http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/15/viviamo-impariamo-e-combattiamo-le-donne-di-kobane-sul-fronte-delle-contraddizioni/
Viviamo, impariamo e combattiamo. Le donne di Kobane sul fronte delle 
contraddizioni
di Paola Rudan
In una recente intervista ( 
https://www.youtube.com/watch?v=4JrqfJ67GUM 
) dal fronte realizzata dalla reporter australiana Tara Brown, una donna 
combattente curda delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) ha 
dichiarato che lo Stato Islamico è un nemico dell’umanità. Per lei e per 
le donne della sua brigata Kobane è il confine globale che separa la 
civiltà dalla barbarie. C’è qualcosa di spiazzante in queste parole 
perché sono le stesse che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, hanno 
preteso di giustificare una guerra combattuta senza frontiere, 
dall’Afghanistan all’Iraq alle periferie delle città americane ed 
europee, in nome della «duratura libertà» di un Occidente minacciato dal 
terrorismo globale. Ma è altrettanto spiazzante il radicale cambiamento 
di prospettiva che impongono il contesto e la posizione di chi parla: se 
ci muoviamo dalle stanze blindate del Pentagono a una terra di passaggio 
in Medioriente non abbiamo più davanti un manipolo di uomini che 
pretende di guidare una guerra giusta per la libertà – anche quella 
delle donne oppresse dall’integralismo talebano –, ma donne protette 
soltanto da sottili muri di pietra e dalle proprie armi che combattono 
per liberare se stesse. Quest’osservazione, però, non basta a quietare 
il senso di spiazzamento. È davvero sufficiente che sia una donna a 
pronunciare quelle parole per cambiare il loro significato, per 
rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione e per 
trasformarlo in una canzone per la libertà? Il fatto che siano le donne 
a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che 
abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense dell’Afghanistan, 
a farci riconoscere le ragioni della guerra?
Le fila delle Unità di protezione del popolo contano 45mila unità, il 
35% sono donne. Quasi 16mila guerriere contraddicono praticamente ogni 
legame sostanziale tra il sesso, la guerra o la pace. Si tratta, per la 
maggior parte, di curde siriane, ma ogni giorno nuove combattenti 
provenienti dalla Turchia e dalla Siria, non soltanto curde, si uniscono 
alle YPJ. Un detonatore per questa ondata di reclutamenti è stata la 
presa del Sinjar da parte dello Stato islamico, lo scorso 3 agosto. 
Migliaia di donne curde yezidi sono state catturate ( 
http://www.uikionlus.com/donne-di-sincar-rapite-da-isis-raccontano-delle-atrocita-che-hanno-vissuto/ 
). Quelle che non sono state uccise per essersi ribellate o aver tentato 
di fuggire e quelle che non si sono uccise per scampare al proprio 
destino sono state stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a 
combattenti ed emiri al solo scopo di soddisfare le loro esigenze 
sessuali e la necessità di produrre e allevare martiri jihadisti. 
Centinaia di bambini sono stati catturati e rinchiusi in scuole 
coraniche per essere trasformati in combattenti. Dietro all’odio 
sfrenato dell’IS nei confronti delle donne – obbligate da norme ferree 
che regolano il loro abbigliamento e limitano la loro mobilità, che le 
dichiarano «disponibili allo stupro» – c’è la loro riduzione a strumenti 
di riproduzione di un ordine violentemente patriarcale secondo una 
logica che, per quanto estremizzata e connotata confessionalmente, ha un 
carattere terribilmente globale.
A Kobane si sta perciò combattendo una «guerra di posizione» e questa 
definizione non ha nulla a che fare con le strategie militari. Il fatto 
è che in gioco c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per 
questo le guerriere delle YPJ sono orgogliose di avere imbracciato le 
armi, come lo sono le loro madri organizzate nel gruppo Şehîd Jîn’ ( 
http://turkeyharvest.blogspot.it/2014/07/kobane-mothers-establish-battalion.html 
). L’etica della cura di cui queste donne sono portatrici assume forme 
del tutto impreviste per chi, da questa parte del mondo, fa della cura 
qualcosa che riguarda la vita e che, per sua natura, nega la guerra. A 
Kobane, però, la guerra è la scelta obbligata per chi intende curarsi 
della propria vita e della propria libertà, della vita e della libertà 
dei propri compagni e compagne, della propria regione, delle proprie 
idee. Intervistata da Rozh Ahmad, che ha realizzato un bellissimo 
documentario ( 
https://www.youtube.com/watch?v=ZCCODxq8diI ) dal fronte 
della Rojava, la madre di una combattente, che indossa il velo, 
racconta: «due delle mie figlie sono andate via nella stessa settimana. 
