
crisi nessuno ha il tempo e la possibilità di farsi una vacanza decente.
Quindi perché non andare a farsi sfruttare più o meno regolarmente in
qualche bar di Londra? Dicono che con i soldi dei sussidi di
integrazione al reddito si fa la bella vita. Ma chi è che ottiene
davvero il premio vacanze? La retorica del turismo del welfare, come
viene anche chiamato, è smentita dai dati che mostrano che il tasso di
occupazione dei migranti è superiore rispetto a quello dei residenti nel
paese ospitante. Essa, tuttavia, si comprende solo se la si inserisce
nel contesto della radicale scissione tra lavoro e diritti che si sta
affermando nella cornice europea e che la crisi ha contribuito ad
approfondire. Più che di un’erosione dei diritti legati al lavoro,
dovuta alla diffusione generale della precarietà, si tratta di
un’intermittenza dei diritti, che i migranti non europei vivono sulla
loro pelle da decenni ben sapendo che il prezzo dei diritti è la
coazione al lavoro. Sia che si tratti di benefici riconducibili al
pagamento dei contributi, sia che si tratti di prestazione assistenziali
i diritti tendono sempre più a essere presentati come privilegi che
devono essere di volta in volta acquistati impiegando porzioni di
reddito. I diritti incondizionati sono ormai molto pochi. Proprio per
questo, su scala nazionale e continentale la regolamentazione
dell’indennità di disoccupazione è una delle chiavi di volta del governo
della mobilità. In una situazione in cui la disoccupazione non è una
condizione eccezionale, ma strutturale dato il frequente passaggio da un
lavoro a un altro, negare l’indennità di disoccupazione significa negare
la possibilità materiale di godere del diritto alla libertà di movimento
e promuovere una libertà completamente piegata alle esigenze del mercato
del lavoro transnazionale.
In questo quadro si inseriscono i tentativi, in particolare di Belgio,
Germania e Gran Bretagna (ma si ricordino anche le espulsioni dei rom
dalla Francia nel 2010) di negare il godimento dei diritti di welfare ai
migranti interni, tentativi che hanno aperto un dibattito sulla loro
conformità alle direttive europee. Oltre agli accordi di Schengen, sono
due le fonti principali di diritto che disciplinano il sistema interno
della UE: la direttiva 2004/38 e il regolamento 883/2004. La direttiva
afferma «la libertà di circolare e soggiornare liberamente all’interno
degli Stati membri» e lega il godimento dei diritti di welfare alla
presenza di un rapporto di lavoro, alla dimostrazione che si sta
cercando un lavoro e che si è potenzialmente occupabili oppure alla
dimostrazione di un reddito sufficiente. Sotto i tre mesi e sopra i
cinque anni il soggiorno è senza condizioni. Questa direttiva, in altri
termini, vincola il diritto di residenza dei cittadini UE alla
disponibilità di risorse economiche sufficienti affinché i migranti
interni non diventino un onere a carico dell’assistenza sociale del
paese ospitante. Il regolamento dello stesso anno mira, invece, a
promuovere la «totalizzazione» dei periodi di pagamento dei contributi,
ovvero un calcolo globale dei contributi versati, in modo tale che
vengano calcolati anche quelli pagati nel paese di provenienza per
valutare il diritto o meno a determinate prestazioni di welfare.
L’indennità di disoccupazione, ad esempio, dovrebbe essere elargita
tenendo conto dei periodi di lavoro maturati nei due o più Stati membri
in cui il singolo si è trovato a lavorare.
L’11 novembre scorso la Corte di Giustizia Europea, esprimendosi su un
caso che ha avuto luogo in Germania, ha confermato che i benefici
assistenziali devono essere negati a chi non sia alla ricerca di lavoro
e non abbia un reddito sufficiente a mantenersi. Del resto a settembre
la Commissione ha espresso in un report il proprio favore per
l’introduzione in Germania di misure volte a limitare gli «abusi» da
parte dei cosiddetti «turisti sociali». L’obiettivo è quello di
«limitare gli ostacoli esistenti alla libera circolazione dei
lavoratori, tra cui la scarsa consapevolezza delle norme UE da parte dei
datori di lavoro sia pubblici sia privati e le difficoltà incontrate dai
cittadini mobili nell’ottenere informazioni e assistenza negli Stati
membri ospitanti». In quest’ottica, è ammessa la negazione del diritto
di soggiorno a cittadini europei che abbiano mentito per ottenere i
benefici nonché la possibilità di rifiutare i diritti di welfare ai
figli di migranti che non risiedono in Germania. Nel report in
questione, tuttavia, non ci si pronuncia sulla legge che proprio in
questi giorni il parlamento tedesco sta votando in cui si prevede di
limitare a 6 mesi il tempo in cui un migrante comunitario può godere
dell’indennità di disoccupazione una volta perso il lavoro. Come è
evidente, il welfare diviene uno strumento per governare la libera
circolazione in funzione della domanda di lavoro. Per questo, la
sentenza della Corte di Giustizia, anche se non è di per sé innovativa e
si attiene al quadro normativo esistente, è stata salutata come
un’importante vittoria nella lotta contro il turismo sociale.
