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Autor: News AutOrg.anizzazione Stud.entesca BO
Data:  
Dla: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Collettivo SPA, Xm24
Temat: [autorgstudbo] Rosa Luxemburg e la disciplina della rivoluzione
http://www.connessioniprecarie.org/2014/11/06/fare-la-propria-parte-rosa-luxemburg-e-la-disciplina-della-rivoluzione/

Fare la propria parte: Rosa Luxemburg e la disciplina della rivoluzione

Pubblichiamo l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e
Rivoluzione di Rosa Luxemburg che ∫connessioni precarie ha organizzato
lo scorso autunno. Il testo – che in realtà è più che un’introduzione
perché tiene ampiamente conto della discussione seminariale – sarà
seguito da un prossimo contributo su L’accumulazione del capitale.
Queste riflessioni ‘guardano oltre le polemiche furiose che hanno
caratterizzato la storia del movimento operaio. Esse non sono perciò un
esercizio di storia del pensiero politico socialista’, ma intendono
‘rilevare e proporre alla discussione alcuni argomenti politici a
partire da Rosa Luxemburg’. Ciò che ci interessa non sono le etichette,
‘ma l’attitudine di parte che ci sembra anche l’elemento più vivo della
riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della
società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma
affrontandole faccia a faccia’.

***

«Il più profondo spirito teorico del marxismo». Così, qualche anno dopo
la sua scomparsa, il leader bolscevico Karl Radek ricorda Rosa
Luxemburg. Radek è una delle tante figure di punta dell’Internazionale
che non hanno lesinato parole di elogio per Luxemburg dopo la sua morte,
benché in vita si sia trovato nella non invidiabile posizione di dover
polemizzare con lei. Polemico è d’altronde il modo di Rosa Luxemburg di
stare nel movimento operaio: esponente di spicco del partito
socialdemocratico in Polonia, dove è nata, e poi della SPD – il partito
socialdemocratico tedesco – una volta trasferitasi in Germania,
interprete raffinata e originale di Marx, la sua attività teorica punta
a sconfiggere l’opportunismo dei riformisti, a liquidare il purismo
infantile degli estremisti e a spingere la classe operaia a liberarsi da
se stessa. La polemica incarna per Luxemburg il mezzo discorsivo grazie
al quale articolare il rapporto marxiano tra teoria e prassi: attraverso
di essa afferma la priorità politica della domanda «perché e come
arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi»?

Questa domanda tiene insieme l’attività politica e intellettuale di
Luxemburg, dai suoi primi interventi contro Eduard Bernstein, che aveva
abbandonato ogni ipotesi rivoluzionaria sulla rassicurante via delle
riforme, fino alle altezze teoriche di L’accumulazione del capitale, in
cui individua il tallone d’Achille del capitalismo nel processo di
riproduzione segnalando, al tempo stesso, l’ineluttabilità del suo
crollo e la necessità di aggredirlo nei suoi punti deboli.

