http://www.connessioniprecarie.org/2014/11/28/lo-sciopero-che-ancora-non-ce-stato/
Lo sciopero che ancora non c’è stato
Il 14 novembre è stato una novità. In primo luogo, quella giornata ha 
avuto la capacità di riportare il lavoro al centro del discorso politico 
dei movimenti. Non si è trattato soltanto dell’ennesima denuncia delle 
condizioni oggettive di precarietà e impoverimento, ma anche e 
soprattutto del punto di partenza di un processo di organizzazione che 
guarda allo sciopero come pratica e progetto per accumulare forza. In 
secondo luogo, il 14 novembre stabilisce l’apertura di uno spazio 
politico le cui potenzialità non stanno tanto nella capacità di mediare 
tra diverse realtà in vista di un singolo momento di protesta, ma nella 
pretesa di definire un percorso politico autonomo, credibile ed 
espansivo, affrontando in comune un problema, un discorso e le 
corrispondenti pratiche. Tra questi due piani c’è un legame necessario. 
Quest’apertura è stata possibile proprio perché è stata riconosciuta la 
necessità di produrre una rottura politica sul terreno del lavoro.
Il radicamento sociale del percorso che ha portato al 14 novembre non si 
misura perciò sulla sua capacità di dare risposte immediate o 
rappresentazione a un insieme di «bisogni» altrimenti inespressi, o di 
unire lotte e vertenze frammentate e sconnesse, ma su quella di 
stabilire un piano di iniziativa comune per tutti coloro che ogni 
giorno, in modi diversi, fanno esperienza della precarietà e vogliono 
liberarsene. Per questo, il successo del 14 novembre non sta 
esclusivamente nei numeri che abbiamo visto nelle piazze, che pure sono 
stati rilevanti e hanno permesso di ottenere una visibilità finalmente 
liberata dalla retorica dell’assedio e dal protagonismo dei militanti. 
Il successo del 14 novembre si deve misurare sulla capacità di mantenere 
aperto lo spazio politico che lo ha prodotto e sulla coerenza 
nell’organizzare lo sciopero come pratica politica in grado di 
interrompere in maniera significativa il dominio del capitale. Al centro 
non c’è dunque la pretesa di liberare spazi in cui poter organizzare la 
propria socialità e la propria vita al di fuori dei vincoli sociali del 
capitale. Si tratta piuttosto di produrre livelli organizzativi in grado 
di interrompere con continuità un dominio altrimenti incontrastato. Lo 
sciopero, cioè, stabilisce una pratica di potere e non si limita a 
indicare il polo di una negazione. Per questo rivendica una priorità 
esclusiva, che si impone nel momento in cui supera gli steccati della 
mediazione e mostra possibilità impensate. In questi termini, lo 
sciopero è decisivo perfino prima di portare a termine la sua parabola 
sociale e generale.
Nonostante la novità del 14 novembre, infatti, lo sciopero sociale 
generale non c’è ancora stato. Siamo riusciti a costruire un’anteprima 
di quello che vorremmo che fosse, individuando con una certa 
approssimazione le condizioni grazie alle quali esso potrebbe davvero 
esserci. L’anteprima è stata così convincente da spingere il più grande 
sindacato confederale a dichiarare lo sciopero generale. Ora che persino 
la Cgil ha registrato la fine della concertazione 
(
http://www.connessioniprecarie.org/2012/10/22/la-concertazione-e-finita-per-una-discussione-su-sindacato-lotte-e-organizzazione/), 
si tratta di stabilire le pratiche comuni che possono adottare operai, 
migranti e precarie, contrapponendole al Jobs Act e alle politiche 
europee sul lavoro. Opporsi al regime del salario e al governo della 
mobilità significa porsi il problema di una rottura politica sul lavoro, 
ovvero di farla finita con quelle politiche che attraverso il lavoro 
stabiliscono la subalternità di milioni di persone. È giunto il tempo di 
abbandonare le rappresentazioni rassicuranti e minoritarie delle piazze 
separate che pretendono di parlare ad altre piazze più o meno lontane, 
che non sono in realtà mai state raggiunte. Allo stesso tempo dobbiamo 
sapere che non sarà la dichiarazione dello sciopero generale a riportare 
indietro l’orologio del sindacato confederale. La questione da porsi è 
come rivolgersi direttamente ai lavoratori in sciopero, sapendo che il 
14 novembre parlava anche a loro. La scommessa è quella di fare dello 
sciopero della Cgil un momento del processo che rende lo sciopero 
sociale un reale sciopero generale.
