http://www.connessioniprecarie.org/2014/11/25/il-processo-di-ferguson/
Il processo di Ferguson
di Gabe Carroll da New York (@GabeKCarroll)
La lettura della decisione del Grand Jury di non procedere in alcun modo 
contro Darren Wilson, il poliziotto che ha ucciso Michael Brown Jr, è 
stata preceduta da settimane di tensione, ma ha avuto nessun effetto 
distensivo. L’intera procedura del Grand Jury è stata da subito 
controversa e il PM Bob McCullough (storicamente favorevole alla 
polizia) in più occasioni ha trasformato il tutto in un processo alla 
vittima e ai testimoni, forse sabotando la possibilità di procedimenti 
futuri. La notizia che per l’ennesima volta la polizia sia stata assolta 
per l’omicidio di una persona di colore ha scatenato una risposta 
istantanea, forte, a tratti violentissima e in tutte le situazioni 
estremamente determinata. Il presidente Obama ha ricordato le parole del 
padre di Mike Brown, invitando i manifestanti alla calma e chiedendo di 
evitare l’uso della violenza contro polizia o proprietà, ma a Ferguson 
si sono verificate entrambe in più occasioni e il tono delle 
contestazioni è tutt’altro che pacifico.
La lettura del verdetto è arrivata attorno alle 20:30 ora di Ferguson 
(4:30 ore italiane). In diverse altre città americane (New York, 
Philadelphia, Washington, Seattle, Los Angeles, Oakland) si erano già 
creati presidi in attesa del verdetto. La notizia che Darren Wilson non 
sarebbe stato processato (neanche per un reato «minore» come omicidio 
preterintenzionale o comportamento irresponsabile) è stata la conferma 
delle peggiori aspettative: lo Stato assolve la polizia, assolve se 
stesso, continua ad accettare e a normalizzare l’omicidio di persone di 
colore. A Ferguson, dopo che la madre di Mike Brown in stato di shock è 
stata portata via da famiglia e sostenitori, molti manifestanti hanno 
diretto la loro attenzione su una grossa barricata eretta dalla polizia, 
sgomberandola, allontanando la polizia e dando il fuoco a una volante 
lasciata indietro. Questo ha dato il via a una lunga notte di blocchi, 
scontri, e danneggiamenti che hanno portato all’arresto di più di 
ottanta persone. La polizia ha fatto ampio uso di lacrimogeni e altre 
armi (come le granate a percussione) e, come successo quest’estate, ci 
sono diverse voci non confermate sull’uso (o quantomeno sulla presenza) 
di armi da fuoco tra alcuni dei manifestanti. La città di Ferguson era 
già militarizzata da settimane (in un certo senso non ha mai smesso di 
esserlo da quest’estate) e le autorità locali avevano da giorni 
dichiarato uno stato di emergenza nella zona. Diverse fonti di polizia 
hanno affermato che le violenze di ieri sera erano più intense di 
qualsiasi notte di scontri avvenuta quest’estate.
A New York una manifestazione di circa 2 mila persone è partita da Union 
Square, bloccando il traffico e resistendo ai tentativi della polizia, a 
piedi e in motocicletta, di limitare il corteo a una corsia. Il corteo è 
entrato a Times Square per fermarsi al suo centro, bloccando per diverso 
tempo uno delle intersezioni principali della città. A questo punto ci 
sono stati momenti di parapiglia, quando il commissario di polizia 
Bratton è stato fatto oggetto di lancio di sangue finto, portando 
all’arresto di un paio di manifestanti. Altri hanno continuato il corteo 
e in altre parti della città concentramenti preorganizzati hanno dato il 
via al blocco temporaneo di tre dei ponti principali di New York.
Va ricordato che giovedì a Brooklyn la polizia ha ucciso un altro uomo 
afroamericano, Akai Gurley, nelle scale interne di un complesso di case 
popolari nel quartiere di East New York. Stanco di aspettare un 
ascensore, il ventottenne (che era stato a casa di un amico con la sua 
fidanzata) era entrato nelle scale, al buio perché la luce non andava. 
In quel momento due poliziotti stavano conducendo una vertical patrol, 
un pattugliamento interno ai palazzi popolari mirato a stanare lo 
spaccio che si concentra sulle scale interne e sul tetto. 