È una domanda che ci stimola a riflettere sulla necessità e le forme
dell’organizzazione, cioè su come costruire un percorso organizzativo di
classe situandosi al centro delle contraddizioni interne alle
istituzioni esistenti, perché fuori da questo spazio la rivoluzione non
può mai darsi completamente. Le riflessioni che seguono guardano oltre
le polemiche furiose che hanno caratterizzato la storia del movimento
operaio. Esse non sono perciò un esercizio di storia del pensiero
politico socialista. Il nostro intento è quello di rilevare e di
proporre alla discussione alcuni argomenti politici a partire da Rosa
Luxemburg. La nostra è una riflessione di parte che non ci rende
necessariamente luxemburghiani. Non ci interessano le etichette, ma
l’attitudine di parte che ci sembra anche l’elemento più vivo della
riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della
società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma
affrontandole faccia a faccia. Così, una domanda classica del marxismo
assume in Rosa Luxemburg un significato del tutto peculiare e quanto mai
urgente. In primo luogo, perché ci permette di riflettere sul
significato del «fare la propria parte», nel senso brechtiano del
termine, che vuole richiamare l’enfasi luxemburghiana sulla centralità
del soggetto nel processo rivoluzionario, ma anche il senso della sua
polemica con Lenin. In secondo luogo, Rosa Luxemburg ci invita ad
accantonare ogni formula preconfezionata, a non subire il fascino delle
ricette da osteria dell’avvenire, perché ciò che apparentemente possiamo
ottenere è solo una risposta provvisoria, da ricercarsi nelle
contraddizioni del reale, con la sana avvertenza che le contraddizioni
non possono essere ignorate o peggio cancellate, ma vanno maneggiate con
cura. È in fondo questo il segreto della dialettica: l’incedere costante
per opposizioni che, giunte alla sintesi, si ritrovano al tempo stesso
unite e in lotta. Opposizioni che producono scarti, aperture impreviste
che Luxemburg è ben attenta a non far collassare su se stesse, perché
proprio questi scarti si rivelano politicamente produttivi in vista
dello sbocco rivoluzionario. Con saggezza rivoluzionaria, Luxemburg è
consapevole che un reale spogliato delle sue contraddizioni è anche un
reale privo di conflitto. Contraddizioni che emergono nel processo di
riproduzione del capitale così come nel movimento operaio e di fronte
alle quali fare la propria parte vuol dire traghettarle alle ragioni
della rivoluzione. La contraddizione diventa l’asse del suo discorso
teorico e politico, essa non è solo un elemento funzionale al suo
superamento dialettico, ma è carica di un elemento «conflittuale» che
non si riduce alla sola lotta di classe.

Per pensiero dialettico si intende quindi un pensiero che non funziona
seconda la logica «o – o» ma secondo la logica «e – e», dove però l’una
e l’altra cosa non stanno insieme armonicamente, con lo stesso peso,
senza asimmetrie. Non è cioè un «questo e anche quest’altro» ovvero
un’ambivalenza, un’alternativa più o meno equilibrata e indifferente che
spetta a un qualche ceto politico di militanti filosofi svelare nella
sua efficacia. Vi è invece nel rapporto un momento dominante,
determinante, ossia quel momento che nell’unità degli opposti risulta in
concreto prevalente, decisivo. Questo momento per Luxemburg è senza
dubbio la rivoluzione. Dire che riforma e rivoluzione sono in rapporto
dialettico equivale a dire che la riforma non è pensabile senza la
rivoluzione. La dialettica tra riforma e rivoluzione indica perciò un
problema, non una soluzione, non è più il rapporto semplice tra le due
ma il rapporto della riforma con se stessa riflesso mediante il rapporto
con la rivoluzione.

Riforma, rivoluzione, movimento

La rivoluzione qui non è la manifestazione ultima della storia
universale, ma l’esito temporaneo di una lotta di classe che di volta in
volta si ridefinisce per spingere in avanti il processo rivoluzionario.
La rivoluzione non è mai per Luxemburg un futuro prestabilito o da
definirsi. È il problema del presente con cui bisogna confrontarsi
costantemente, perché pensare di aver chiuso i conti con la rivoluzione
ne sancirebbe la fine. Proprio perché declinata al presente, la
rivoluzione richiede non una generica coscienza di classe, che nella
misura in cui è generica ha nel futuro sempre un’opzione consolatoria,
ma un processo di disciplinamento reale che passa anche attraverso la
lotta per le riforme. Al tempo stesso, questo processo di
disciplinamento impedisce che la riforma si sganci dal «nesso
indissolubile» che secondo Luxemburg la lega alla rivoluzione. E non è
un caso che scriva Riforma sociale o Rivoluzione proprio mentre, al
netto dei suoi altisonanti proclami, la SPD abbia ormai nei fatti optato
per la prima. Perfino in tempi bui invece, la lotta per la riforma
sociale è per Luxemburg il mezzo, mentre la trasformazione della società
è lo scopo. Non si tratta quindi di giustapporre i due termini, ma di
istituire un nesso dialettico da mettere a valore al fine di tracciare
un percorso organizzativo che, a partire dalle concrete condizioni
sociali, produca uno spazio rivoluzionario. La concreta lotta
parlamentare e sindacale per le «riforme» assume un significato
peculiare se, come Rosa Luxemburg, ci sforziamo di non considerarla in
se stessa ma nel movimento sempre aperto della rivoluzione. In questo
senso, essa diventa «scuola di socialismo», o un «pezzo di socialismo»,
perché l’attività di riforma da un lato consente di costruire momenti di
organizzazione, di migliorare le condizioni materiali del proletariato e
di accumulare forza ai danni del capitale, ma, dall’altro, è momento
formativo delle pratiche di classe, perché mostra alla classe operaia i
limiti oltre i quali il sistema capitalistico non è riformabile (la
legge del salario, il primato del profitto, le esigenze
dell’accumulazione ecc.). Luxemburg non parla mai del socialismo come
qualcosa di radicalmente diverso dall’esistente, una terra promessa da
raggiungere, ma come una specifica condizione di possibilità, dove si
può giocare il potere politico. In questo senso, la riforma è lo spazio
di disciplinamento biopolitico della rivoluzione. La riforma è il luogo
in cui gli operai smettono di pensarsi come operai.