Lo sciopero generale, com’è evidente, non è per noi l’anticamera della 
rivoluzione, ma nemmeno il presupposto per aprire chissà quali 
mediazioni con il sistema politico. Fuori da ogni mitologia, rendere 
generale lo sciopero sociale significa rivelarne il carattere pienamente 
politico, ovvero farne un momento di rottura del comando capitalistico 
sul lavoro. Lo sciopero generale non può essere l’unione di mille 
debolezze e non può nemmeno confederare condizioni lavorative che hanno 
spesso pochissimo in comune. Queste differenze – che vanno dalle 
condizioni contrattuali a quelle imposte dalle specifiche modalità di 
erogazione del lavoro (a casa, alla catena di montaggio, dietro una 
cattedra, davanti a un pc, accanto al letto di un anziano), dalla 
differenza sessuale a quella imposta dal permesso di soggiorno – devono 
piuttosto essere messe in comunicazione e organizzate a partire dalla 
loro specificità. La posta in gioco è quindi quella di «organizzare 
l’inorganizzabile» 
(
http://www.connessioniprecarie.org/2013/05/15/la-precarieta-delle-nostre-connessioni/) 
e di creare le condizioni affinché la pratica dello sciopero non sia 
più, e non possa essere, una prerogativa dei lavoratori dipendenti o dei 
sindacati, ma diventi una pratica politica possibile per quanti sono 
stati sistematicamente isolati e subordinati anche attraverso la 
moltiplicazione dei limiti, formali e informali, alla loro possibilità 
di alzare la testa e incrociare le braccia. Significa riconquistare un 
terreno di scontro quotidiano così come quotidiano è lo sfruttamento 
globale del lavoro precarizzato. Quindi uno sciopero generale oggi non 
può non porsi il problema della dimensione transnazionale 
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/09/09/comunicazione-politica-precaria-e-sciopero-transnazionale/) 
che deve progressivamente assumere. Non c’è sciopero sociale generale 
che possa limitarsi al cortile di casa sua, che non debba porsi il 
problema dei collegamenti transnazionali che ogni subordinazione rivela. 
Ogni sciopero che si voglia sociale e generale deve rivolgersi allo 
stesso tempo contro il regime del salario e contro il governo della 
mobilità 
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/06/02/creare-e-organizzare-controegemonia-in-europa/). 
Il problema non è tanto di esportare sul piano europeo un percorso che 
in Italia sta avendo una certa rilevanza. Si tratta piuttosto di 
stabilire un piano di comunicazione e continuità con i movimenti europei 
(
http://www.connessioniprecarie.org/2014/11/27/lo-sciopero-sociale-va-in-europa/), 
sapendo che il mutamento di dimensione serve anche calibrare in maniera 
più precisa ciò che stiamo facendo in Italia. Il governo della mobilità 
funziona secondo regole che divengono pienamente visibili solo 
allargando lo sguardo fuori dai confini nazionali.
Realizzare appieno ciò che abbiamo intravisto il 14 novembre, a partire 
dalla sua capacità di scoperchiare tanto la condizione quanto le pretese 
di organizzazione e di lotta di un corpo del lavoro frammentato e 
composito, significa pensare un discorso e delle pratiche all’altezza di 
una dimensione industriale diffusa e mobile, cioè di un comando sul 
lavoro che travalica tutti i confini un tempo stabili – quelli nazionali 
e quelli del luogo di lavoro, quelli tra la fabbrica e la metropoli, 
quelli tra lavoro manuale e intellettuale, quelli tra lavoro e non 
lavoro, quelli tra le diverse ‘categorie’ – per diventare la vera cifra 
della società globale. Parlare di «sciopero sociale», soprattutto dopo 
il 14 novembre, non significa inventarsi forme ‘nuove’ di sciopero che 
rischiano, malgrado ogni intenzione in senso contrario, tanto di eludere 
il problema dello sciopero quanto di oscurare le diverse figure della 
«fabbrica della precarietà». Parlare di «sciopero sociale generale» 
significa interrogarsi, da qui in avanti, su come creare le condizioni 
per mettere in comunicazione e organizzare quanti sono ogni giorno 
soggetti – in modi anche radicalmente diversi – al regime del salario. 