Una è entrata nelle YPJ, l’altra si è sposata. Per fortuna non mi 
preoccupo per quella che è nelle YPJ. Hanno buone idee e per noi è un 
onore avere una figlia nelle loro fila. La mia figlia sposata sta bene, 
ma sono ancora preoccupata per lei». Questa madre non dice quale sia la 
sua preoccupazione, ma possiamo immaginarlo dal racconto della sua 
figlia combattente: «la nostra società guardava le donne solo come buone 
casalinghe, le donne erano fatte su misura per gli uomini e rinchiuse in 
casa come schiave. Ora abbiamo appreso questa realtà amara. Ora siamo 
cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo. Siamo soldatesse ora […] 
viviamo pienamente la nostra diversità».
Le donne combattenti di Kobane, in primo luogo, sono diverse da ciò che 
sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto 
all’inesausta continuità della tradizione e forse anche rispetto alla 
«Carta del contratto sociale» ( 
http://www.hawarnews.com/english/index.php?option=com_content&view=article&id=944:charter-of-the-social-contract&catid=1:news&Itemid=2 
) della Rojava, che alle donne garantisce l’uguaglianza e la 
partecipazione attiva a ogni organo di autogoverno. Si tratta di un 
cambiamento che è dovuto, in una certa misura, alla spinta politica del 
PKK, nella cui «ideologia» si riconosce pienamente l’Alto consiglio 
delle donne ( 
http://www.kjb-online.org/hakkimizda/?lang=en ) del 
movimento di liberazione del Kurdistan. Come spiega Handan Çağlayan ( 
http://ejts.revues.org/4657 ), la persistenza di consuetudini come il 
namus, l’obbligo di sorvegliare i corpi, i comportamenti e la sessualità 
delle donne da parte degli uomini, costituiva un grosso limite alla 
mobilitazione di massa in favore della causa curda. Il nesso stabilito 
da Öcalan tra la liberazione delle donne e la rivoluzione sociale (Woman 
and Family Question, 1992) non può comunque essere letto esclusivamente 
alla luce delle «strategie di mobilitazione», ma deve essere considerato 
allo stesso tempo una risposta a un massiccio protagonismo delle donne, 
anche nella guerra, a partire dalla fine degli anni ’80. Inoltre, il 
mancato riconoscimento della minoranza curda da parte della Siria ha 
prodotto nelle donne un sentimento di oppressione e, con esso, il senso 
della possibilità e della necessità della ribellione. Lo racconta 
chiaramente a Rozh Ahmad una delle combattenti intervistate: «noi 
ragazze curde eravamo costrette a parlare arabo tra di noi a scuola. Noi 
curdi eravamo oppressi, lo Stato controllava completamente le nostre 
vite. Ma ci siamo sempre ribellati contro tutto questo». Al di là 
dell’identificazione di queste donne con la causa curda c’è, però, 
qualcosa di più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le 
combattenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso 
le armi. A loro risponde con orgoglio che, assieme alle sue compagne, ha 
«una vita molto più ricca di quello che loro possono pensare». Con 
orgoglio un’altra afferma che alcuni uomini, che non hanno avuto il 
coraggio di combattere, abbassano la testa al loro passaggio. Benché ciò 
passi in secondo piano rispetto all’impressionante resistenza che stanno 
opponendo all’IS, sembra che queste donne stiano portando avanti anche 
una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a 
conquistarsi la libertà.
È stata la partecipazione alla guerra che le ha portate a sentirsi 
uguali. Contro ogni retorica nazionalistica costruita sulla «difesa 
delle nostre donne», le guerriere delle YPJ hanno preso a difendere se 
stesse e hanno accettato il rischio di morire, senza per questo avere 
una felice propensione al martirio. Contro l’incredulità dei loro padri 
e dei loro fratelli che dubitavano della loro forza e ben oltre il 
formale riconoscimento della loro uguaglianza espresso nella 
costituzione della Rojava, queste donne hanno dimostrato di avere non 
solo la forza, ma anche il coraggio. A loro non piace la guerra, a loro 
non piace uccidere, a loro non piacciono le armi e lo ripetono nelle 
loro interviste. Una combattente racconta che pulire il suo fucile non 
era poi così difficile, ma per sparare ha dovuto superare la paura. 