Questo è, potremmo dire, un uso di classe della riforma. La rivoluzione
necessita di questo lavoro preparatorio effettuato dalla riforma, che
però non sarà mai sufficiente a garantire al proletariato la conquista
del potere politico. D’altra parte la riforma legale o la costituzione
non hanno alcuna autonomia, alcun impulso proprio di fronte alla
rivoluzione, vale a dire che la riforma sociale ha senso e ragion
d’essere solo nel quadro del sovvertimento politico. Questi sono cioè
«momenti diversi non di durata ma di essenza». Tuttavia, bisogna anche
notare che in Luxemburg il problema della presa del potere non è un
punto d’appiglio, la necessaria precipitazione del processo, come lo è
per Lenin, ma è invece il processo stesso. Qui giocano un ruolo
importante le teorie del crollo del capitalismo ma anche l’annoso
dilemma tra organizzazione e spontaneismo. A dispetto della lettura che
di Luxemburg a lungo è stata data, lei non ha dubbi sull’importanza del
doppio tempo della lotta: tempo di accelerazione e tempo lungo della
disciplina sono inseparabili. Contemporaneamente, lei non teorizza mai
la presa del potere come momento di rovesciamento. Per lei la presa del
potere politico è sempre un gesto processuale.

In altre parole, la rivoluzione rischia di avvenire sempre troppo
presto, quando invece dovrebbe profilarsi come processo creativo, come
fase suprema dell’organizzazione del proletariato, in cui non solo il
movimento operaio assume una dimensione di massa, ma tra di esso e tra i
suoi dirigenti si consolida una comune comprensione della politica di
classe e si delinea la strada che porta all’emancipazione reale.

È questo suo specifico carattere sperimentale che assicura alla
rivoluzione la progressione geometrica della sua dinamica e proprio per
questo si costituisce come progetto sempre aperto. Un’apertura che è
necessaria di fronte alla contraddittorietà intrinseca alla società
capitalistica, all’ambiguità delle tendenze storiche del suo sviluppo.
La rivoluzione appare così in grado di rivitalizzare e riscrivere la
«costituzione» delle istituzioni della società borghese. Siano esse la
democrazia, la rappresentanza, lo sciopero o il sindacato, la
rivoluzione si incarica di risignificarle in un movimento non di riforma
del sistema capitalistico ma di emancipazione reale della classe
operaia. In questo senso, si potrebbe dire che anche la celebre
affermazione bernsteiniana secondo cui il «movimento è tutto» viene
travolta e al tempo stesso ridefinita dall’inarrestabile potenza
dialettica della riflessione luxemburghiana. Il movimento non può essere
tutto perché senza la rivoluzione il movimento non è che un meccanismo.
I sindacati non possono abolire lo sfruttamento perché non possono
abolire la legge del salario, il loro stadio avanzato si riduce alla
difesa di ciò che è stato conseguito e non procede mai oltre, ma lo
sciopero serve a fare i conti col capitale, a tendere la situazione fino
al suo limite. Per Luxemburg l’attività sindacale è «un pur sempre
indispensabile lavoro di Sisifo» e le cooperative mostrano
l’impossibilità di ridefinire i rapporti di classe dentro la società
capitalistica. La cooperativa si trova infatti costantemente di fronte
al paradosso della sua natura, per cui è costretta a esercitare su di sé
il ruolo dell’imprenditore. Non è per mancanza di disciplina, dice
Luxemburg rivolta a Bernstein e ai molti socialisti inglesi di quegli
anni, che la cooperativa è destinata o a trasformarsi o a sciogliersi,
ma «per il naturale regime assoluto del capitale, che», scrive
seccamente, «i lavoratori non sono evidentemente in grado di esercitare
nei propri personali confronti». Il tentativo bernsteiniano di vedere
nell’azione sindacale, legislativa e riformatrice un controllo della
società, da lui definita «la classe lavoratrice in marcia», non è allora
per Luxemburg che un’evidente mistificazione possibile solo «dopo aver
così felicemente metamorfizzato lo Stato in società». Lo Stato odierno
non è società se non nel senso di società capitalistica. I confini
naturali della riforma sociale sono gli interessi del capitale, il
controllo del processo di produzione. Non solo quindi scambiare la
riforma per la rivoluzione significa non vedere questi confini ma vuol
dire anche presumere un determinato sviluppo obiettivo tanto della
proprietà capitalistica quanto dello Stato. Il miglioramento
bernsteiniano, perciò, non è altro che normalizzazione dello
sfruttamento capitalistico.