L’interpretazione restrittiva delle norme sulla libertà di movimento è
considerata uno strumento per abbattere il tasso nazionale di
disoccupazione senza contrastare l’allargamento del bacino di lavoratori
precari, part-time e sottopagati e l’obbligo di accettare ogni lavoro a
ogni condizione. Se come abbiamo detto i dati smentiscono la retorica
del turismo sociale, è invece evidente che il premio vacanze in questa
fase se lo godono gli Stati, facendo un turismo sfrenato sulle
prestazioni lavorative dei migranti, interni ed esterni, che pagano
contributi che non vedranno mai, ma anche su quelle dei cittadini ai
quali, mentre si riducono i salari all’osso, si può sempre raccontare la
storia, ormai un best-seller, che i migranti rubano loro il lavoro.
Nel caso tedesco, il compito di verificare l’effettiva ricerca di lavoro
da parte dei migranti comunitari è affidata ai job center, che tanto
interessano al governo Renzi come modello per l’Agenzia Unica prevista
nel Jobs Act. Si apre così un altro capitolo delle politiche relative al
turismo sociale, che riguarda l’aumento dei controlli sui migranti per
testare il loro grado di «occupabilità»
(
http://www.connessioniprecarie.org/2013/10/25/guida-per-gli-occupabili-del-nuovo-millennio/)
e la disponibilità ad accettare le proposte di lavoro che vengono loro
fatte. Coerentemente con un governo della mobilità orientato alle
esigenze momentanee del mercato, gli enti di controllo hanno ampi
margini di discrezione quando si tratta di definire una condizione di
«inattività» o «inoccupabilità». Attenzione, il messaggio è questo: non
è più tempo di andare in un altro paese per costruirsi una vita, o fare
un’esperienza, o sfuggire al ricatto della precarietà: se ti sposti non
avrai scampo, perché l’Europa promuove la libertà di sfruttamento. Se
non sei disposto a farti sfruttare, puoi stare a casa tua. Questo è
evidente nel caso belga. Il Belgio è stato richiamato nel 2013 da una
nota della Commissione perché ha espulso negli ultimi anni più di 7000
cittadini comunitari
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/01/12/un-caso-politico-intervista-a-silvia-guerra-europea-italiana-espulsa/)
secondo il principio che, se sei disoccupato da più di sei mesi e hai
lavorato meno di dodici mesi, sei un inutile peso per le casse dello
Stato. Per individuare tali «fardelli», sono stati attivati dei
controlli sistematici, espressamente vietati dalla Commissione, per
verificare l’attuale situazione lavorativa di migliaia di uomini e
donne, in un contesto in cui i parametri dell’occupabilità non sono
chiari e dunque si lascia ampio spazio all’interpretazione
(
http://www.connessioniprecarie.org/2013/11/05/leurostatistica-ovvero-la-scienza-delloccupabilita/).
Un altro significativo esempio riguarda il criterio adottato per
ottenere il «credito universale» che, in alcune parti del Regno Unito,
ha sostituito il sussidio di disoccupazione: esso è vincolato per i
migranti, tanto esterni quanto interni alla EU, all’esistenza di
«realistiche prospettive» di ottenere un lavoro e al possesso di
determinati requisiti, tra cui la conoscenza della lingua inglese. A ciò
si accompagnano, in Gran Bretagna, controlli settimanali per verificare
che si stia effettivamente cercando lavoro e che non si rifiutino
offerte di lavoro, di qualsiasi tipo esse siano. Insomma, non si sputa
nel piatto in cui si mangia, anche se la cucina inglese fa discretamente
schifo, in particolare quella che paghi con uno stipendio da fame
lavorando per i manager incravattati della capitale finanziaria.