Ognuna di queste donne ha combattuto prima di tutto contro una parte di 
sé, la propria «passività», come la chiama qualcuna, l’ignoranza di che 
cosa possa significare «essere una donna», per andare sul fronte di 
Kobane. Nessuna di loro era già libera, ciascuna di loro ha dovuto 
conquistarsi un pezzo di libertà.
Convinte che la guerra e la pratica della violenza non siano proprie 
delle donne, alcune potrebbero arrivare a negare che queste donne siano 
davvero tali. È già accaduto di fronte alle immagini di Lynndie, la 
fiera torturatrice di Abu Grahib. Tra lei e le combattenti della Rojava 
c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di 
stare al mondo come donne, al di là di qualsiasi destino tracciato 
dall’ordine simbolico del padre o da quello della madre. Convinte che 
l’uguaglianza non sia altro che l’espressione politicamente corretta del 
perpetuarsi di un potere sessuale sulle donne, altre potrebbero vedere 
in queste guerriere la riproduzione di un «modello maschile» di 
autonomia. Eppure, queste combattenti sono donne e per le donne 
combattono, contro una schiavitù che non indossa solo le maschere nere 
dell’IS e del suo fondamentalismo, ma che, come ricorda una di loro, 
arriva in Europa nelle vesti accettabili e colorate del capitalismo. 
Forse, allora, non è la storia di queste donne a essere inadeguata 
rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono i discorsi 
che donne e femministe hanno a disposizione a non essere all’altezza 
della storia delle combattenti di Kobane. Non si tratta, evidentemente, 
di fare della lotta armata il paradigma di ogni percorso di liberazione, 
né di dimenticare quanta oppressione e quanto sfruttamento passano per 
l’uguaglianza formale. Non si può neppure ignorare, però, che mentre 
rivendicano di essere «una brigata di sole donne che vivono in modo 
completamente indipendente», combattendo al fianco dei loro compagni sul 
fronte queste donne rivendicano e praticano l’uguaglianza e insegnano 
qualcosa agli uomini. C’è, in questo, qualcosa di profondamente 
sovversivo, che forse non sarà decisivo dal punto di vista militare ma 
senz’altro lo è dal punto di vista politico. Duemila donne, miseramente 
equipaggiate e con scarso appoggio internazionale, danno un contributo 
fondamentale alla difesa di una città asserragliata da novemila 
jihadisti ben armati. La loro forza – come ha ricordato la combattente 
delle YPJ Xwindar Tirêj ( 
http://www.uikionlus.com/comandante-di-kobane-abbiamo-noi-liniziativa/ ) 
– non è nei fucili ma nella determinazione. Certo, anche i loro compagni 
sono determinati, ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa di più. È 
il volto e il corpo di quella determinazione a terrorizzare i 
combattenti dello Stato islamico convinti che, se saranno uccisi da una 
donna, non andranno in paradiso.
Così, mentre i miliziani dell’IS aspirano al paradiso, le donne di 
Kobane pretendono di portarlo sulla terra ( 
http://www.uikionlus.com/comandante-di-kobane-abbiamo-noi-liniziativa/ ) 
e, nel farlo, pongono domande davvero scomode al di qua di Kobane ( 
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/04/al-di-qua-di-kobane/ ). 
Forse questo spiega il muto e fragoroso silenzio di molte donne e 
femministe di fronte a questa guerra e al ruolo delle Unità di 
protezione delle donne. Forse è più facile schierarsi nella guerra 
quando la parte delle donne è quella di vittime, quando il loro corpo è 
un terreno di battaglia, quando si fanno mediatrici e ambasciatrici di 
pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la 
discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando possono essere 
guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere 
umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio, 
Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali. Forse 
è più difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere 
che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, 
che le stesse che incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare 
al fronte, che le stesse che si prendono cura possono colpire, che le 
stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere e 
lo fanno come donne. Mentre ridono e sparano, mentre riposano e danzano 
con tute mimetiche e foulard colorati, le donne combattenti di Kobane 
sembrano indicare il punto in cui ogni discorso formulato fin qui da 
donne e femministe rischia di sbriciolarsi sul fronte delle 
contraddizioni. Per questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale 
forse la pena ascoltare e provare a capire la posta in gioco globale 
della guerra delle donne di Kobane.