Infine ci sono due fattori che Luxemburg considera per mostrare i limiti
della riforma sociale. Uno è l’impossibilità di costruire una catena
ininterrotta di riforme sociali sempre crescenti – che ci sembra anche
voler dire che non è pensabile progresso senza pensare la rivoluzione.
Lo schema di Bernstein è pensabile solo se il presupposto è una paralisi
dello sviluppo capitalistico. Il secondo fattore è che il punto di vista
di classe o mira alla conquista del potere o è puro ostacolo, elemento
descrittivo che si condanna a darsi sempre uguale a sé. Il progresso per
Luxemburg si dà invece solo a balzi, per l’acuirsi delle contraddizioni
del sistema capitalistico e grazie alla presa di coscienza, nel senso di
disciplinamento, del proletariato della necessità del rivolgimento
sociale.

Libertà è organizzazione: l’esperienza di classe

In questa concezione dialettica di riforma e rivoluzione, si avverte
l’eco non solo della polemica con i revisionisti ma anche dello scontro
con i bolscevichi. All’indomani della Rivoluzione sovietica, Rosa
Luxemburg non si limita infatti a celebrare «l’affascinante esempio»
fornito dai bolscevichi, ma osa una critica che a partire da alcune
prese di posizione di Lenin (la mancata nazionalizzazione delle terre,
il soffiare sul fuoco dei nazionalismi, la sospensione delle libertà
borghesi) intende denunciare la cristallizzazione del processo
rivoluzionario, mentre indica un’alternativa organizzativa al modello
teorizzato da Lenin. Un’organizzazione in grado di coinvolgere anche le
masse non organizzate. «Solo un partito che sappia dirigere» scrive
Luxemburg in La rivoluzione russa, «vale a dire spingere avanti, è in
grado di procurarsi seguaci nella tempesta».

Ci siamo già soffermati sul carattere aperto e sempre in moto che la
rivoluzione ha per Rosa Luxemburg. Ci basti qui ribadire come per lei la
preservazione di questo carattere acquisisca un’importanza maggiore una
volta che la rivoluzione sia diventata non soltanto un problema, ma un
fatto del presente: se i bolscevichi hanno dovuto realisticamente
piegarsi alle ragioni della tattica per lo scopo rivoluzionario, il loro
esempio resta affascinante ma non per questo tale da trasformarsi in un
modello da rendere eterno. Il secondo punto riporta a galla, di nuovo,
la diatriba tra l’idea leninista dei rivoluzionari di professione come
avanguardia del proletariato e lo spontaneismo attribuito a Luxemburg.