Inspiegabilmente uno dei due poliziotti, Peter Liang, stava conducendo 
il pattugliamento con l’arma in pugno e quando Gurley ha aperto la porta 
gli ha sparato, a suo detta per sbaglio. La polizia di New York (primo 
fra tutti Bratton) ha dichiarato che l’uccisione di Gurley è stata un 
tragico errore e che Gurley era completamente innocente (non prima di 
aver reso pubblica la sua fedina penale, però), cercando di trasformare 
in disgrazia quello che per le comunità afroamericane e di colore è un 
incubo istituzionalizzato: uomini armati che pattugliano all’interno dei 
loro palazzi, autorizzati a distinguere tra chi è completamente 
innocente e chi lo è un po’ meno, senza che lo stesso diritto sia 
permesso alle comunità di colore nei confronti della polizia. La rabbia 
per la morte di Akai Gurley si somma a quella per gli omicidi commessi 
dal NYPD dell’ultimo decennio: Eric Garner, il sedicenne Kimani Gray, 
Sean Bell e Timothy Stansbury, morto dieci anni fa in una situazione 
molto simile.
Lo slogan «Black lives matter» è stato scandito a più riprese nelle 
manifestazioni degli ultimi mesi, insieme a «Hands up dont shoot». 
Questo slogan molto semplice sottolinea l’assurdità della situazione di 
chiunque si sia mai trovato a scontrarsi con l’impunità delle forze 
dell’ordine e la tragica ripetizione di morti di Stato. Bisogna 
ricordare a tutto il paese, e a tutto quel paese che si sente protetta 
dalla polizia in particolare, che non ci devono più essere 
giustificazioni per una vita rubata. Purtroppo, per lo Stato e per il 
sistema giudiziario, la giustificazione c’è: è stata eseguita la prassi. 
L’operato della polizia nell’uso della forza mortale può essere messo in 
discussione solo in alcune situazioni e, quando succede, quasi sempre è 
solo per convalidare il gesto. Prendendo nota della tragedia, della vita 
che non c’è più, ma andando avanti, sottolineando quanto la polizia ha 
agito e agisce all’interno della legge e seguendo l’addestramento che ha 
ricevuto per svolgere il proprio ruolo di tutela dell’ordine e 
protezione della società e della proprietà. Ed è proprio questo che 
questo nuovo movimento vuole denunciare e sconfiggere. Una polizia 
addestrata a guardare alle comunità afroamericane come inerente minaccia 
alla stabilità del paese, di procedere armati per le case popolari alla 
ricerca di un colpevole, di sparare prima e aspettare l’assoluzione 
dello Stato dopo. Se la rabbia e il lutto per la morte di Mike Brown 
hanno alimentato le prime settimane di contestazione quest’estate, è 
evidente che a Ferguson e attorno a Ferguson sia nato qualcos’altro. Le 
piazze di ieri hanno reso palese una volontà politica che va oltre la 
rabbia, che vede nella criminalizzazione delle persone di colore e 
nell’impunità della polizia uno strumento politico che mantiene e 
rafforza le gerarchie di classe iscritte nelle linee del colore che 
attraversano la composizione sociale del paese. Piazze che vogliono 
riprendere in mano il movimento e il discorso dei diritti civili come 
qualcosa che mira a una trasformazione radicale del presente. La 
maturità politica di questa nuova generazione di attiviste, attivisti e 
organizers si è vista in ottobre, quando a Ferguson hanno preso il 
controllo di un’assemblea al grido di «se non venite alle manifestazioni 
tornatevene a casa», accusa rivolta alla leadership istituzionalizzata 
del movimento per i diritti civili.
Questa nuova piazza dei diritti ha dato prova di sé ieri e oggi tornerà 
in strada, con due obiettivi politici che vogliono essere di massa: 
#IndictAmerica e #ShutItDown. Il primo vuol dire che, anche se Stato e 
polizia si sono assolti, la forza del movimento post-Ferguson li ha 
messi sotto processo nelle strade e continuerà a farlo, davanti a tutto 
il paese e a tutto il pianeta. La seconda segna la volontà di bloccare 
flussi urbani e commerciali, l’innovazione tattica che l’esperienza 
Occupy ha lasciato come patrimonio, perché la discriminazione del 
razzismo istituzionale esprime una gerarchia di classe su cui si è 
edificato il capitalismo statunitense e non la si può attaccare 
separando la dimensione sociale da quella economica.
Una giuria composta di due terzi di persone bianche ha dichiarato che 
Darren Wilson non è colpevole di alcun reato. L’indagine federale sulle 
pratiche della polizia di Ferguson farà il suo corso, ma nessuno ormai 
pensa che questo possa dare giustizia alla memoria di Mike Brown e alla 
sua famiglia. Quello che è certo è che il vero processo si sta svolgendo 
nelle strade di Ferguson e di tutto il paese. Sotto accusa non sono solo 
le pratiche della polizia ma l’intera la gerarchia sociale che quelle 
pratiche difendono e dalla quale vengono puntualmente giustificate e 
assolte.