Tornando al caso belga, i provvedimenti del governo che hanno condotto
alle espulsioni si scontrano anche con il regolamento che prevede la
totalizzazione dei contributi nei vari Stati in cui si è lavorato, che è
ignorato considerando solo la residenza in Belgio. La trasformazione dei
diritti in privilegi non riguarda, dunque, solo il welfare
assistenziale, ma anche il welfare contributivo nel suo complesso. Non
stupisce che nei discorsi sul turismo sociale raramente vengano
menzionati i contributi che i migranti pagano e che spesso, o perché
vengono espulsi o perché se ne sono andati, non vengono più restituiti
in nessuna forma. Il governo inglese, che ha salutato con particolare
favore la sentenza della Corte di Giustizia, non considera probabilmente
il fatto che il 60% dei migranti interni che arrivano in Gran Bretagna
sono laureati, ma soprattutto che essi beneficiano, secondo le stime,
solo del 64% di ciò che hanno versato come contributi, e costituiscono
perciò una fonte netta di ricchezza per il paese ospitante, non certo
una forma di «parassitismo». Rispetto al decennio precedente, oggi i
migranti interni ed esterni hanno il 43% delle possibilità in meno di
godere di benefit sociali, anche perché la prassi di chiedere loro
sempre più documenti per dimostrare la loro «regolarità» crea sempre
nuovi ostacoli alla possibilità di godere del welfare. Anche se si
pagano i contributi, pare che una volta perso il lavoro, condizione
sempre più frequente in un contesto in cui la precarietà è diventata la
norma, si debba semplicemente togliere il disturbo. La vita del turista
sociale è piuttosto dura per essere quella di un vacanziere: dovrebbe
essere disposto a farsi sfruttare in qualsiasi impiego per qualsiasi
salario e a regalare i suoi contributi allo Stato che gentilmente lo
sfrutta e che non gli dà un soldo finché non è in grado di dimostrare
che è lì davvero, con entusiasmo, per vendersi la pelle. A queste
condizioni, i diritti di welfare più che il premio vacanze inseguito dai
migranti in giro per l’Europa sembrano briciole, pane secco, che gli
Stati vendono a prezzo d’oro.
Nel contesto di una generale riduzione dei servizi di welfare sono
infatti riconoscibili tendenze che vanno verso una regionalizzazione
della cittadinanza europea. Un processo che però non segna il ritorno
del vecchio Stato sociale nazionale, della sua cittadinanza e del suo
regime di inclusione ed esclusione. L’azione di confini spaziali – come
quelli nazionali – e di confini temporali – come quelli definiti dalla
coazione all’occupabilità – sui movimenti di questa forza lavoro
transnazionale produce una ridefinizione degli spazi e dei tempi della
cittadinanza sociale in Europa che la rende definitivamente
intermittente. La negoziazione quotidiana delle prestazioni del welfare
è la forma più violenta e diffusa di espropriazione. Come se non
bastasse lo sfruttamento del salario, ogni giorno milioni di lavoratrici
e di lavoratori vengono espropriati amministrativamente di una quota del
loro reddito, essendo loro negato ciò che è loro dovuto e in quanto gli
si fa pagare a caro prezzo ciò che è necessario. I diritti negati sono
l’espropriazione materiale delle possibilità di organizzare
autonomamente la propria vita e la propria mobilità. La pratica della
libertà di movimento è il modo attraverso il quale migliaia di uomini e
donne cercano individualmente di sottrarsi al regime del salario, anche
accettando di lavorare in condizioni di irregolarità che sono meno
esposte ai nuovi controlli e possono rivelarsi più redditizie in quanto
non comportano il versamento di contributi a fondo perduto. Tuttavia, è
necessario creare le condizioni affinché questa risposta sia organizzata
sulla stessa scala dell’attacco che abbiamo di fronte. Contro queste
spinte la rivendicazione di un welfare europeo e di un salario minimo
europeo significa la materiale conquista della libertà di movimento e la
possibilità di sottrarsi alle condizioni e agli ostacoli che il governo
della mobilità mira a imporle. Un welfare europeo e un salario minimo
europeo sono necessari per sottrarsi alla libertà di sfruttamento e di
espropriazione imposta dall’Europa degli Stati
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/11/28/lo-sciopero-che-ancora-non-ce-stato/).
Welfare e salario minimo devono perciò avere una portata europea non
solo per rispondere a un attacco che, pur articolandosi su differenti
livelli e scale di potere, ha una portata europea, ma anche e
soprattutto perché, se pensati in chiave nazionale, diventerebbero un
nuovo strumento per produrre vecchie gerarchie e intollerabili
discriminazioni.