Ci pare questa una lettura inadeguata a restituire la complessità di due
ipotesi certamente diverse sul «come fare la rivoluzione», ma che non
possono essere derubricate sotto categorie semplicistiche quali
dirigismo/elitismo nel caso di Lenin e spontaneismo nel caso di
Luxemburg. A Lenin occorre riconoscere una sensibilità politica per il
sentire del proletariato che non va mai disgiunta da eccezionali doti
organizzative. In altri termini ciò che rimane politicamente
fondamentale del discorso leninista è la capacità di risolvere il
problema della rivoluzione, ignorando tutte le soluzioni presenti e
consolidate. Il realismo di Lenin sta tutto nella sua capacità politica
di ripensare le coazioni della realtà, cercando ogni volta soluzioni non
scontate e non dovute. Anche a partire da queste considerazioni la
questione dello spontaneismo luxemburghiano va affrontata a nostro
avviso nell’ottica di quel «fare la propria parte» che per Brecht, come
abbiamo accennato all’inizio, mette in scena il senso profondo della
politica di Lenin, Mi-en-leh, cui replica duramente il filosofo Sa,
alias Rosa Luxemburg. Luxemburg aveva in effetti accusato la riforma
agraria leninista di aver creato un nemico in più nelle campagne,
alimentando la divisione della classe. Sotto forma di apologo, Brecht ci
informa così che Mi-en-leh, una volta giunto al potere insieme ai fabbri
produttori di aratri di ferro, espropria la terra ai contadini
benestanti e la fraziona in piccoli appezzamenti di terra per i
contadini poveri, i quali però sono ancora dotati di obsoleti aratri di
legno e spesso non hanno neanche i cavalli necessari a trainarli.
Pertanto, si ritrovano di nuovo a lavorare per i contadini benestanti.
Il filosofo Sa attacca duramente Mi-en-leh, che «come tutti gli altri
[…] arrivato alla meta dimentica molte cose». Nel frattempo, cresce
l’odio di classe dei contadini poveri verso quelli benestanti e
Mi-en-leh fa di tutto per attizzarlo inviando nelle campagne i fabbri, i
quali spiegano ai contadini poveri la necessità di mettere insieme i
propri appezzamenti di terreno e al tempo stesso li riforniscono di
moderni aratri di ferro. Così, in poco tempo i rapporti di forza nelle
campagne si rovesciano, sicché Brecht può concludere che Mi-en-leh
«aveva attuato il suo programma facendo la propria parte e lasciando che
la natura facesse la propria». Non che Lenin si affidi alla «natura», né
tanto meno abbia una visione unilineare della storia da potersi
accontentare dell’ineluttabile progresso verso il socialismo che tanto
piaceva a Kautsky. Lenin o, se preferite, Mi-en-leh, ci dice Brecht, ha
fatto la sua parte «insegnando». Ai contadini spetta il compito di
imparare. «Essi hanno ascoltato – precisa Mi-en-leh – ora fanno
esperienza». L’organizzazione della classe per Lenin non consiste dunque
solo nel momento direttivo, perché il proletariato deve «fare
esperienza» sul terreno della lotta. È questa idiosincrasia per le
formule preconfezionate che unisce i percorsi di Lenin e Luxemburg e che
in definitiva la rende più interessante di molti suoi critici leninisti.
Altrettanto fa l’accento posto sull’esperienza, ma con un importante
distinguo. I due percorsi infatti si dividono perché per Rosa Luxemburg
l’esperienza nella lotta di classe detiene un primato politico sul
momento direttivo. Ma non perché lei sia una rivoluzionaria romantica
che idealizza la spontaneità sovversiva delle masse, dal momento che,
come afferma lucidamente, «la massa è sempre pronta a divenire qualcosa
di totalmente diverso da quello che pare». E, allora? Come far sì che la
massa diventi quello che «deve essere»? La massa presenta sempre una
doppia natura: bestia incontenibile e schieramento inerte e timorato di
Dio. È ciò che è stato chiamato il «negativo della moltitudine», ma che
al tempo stesso intercetta uno strato di uomini e donne che vive ai
margini della classe. Contro la sociologia che vorrebbe farne una classe
senza forma, Luxemburg vede nella massa un insieme contraddittorio di
soggettività dal cui scontro nasce la direzione politica. La massa
diventa dunque luogo di un processo di disciplinamento, che per
Luxemburg non si esaurisce nella forma partito. Per lei le masse devono
essere chiamate a una partecipazione costante e cosciente alla lotta,
devono fare cioè in prima persona la propria parte. Non bisogna dunque
ingannarle, illuderle, pena ritrovarsi con una base rivoluzionaria
inadeguata a un compito così alto. È nella lotta di classe che il
proletariato chiarisce a se stesso gli scopi della sua azione, ma questa
attività di chiarificazione vale anche per i quadri e i dirigenti del
partito. Questi ultimi devono incanalare e guidare il potenziale
rivoluzionario espresso dal proletariato, ma insieme ad esso devono
«fare esperienza» nella lotta di classe, nel processo rivoluzionario. Ed
è questa la parte, da attuare in simbiosi con quella del proletariato,
che spetta alla dirigenza politica.