Per diventare davvero generale lo sciopero sociale può solo riconoscere 
le differenze che segnano l’esistenza di milioni di operai, migranti, 
precarie. Nel momento in cui la precarietà diviene la condizione globale 
del lavoro, solo la costruzione dello sciopero come pratica comune ma 
differenziata può rendere generale lo sciopero sociale.
Di fronte a queste sfide, definire il ruolo dei laboratori per lo 
sciopero sociale è tanto difficile quanto cruciale. Lo rende difficile, 
in primo luogo, la loro composizione, non tanto perché si pone e si 
porrà il problema di conciliare realtà con discorsi e percorsi 
differenti, ma perché lì il rapporto tra sindacato e movimenti non può 
che determinare una tensione che deve essere resa produttiva. La lezione 
fondamentale della logistica è che i movimenti non possono sostituirsi 
al sindacato. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli 
ultimi anni sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse 
esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile» portate avanti non 
solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York 
alle lavoratrici a domicilio in Pakistan, ma prima ancora a Oakland), 
almeno in un primo momento il sindacato è una struttura insostituibile 
per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i limiti della 
forma sindacale, ma di riconoscere che il sindacato è per i lavoratori 
una tattica fondamentale di conflitto. Si tratta però di una tattica che 
non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile all’interno 
di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è settorializzato, 
proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato 
– ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di posizione 
per scompaginare i rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro. 
D’altra parte, l’organizzazione non può esaurirsi nel supporto esterno 
dei «solidali» ai lavoratori in lotta né può significare diventare i 
nuovi sindacati per realizzare le forme «altre» di (non)sciopero. Si 
tratta piuttosto di allargare lo spazio dello sciopero, inteso come 
espressione collettiva di indisponibilità alla subordinazione. I 
laboratori dello sciopero sociale non dovrebbero essere i luoghi dove si 
costruisce la mediazione tra i diversi modelli di vertenze, ma dove si 
sperimenta l’organizzazione di specifiche lotte sul lavoro pensando al 
contempo un piano organizzativo che non sia confinato solo al lavoro. 
Già ora essi non sono i «parlamentini» dove si raggiunge la mediazione 
tra gruppi diversi o tra movimenti e sindacati. I laboratori per lo 
sciopero sociale sono lo spazio dove la rottura politica sul lavoro 
viene resa praticabile. Si tratta di costruire al loro interno la fine 
di una subordinazione quotidiana e opprimente che tutti coloro che sono 
costretti a lavorare riconoscono senza alcuna difficoltà. Ciò non 
significa che il lavoro possa tornare ad avere la centralità politica 
che aveva un tempo. Non stiamo sostenendo alcun neolavorismo. Pensiamo 
solamente che la precarietà globale ha reso evidente che il rifiuto del 
lavoro non libera dallo sfruttamento.
Liberarsi dallo sfruttamento impone di non chiudere gli occhi sui luoghi 
dove esso matura. Per affinare lo sguardo su questi luoghi sono 
necessari laboratori dove assieme all’iniziativa venga prodotto anche il 
discorso che la deve sostenere. Se riconosciamo che il 14 novembre è 
stato una novità, dobbiamo anche ammettere che non sarà più tale se si 
ripeterà uguale a se stesso. La necessità di individuare ulteriori 
momenti di piazza – più o meno legati alle agende parlamentari e agli 
iter di approvazione delle riforme sul lavoro – è per molti versi 
necessaria, nella prospettiva di mantenere viva l’attenzione sul 
progetto e non disperdere le forze che il 14 abbiamo portato in piazza, 
ma rischia anche di essere una trappola che ci condanna all’inseguimento 
di scadenze che non siamo ancora nella condizione di determinare. 
Affermare che è tempo di sciopero sociale significa anche registrare che 
lo sciopero sociale ha bisogno del suo tempo. Bisogna avere il coraggio 
di fare due passi indietro rispetto alle pratiche usuali di movimento 
per poterne poi fare uno in avanti verso lo sciopero sociale generale.