http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/26/una-giornata-particolare-un-sabato-di-massa-a-roma/
"Gli uomini e le donne che hanno manifestato a Roma sapevano tutto 
questo e hanno reclamato a gran voce diritti. In primo luogo hanno cioè 
dimostrato di non voler lavorare a quelle condizioni. E questo non può 
essere in alcun modo cancellato o ignorato. Nessuno può ironizzare su un 
milione di persone, che non erano solo salariati garantiti dai diritti 
acquisiti in un lontano passato. Non erano solo operai e non era nemmeno 
la classe operaia reloaded. Era moltitudine variegata di lavoratori che 
non accetta il suo presente fatto di comando e sacrifici."
Una giornata particolare. Un sabato di massa a Roma
Vista da lontano, da chi era a casa occupato in faccende quotidiane, la 
giornata di ieri è stata davvero una giornata particolare, 
caratterizzata dall’estranea partecipazione di chi segue due eventi che 
si scrutano da lontano. Se a Firenze l’evento ci sarebbe stato in ogni 
caso, solo la presenza di massa nelle piazze e nelle strade di Roma ha 
fatto sì che ci fosse un controevento. Ed era drammaticamente necessario 
che quella massa fosse esorbitante, pena la sua inesistenza politica. La 
settimana precedente sono bastati trentamila tra fascisti e razzisti 
perché si urlasse al consolidamento di una nuova realtà politica. C’è 
stato chi ha registrato con malcelata soddisfazione l’esordio del 
lepenismo all’italiana. In fondo un buco nero di razzismo e di fascismo 
può essere sempre agitato per intimorire le proteste montanti, così come 
può essere utilizzato produttivamente per rompere fronti che altrimenti 
potrebbero consolidarsi ( 
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/25/noleggia-un-clandestino-lo-scandalo-e-lantirazzismo-dei-migranti/ 
). Anche per questo ieri trecentomila tra lavoratori, pensionati e 
precari non sarebbero bastati. Ci voleva una cifra favolosa, tale da non 
permettere di ironizzare sulla politica di massa. Un milione era la 
cifra minima che si poteva annunciare. Insomma, dovevano essere 
abbastanza da non poter essere contati. Solo così la massa ha potuto 
opporsi almeno mediaticamente alla riunione di Firenze, dove 
un’indistinta accolita di individui senza tempo, giovani per 
istituzione, ha dato voce al proprio antico e orgoglioso odio di classe. 
«Qui noi creiamo lavoro», infatti, altro non significa che: noi siamo i 
padroni del vostro tempo, e voi dovrete lavorare alle nostre condizioni. 
Il più sincero di tutti è stato un giovane dandy che ha candidamente 
dichiarato che bisogna limitare il diritto di sciopero nel pubblico 
impiego. Gli altri presenti hanno messo in scena un educato e un po’ 
scandalizzato disaccordo, come si fa con una battuta detta nel momento 
sbagliato.
Gli uomini e le donne che hanno manifestato a Roma sapevano tutto questo 
e hanno reclamato a gran voce diritti. In primo luogo hanno cioè 
dimostrato di non voler lavorare a quelle condizioni. E questo non può 
essere in alcun modo cancellato o ignorato. Nessuno può ironizzare su un 
milione di persone, che non erano solo salariati garantiti dai diritti 
acquisiti in un lontano passato. Non erano solo operai e non era nemmeno 
la classe operaia reloaded. Era moltitudine variegata di lavoratori che 
non accetta il suo presente fatto di comando e sacrifici. Per questo la 
richiesta fondamentale è stata quella dei diritti, anche se niente è più 
indeterminato dei diritti ( 
http://www.connessioniprecarie.org/2012/03/29/i-diritti-e-qualcosa-di-piu-verso-una-precarious-charter/ 
). Devono essere riconosciuti e devono essere fatti rispettare. E, nel 
caso concreto, a farlo dovrebbero essere gli stessi che li stanno 
negando e che hanno le migliori intenzioni di negarli sempre di più. 
Nella grande penuria di salario e di reddito prodotta dalla crisi, 
potrebbe essere troppo poco rifugiarsi nei diritti. Nelle condizioni 
stabilite da chi pretende di risolvere la crisi, è troppo poco chiedere 
il rispetto di regole che non esistono più. Nel momento in cui il lavoro 
è ovunque assolutamente e globalmente sregolato, chiedere che esso 
diventi la misura di ogni regola potrebbe non essere una buona idea. Lo 
stesso sindacato che ha chiamato a manifestare sta inseguendo da anni la 
realtà che cambia, così come adesso insegue il fantasma dello sciopero 
generale. Il problema non è se questo sciopero sarà dichiarato o meno. 
Il problema è se è ancora possibile confederare tutti i lavori, 
ignorando la loro diversità, ignorando che per molti il lavoro è la 
sottomissione a un rapporto di forza brutale e coatto, ignorando che la 
mobilità di ogni tipo impedisce la convergenza continuativa tra i 
lavoratori, ignorando soprattutto che il lavoro operaio, migrante, 
precario sta imponendo e consolidando una gerarchia sociale che va ben 
oltre l’occupazione lavorativa. Il problema dello sciopero è permettere 
l’espressione di tutte queste differenze, non di generalizzare una 
condizione media che non esiste. Il problema non è lavorare con il 
rispetto dei diritti, perché la plumbea gerarchia calata sulla società 
impedisce di godere realmente di quei diritti. Nessuno ha una soluzione 
pronta e sicura da proporre a quel milione di persone e nemmeno agli 
altri milioni che lavorano nelle più diverse condizioni. Eppure, 
affinché questa massa di uomini e di donne non diventi solo la 
malinconica figura di una giornata particolare, si deve produrre una 
rottura politica di fronte al lavoro. Non si possono semplicemente 
riaffermare le regole passate. E, paradossalmente, non si può nemmeno 
solo dimostrare che le regole dei nuovi padroni sono ingiuste. C’è 
bisogno di produrre e affermare una rottura politica, che non si misura 
necessariamente nei comportamenti di piazza, ma nella forza con cui 
questa composizione del lavoro – anche quella che ieri si è mostrata a 
Roma – non sta alle regole e ne impone di diverse, sottraendosi alle 
gerarchie imposte grazie al lavoro.