Questo aspetto emerge con particolare evidenza nel complesso passaggio
sulla democrazia che troviamo in La rivoluzione russa. Già in Riforma
sociale o Rivoluzione, Luxemburg aveva criticato la democrazia borghese,
presupposto politico della teoria revisionista, per dire che è la
democrazia a dipendere dal movimento socialista e non viceversa. La
rinuncia al socialismo, alla presa del potere, si traduce pertanto in
una rinuncia alla democrazia, provocando il soffocamento della sorgente
vitale da cui passano le energie in grado di rideterminare le
istituzioni nel senso della rivoluzione. Il destino della democrazia è
per Luxemburg il destino del movimento operaio oppure è solo un concetto
astratto.

L’errore della teoria leninista secondo Luxemburg è quello di
contrapporre, in maniera rovesciata ma speculare a Kautsky, dittatura e
democrazia. Torna la logica dialettica questa volta applicata al
rapporto tra democrazia e dittatura, che può essere solo dittatura della
classe e non del partito. Il partito per Luxemburg incarna la classe
solo quando realizza concretamente la libertà della classe. Vale a dire
che l’educazione politica delle masse popolari, non la direzione
dall’alto, è l’elemento vitale, la sorgente dell’esperienza politica
della dittatura proletaria. Torna ancora, come più volte in questo
testo, il concetto di esperienza politica che, come detto sopra, noi
riteniamo essere il modo migliore per spiegare il richiamo di Luxemburg
alla spontaneità nell’organizzazione del movimento e del momento
rivoluzionario. L’esperienza è il dato a partire dal quale e nel quale
si producono soggettività (anche contraddittorie tra loro) e che va
comunque superata. Nell’esperienza e nel suo superamento, che non è
semplicemente “il dato” lineare e omogeneo, va pensata la libertà. Resta
però aperto il problema della democrazia come processo disciplinare, che
deve coinvolgere le masse perché questo le produce soggettivamente, ma
deve anche dare loro qualcosa, la concretezza del potere politico.

Per capire i concetti di rivoluzione, democrazia, classe, dittatura e
quindi di organizzazione in Luxemburg dobbiamo osservarli nella loro
interazione costante e in riferimento alla libertà. La libertà per lei
si pone inevitabilmente come problema che non c’è modo di risolvere
nell’immediato né di semplificare. La libertà è sempre, scrive Luxemburg
«libertà di chi la pensa diversamente» perché solo lungo questa strada,
fatta di conflitto, di lotta, si arriva alla libertà politica. Qualsiasi
scorciatoia, qualsiasi guida o avanguardia che per realizzare il giusto
piano, di cui crede erroneamente di avere la ricetta in tasca, fa della
libertà un privilegio è destinato a perdere. Con quel profondo spirito
marxiano che le è stato riconosciuto, Luxemburg afferma che non poter
conoscere il futuro è il vantaggio del socialismo scientifico sopra
quello utopistico. Il sistema socialista, infatti, potrà essere soltanto
un prodotto storico, nato dalla scuola storica dell’esperienza e della
vita pubblica. La democrazia socialista, per lei, comincia quando ha
inizio la demolizione di classe, al momento della conquista del potere.
La dittatura di conseguenza «consiste nel sistema di applicazione della
democrazia non nella sua abolizione». Democrazia non è qui l’esposizione
su di un piano formale delle contraddizioni sociali. Ciò significherebbe
solamente la loro neutralizzazione. Democrazia è lo spazio di
intensificazione di quelle contraddizioni, quindi lo spazio di una lotta
sul potere. Vediamo quindi che è impossibile comprendere fino in fondo i
concetti luxemburghiani senza travisarne il senso se non li osserviamo
nella loro interazione, nella totalità del discorso di Luxemburg.
Impossibile definire dittatura senza la classe come impossibile è capire
la democrazia senza la rivoluzione. Questa totalità è per Luxemburg
innanzitutto l’esperienza e qui, è bene dirlo, si inserisce la sua
critica. Lo dimostra il fatto che ella conclude La rivoluzione russa, e
non per cerimonia, riconoscendo al bolscevismo il suo merito storico e
affermando che ovunque l’avvenire gli appartiene perché suo è il
problema non risolto come sua è l’esperienza politica e solo da questa
può scaturire la capacità d’azione del proletariato, la volontà di
potenza del socialismo. Questo dimostra anche che Luxemburg non è tra i
difensori della libertà politica contro cui si scaglia Lenin in Che
fare?, gli opportunisti, coloro che «insozzano» scrive Lenin, «la grande
parola della libertà» per proporre le riforme che la affosseranno una
volta per tutte. Per Luxemburg come per Lenin libertà è «libertà di
combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si
incamminano verso di esso» (Che fare?).

