Le ultime notizie danno ISIS in controllo di almeno 40% di Kobane, e
i/le combattenti YPJ/YPG sul punto di finire le munizioni.
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/10/kobane-bring-the-war-home/
Kobane: Bring the war home
Ogni volta che si scrive di Kobane si teme di arrivare troppo tardi, che
il tempo della città nel frattempo sia scaduto. Ma la città resiste
ancora. Un motivo è sicuramente l’aumento di raid aerei della
«Coalizione anti-Isis» negli ultimi giorni. Ma il fattore determinante
continua a essere la feroce resistenza delle YPG/YPJ che, pur subendo e
perdendo tanto e senza rinforzi da quasi un mese, non hanno smesso di
combattere l’avanzata jihadista. Notizie degli ultimi due giorni parlano
di un blocco parziale dell’avanzata dell’ISIS, che controllerebbe il
15-20% (altri dicono un terzo) della città. Le YPG/YPJ riportano
scontri anche in un altro villaggio del cantone, Dehma. La Turchia
rimane ferma nel suo rifiuto di stabilire un corridoio
umanitario-militare che, attraversando il suo confine, permetterebbe ai
rinforzi (anche eventualmente, secondo alcune fonti, ai peshmerga
iracheni) di raggiungere la cittadina assediata, insieme agli aiuti
umanitari. Mercoledì la polizia turca ha arrestato 5 membri del PYD
vicino al confine, accusandoli di appartenere a un’organizzazione
terrorista. Diverse dichiarazioni ufficiali turche hanno sostenuto la
necessità che Kobane non cada in mano «di gruppi terroristi». Il plurale
è chiaramente riferito alle YPJ/YPG, indicando un’equidistanza
politicamente inaccettabile, ma per niente sorprendente. Sembra proprio
che l’autodeterminazione di Rojava faccia paura quanto, se non più
dell’avanzata dello Stato Islamico.
L’appello di Salih Muslim (presidente del PYD) del 6 ottobre non è però
caduto nel vuoto. Le comunità curde di mezzo mondo si sono mobilitate e
in Turchia è esplosa una vera e propria rivolta. Non solo nelle zone
curde, manifestazioni e scontri stanno avvenendo anche a Istanbul e
Ankara e come pure in altre città, con la partecipazione e il sostegno
di pezzi consistenti della sinistra radicale turca e dei movimenti
studenteschi. Gli scontri (che in più di un’occasione sono stati scontri
a fuoco) hanno visto già almeno 30 morti (compresi membri della polizia
turca). Il livello dello scontro e il numero di morti non sono dovuti
solo alla risposta brutale della polizia turca (immortalata in più di un
caso mentre scandisce slogan pro-ISIS durante le sue azioni repressive),
ma anche agli scontri (anche qui armati) con squadracce islamiste (sia
curde che turche) e nazionaliste. Di fronte all’intensità del conflitto
in Turchia, le decine e decine di manifestazioni, le occupazioni (come
quella del parlamento olandese) e i blocchi realizzati dalle comunità
curde in Europa e i primi cenni di una risposta armata del PKK, viene in
mente uno slogan, una tattica per niente nuova, ma evidentemente sempre
efficace: Bring the war home. Le forze curde del KCK, vedendo le YPG/YPJ
assediate militarmente e mediaticamente a Kobane, e vedendo gli altri
cantoni di Rojava a rischio, hanno voluto portare nei quartieri e nelle
città turche la realtà dell’assedio di Kobane, mettendo a nudo le
contraddizioni dello Stato turco e della «Nuova Turchia» di Erdogan.
Quest’ultimo ha voluto isolare e far morire le rivendicazioni di Rojava
nella Kobane assediata dallo Stato Islamico, e invece se le è trovate
sotto casa. Le divisioni che emergono in questi scontri non sono
assolutamente di natura etnica, tra turchi e curdi, ma politica, tra un
movimento di massa multietnico, incarnato dall’HDP e da altre realtà
nate o rafforzate dall’esperienza di Gezi Park – che sostiene la lotta a
Kobane scendendo in strada, traducendo notizie, facendo appelli,
organizzando manifestazioni, creando comitati di sostegno – e una destra
reazionaria, in cui convergono interessi islamisti, nazionalisti e
neoliberisti, che purtroppo ha anche un discreto sostegno popolare (come
dimostrato dalle ultime elezioni). Entrambi i protagonisti di questo
scontro esibiscono caratteri globali: sia il movimento di massa sia il
governo, infatti, non esprimono solamente una specificità turca, ma
evidenziano caratteri che emergono con intensità diverse in ogni scontro
politico tra i movimenti contemporanei e i governi neoliberali siano
essi di destra o di sinistra. Le mobilitazioni in Europa hanno perciò
assunto forme più pacifiche o legate alla disobbedienza civile,
riuscendo però nell’intento di diffondere la notizia e la rabbia
dell’assedio e della resistenza in atto. Di fronte queste manifestazioni
si può dire che qualcosa si sta muovendo al di qua di Kobane.
Purtroppo sembra però ancora improbabile che le YPG/YPJ riescano a
impedire la caduta di Kobane. Detto questo, si può ribadire, senza
rischio di cadere in romanticismi, che la resistenza armata di Kobane
non è un gesto inutile, disperato o vano, ma carico di un significato
globale: storico, politico e materiale. Ogni giorno, ogni ora di
resistenza, offre speranza ai cantoni liberi di Rojava, ma anche a tutte
le forze laiche, socialiste e rivoluzionarie della regione, e non solo.
Lo Stato Islamico ha dichiarato guerra a ogni forma di
autodeterminazione e di pluralismo, e le YPG/YPJ hanno risposto alla
guerra con la guerra, dimostrando che anche chi combatte e muore per il
«qui e ora» può resistere a chi mira al paradiso, che è possibile vivere
e lottare insieme nonostante differenze etniche e religiose. Un appello
diffuso ieri dalla Rete Kurdistan faceva intuire le potenzialità di una
coalizione popolare internazionale contro ISIS, che trova espressione
nella rivoluzione di Rojava, la resistenza di Kobane e tutte le realtà,
a livello transnazionale, che li sostengono e che si riconoscono in
essi. Ciò significa che il contrasto all’Isis non è il monopolio di una
coalizione tra Stati che improvvisamente si sono accorti che la civiltà
è in pericolo. Soprattutto le combattenti di Rojava rendono evidente che
i barbari che loro combattono non sono proprio gli stessi affrontati da
una coalizione che ieri per salvaguardare i suoi equilibri interni ha
dichiarato Kobane un obiettivo non strategico. Per i movimenti globali,
invece, Kobane è strategica: non per la posizione che occupa nel teatro
di guerra, ma per ciò che la tiene in vita e la muove, per ciò che fa
esistere fuori Kobane, per il «qui e ora» che ci chiama a vivere.
Il processo politico avviato a Rojava, prima ancora di diventare oggetto
di discussione e di confronto (cosa auspicabile ma al momento resa
difficile da altre contingenze), dev’essere difeso. Le mobilitazioni che
si stanno moltiplicando in questi giorni in Europa sono importanti per
il qui e ora e guardando in avanti. È importante che queste
mobilitazioni si coordinino con le comunità curde già presenti e attive
nei territori, seguano le indicazioni politiche delle YPG/YPJ, e si
mettano in contatto con i comitati locali turchi (come quelli del HDP)
che stanno già organizzando campagne di sostegno materiale, politico e
umanitario. La necessità di un corridoio umanitario/militare a Kobane è
urgentissima, ha senso diffonderla e portarla nelle piazze dove si dà
voce e forma al sostegno per Kobane.