Classe e partito: note finali

Luxemburg è refrattaria a ogni imposizione dall’alto della forma
organizzativa, che trova sterile e inadeguata a creare momenti
rivoluzionari. La declinazione luxemburghiana del rapporto tra classe e
partito, tra proletariato e la sua organizzazione politica ci sembra
dunque riflettere il carattere sperimentale della rivoluzione di cui si
è detto sopra. Anzi, tale declinazione si realizza al meglio solo grazie
alla rivoluzione. Come quest’ultima ridefinisce pratiche e istituzioni
del vecchio mondo capitalista, così «modifica per l’appunto il
proletario, da padre di famiglia prudente che esige un sussidio, a
“romantico della rivoluzione”, per cui persino il bene più alto, la
vita, per tacere del benessere materiale, possiede un valore minimo in
confronto dell’ideale di lotta». Ciò non può esimere il partito della
classe operaia dallo svolgimento del suo compito, che è quello della
«direzione politica» delle forme attraverso cui si realizza la
rivoluzione. Tale direzione politica può a volte assumere un
«significato tecnico», che comprende il «dare la parola d’ordine,
l’indirizzo alla lotta, regolare la tattica della lotta politica».
Nondimeno si rivela una direzione necessaria, proprio perché si fonde
con lo spirito rivoluzionario della massa. Così, analizzando lo sciopero
di massa del 1905 in Russia, Luxemburg scrive che né la forte
disciplina, né l’entusiasmo spontaneo delle masse, possono da soli
trasformare uno sciopero nell’incipit di un processo rivoluzionario. In
altri termini, Luxemburg è consapevole delle insidie nascoste
nell’organizzazione, se non altro perché le ha vissute sulla propria
pelle militando in un partito caratterizzato da una forte impronta
burocratica come la SPD. Al tempo stesso, è consapevole della necessità
del momento organizzativo espresso dal partito, ma ne riconosce
l’insufficienza. Il partito può essere organizzazione realmente
rivoluzionaria solo se si ridefinisce, si modifica, si ristruttura nella
lotta di classe in un rapporto dialettico e fecondo con le masse, che
però ha il compito di guidare.

La dialettica tra partito e classe rimane dunque aperta ed è condizione
fondamentale per evitare una cristallizzazione del processo
rivoluzionario. Lotta, coscienza e organizzazione, (ovvero il processo
di disciplinamento), devono dunque essere visti come momenti tutti
necessari per la costruzione politica della classe, ma non devono essere
posti in sequenza temporale, ma in rapporto dialettico. Come lo scarto
tra riforma e rivoluzione anche lo scarto tra classe e partito resta
aperto, perché il partito non è mai l’incarnazione statica e definitiva
della classe e non può pensarsi senza di essa. Non riconoscere
nell’organizzazione un problema implica il rischio di sottomettere allo
scopo rivoluzionario le esigenze dell’organizzazione stessa e, di
conseguenza, di far prevalere strutture gerarchiche e asfittiche. È
questo il senso della polemica con i bolscevichi, il cui errore
imperdonabile, nell’ottica di Luxemburg, è quello di aver tentato di
chiudere i conti con la rivoluzione. Mettendo questo problema sul tavolo
e riconoscendo a Rosa Luxemburg il merito di averlo trattato come tale,
vorremmo chiudere ricordando come il «filosofo Sa» celebrasse la «più
spietata autocritica» come momento formativo di primaria importanza. Una
conclusione che è in realtà un auspicio.

La riflessione luxemburghiana ci consegna quindi una serie di problemi
ancora aperti e un metodo per confrontarci con le contraddizioni che
essi aprono. In primo luogo, la rivoluzione come problema del presente,
che non vuol dire alimentare fantasie utopistiche su un reale che tutto
è meno che rivoluzionario. Per noi significa piuttosto pensare al
problema della rivoluzione in rapporto al problema dell’organizzazione,
della lotta politica che si fa a partire dalle istituzioni esistenti e
contro di esse. Se la rivoluzione è sempre un problema del presente,
essa non può essere un singolo atto, ma è uno stato duraturo, che non
significa banalmente che la rivoluzione debba essere permanente, e per
questo ci inchioda a riflettere sui rapporti reali. In un certo senso,
ci siamo chiesti allora se la rivoluzione è un problema del presente
solo se viene pensata in rapporto dialettico alla riforma sociale. E,
ancora, se pensare la rivoluzione al presente è teoricamente e
politicamente vantaggioso, soprattutto nella misura in cui il tempo
della rivoluzione ha determinate peculiarità: pur essendo un problema
del presente, essa è destinata ad avvenire sempre troppo presto e ad
appropriarsi delle potenzialità del futuro.

Connesso alla questione del tempo della rivoluzione, vi è il problema
dell’alternativa organizzativa formulata da Luxemburg. Se la rivoluzione
è sempre presente e non ha mai fine, in che senso può esserci
organizzazione, che indica invece una forma salda, fissa, dell’agire
politico? L’esperienza nella lotta di classe più volte evocata da
Luxemburg è una risposta adeguata al problema della sclerosi
organizzativa, che in effetti lei scorge fin dagli inizi della vicenda
politica bolscevica? Dai giudizi di Luxemburg sui bolscevichi possiamo
allora concludere che, a essere onesti, Stalin non può essere liquidato
come un incidente di percorso, come per esempio i liberali fanno con il
fascismo, ma come la risposta, brutale quanto si vuole, a un problema
che sfugge a un concetto di rivoluzione che si vuole sempre aperta? In
altri termini, l’idea di organizzazione proposta da Luxemburg è
all’altezza del suo concetto di rivoluzione?

Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la
democrazia. Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa
superflua o addirittura di impaccio, al contrario per la classe operaia
essa resta sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché
sviluppa forme politiche che serviranno al proletariato come punti di
partenza e di appoggio per la trasformazione della società»;
imprescindibile: «perché solo in essa, nella lotta per la democrazia,
nell’esercizio dei suoi diritti il proletariato può diventare cosciente
dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici». Ma la
democrazia non può mai essere rappresentata, fermata, afferrata, come in
una fotografia. Infatti, scrive L., «il faticoso meccanismo delle
istituzioni democratiche possiede un potente correttivo appunto nel
vivente movimento delle masse, nella loro pressione ininterrotta».

La democrazia, come la rivoluzione, non può essere messa in stand-by,
perché è l’azione del proletariato, ma non può neanche essere instaurata
una volta per tutte. E qui sta il paradosso. La demolizione, aggiunge
Luxemburg, la si può decretare, la costruzione la si può solo fare:
«Terra vergine. Mille problemi». La democrazia si può solo esperire,
imparare continuamente; essa è educazione politica, processo. La
democrazia è rapporto sociale, è la forma di un problema, che è in fondo
il problema del potere, problema che deve sempre essere tenuto vivo:
essa è la sorgente vitale del conflitto, la lotta politica, la pressione
ininterrotta e perciò incontenibile da qualsiasi forma istituzionale. Si
tratta come per lo sciopero di massa di «un reale movimento popolare».
Eppure resta aperto il problema della sua afferrabilità concreta. Essa
compare come un lampo al centro del momento rivoluzionario e continua a
dipendere sempre da quel momento.

Il paradosso è allora che la democrazia sembra continuare a sfuggire
anche dopo, a comparire sotto forma di spettro, e sembra suggerire
l’impossibilità di aggredire il potere anche una volta che lo si è
conquistato, perché resta sempre viva una tensione tra disciplina e
conflitto. Quello che Rosa fa è individuare il campo di tensione di
questo paradosso che ci sembra assolutamente centrale anche per una
riflessione presente.