[autorgstudbo] Kobane sta cadendo

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Autor: News AutOrg.anizzazione Stud.entesca BO
Data:  
A: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Collettivo SPA
Assumpte: [autorgstudbo] Kobane sta cadendo
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/06/kobane-sta-cadendo/

Kobane sta cadendo

di Gabe Carroll

Kobane sta cadendo. Ormai è impossibile negarlo. Dopo giorni che hanno
visto i combattimenti più feroci dell’assedio (
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/04/al-di-qua-di-kobane/ ), i
combattenti dello Stato islamico sono entrati da est e ovest, sfondando
le linee con carri esplosivi. Hanno così ripreso le alture che le YPG
avevano brevemente riconquistato nella notte tra il 5 e il 6 ottobre, e
guadagnato posizioni dalle quali poter bersagliare ininterrotamente la
città con mortai e carri armati. Le YPG, che sembrano consapevoli della
sconfitta imminente, si sforzano per evacuare gli ultimi civili rimasti
e cercano di recare il massimo danno possibile ai jihadisti prima di
soccombere. Ieri una comandante YPG, Arin Mirkan, si è fatta esplodere
in un attacco contro una posizione dell’ISIS. Questa tattica non è
sconosciuta al PKK turco (che però se n’è servito raramente), ma non
sembra essere mai stata praticata dalle YPG e indicherebbe che la
battaglia sta raggiungendo la sua ultima fase. Gli attacchi aerei
americani sono occasionali e notturni e sembrano aver solo rallentato
l’avanzata islamista. Giornalisti della BBC parlano di un viavai di
ambulanze sul lato turco del confine, indicando l’arrivo, quantomeno
prospettato, di civili ed eventualmente anche combattenti feriti. Si
prospetta una lotta strada per strada, casa per casa, fino all’ultima
donna e uomo. La città di Kobane non è piccola, si stima che ancora
almeno 2mila combattenti curdi siano dentro la città e che sicuramente
resisteranno, ma è evidente che, se le cose procedono di questo passo,
la città cadrà a breve.

Il comportamento delle autorità turche, criticato non solo dai curdi, ma
ormai anche a livello internazionale, non è cambiato nel corso del fine
settimana, nonostante l’impegno preso di impedire la caduta di Kobane
nelle mani del califfato. Durante i combattimenti del 5 giugno un razzo
jihadista ha raggiunto la Turchia, ferendo una famiglia. La risposta
della polizia schierata sul confine non si è fatta attendere: lo
sgombero violento di profughi e attivisti curdi dalla zona
immediatamente attorno al confine, con tanto di lacrimogeni sparati su
una troupe della BBC. Il PKK ha usato parole molto pesanti contro lo
Stato turco, promettendo che il tradimento di Kobane sarà la fine del
processo di pace tra PKK e Ankara, e l’inizio di una nuova campagna
armata nel Kurdistan turco e oltre. Erdogan sembra disposto a questo
rischio, e prende sempre più credibilità l’ipotesi che aspetti
l’annientamento delle YPG per intervenire.

Si moltiplicano le azioni di protesta delle comunità curde nel mondo.
Tra di esse vi sono l’occupazione temporanea di una stazione della
metropolitana di Londra, scontri e manifestazioni in diverse parti della
Turchia, attacchi alle sedi dell’AKP, manifestazioni in Germania. Si
moltiplicano gli appelli alla mobilitazione in solidarietà a Kobane,
come quello di Salih Muslim (
http://www.connessioniprecarie.org/2014/10/04/al-di-qua-di-kobane/ ),
presidente del PYD, espressione politica delle YPG, alla solidarietà e a
una mobilitazione generale dei curdi nel mondo. «Le YPG e le YPJ e la
popolazione di Kobane stanno sostenendo una grande resistenza. Tutti
devono vederlo e dimostrare solidarietà. Il mondo è rimasto in silenzio,
come se fosse complice di questi massacri. Tutto sta avendo luogo di
fronte a loro, ma non fanno niente. Vogliamo armi, ma non vogliono
nemmeno vendercele». Dalla Turchia l’HDP (partito di massa della
sinistra radicale) fa appello (
http://www.retekurdistan.it/2014/10/04/hdp-rilascia-un-appello-alla-comunita-internazionale-per-kobane/#.VDMGqVeut51
) «alla solidarietà, invitando i popoli d’Europa, tutte le forze
democratiche europee ad agire immediatamente, a mostrare la loro
solidarietà con il popolo di Kobane allo scopo di evitare un massacro
simile a quello degli Yezidi in Sinjar, degli armeni in Kesab, degli
aleviti in Lazkiye e degli Assiri a Ninive. Questa solidarietà, da un
lato, può darsi sotto forma di sostegno politico nelle istituzioni e nei
parlamenti; dall’altro lato può avere anche la forma di aiuti umanitari
e materiali che permetteranno la sopravvivenza di decine di migliaia di
donne e bambini che sono fuggiti dalla guerra e dal conflitto e che sono
costretti a vivere nei campi, soprattutto considerando che l’inverno si
avvicina». Ormai le speranze per Kobane sembrano svanire, e con esse
(per il momento) quelle per la rivoluzione di Rojava. Ma anche se Kobane
cadrà, sarà impossibile dire che tutto finisce qui. Da un punto di vista
umano i quasi 200 mila profughi non scompariranno dalla zona turca;
porteranno con sé la volontà che ha animato la rivoluzione di Rojava e
la difesa di Kobane e rappresenteranno una contraddizione per lo Stato
turco, insieme a quella già rappresentata dalle regioni kurde
storicamente sotto il suo dominio. Le altre forze, politiche e armate,
che animano il KCK (il PKK in primis), non smetteranno di lottare e
certamente non si dimenticheranno di Kobane.

Buona parte dei movimenti è arrivata tardi a occuparsi di Rojava,
cominciando a documentare la rivoluzione quando purtroppo ormai entrava
nel suo scontro decisivo, ma la necessità di una mobilitazione politica
verso quella situazione rimarrà anche qualora le YPG venissero
annientate. Come l’appello dell’HDP ricorda, c’è un’emergenza
umanitaria, un esodo umano prodotto dall’assedio che durerà per anni,
non per mesi. Una contraddizione umanitaria tutta politica, fatta di
persone che hanno subito una vera e propria punizione armata per non
aver voluto accettare la scelta tra una dittatura e un’altra e hanno
provato a costruire un’alternativa laica, socialista, libertaria,
femminista. Tra le migliaia di profughi queste rivendicazioni
continueranno a vivere e trovare espressione organizzata e questa volta
il sostegno, politico e umanitario, da parte dei movimenti non può
assolutamente mancare. La tentazione di adoperare una retorica eroica,
quasi mitologica, per onorare le combattenti e i combattenti delle YPG è
forte, sicuramente meritata, ma da evitare. L’idea di costruire uno
spazio di autodeterminazione egualitario, socialista, pluralistico,
indipendente, capace di accogliere profughi (come nel caso dei cristiani
arabi e assiri fuggiti da altre parti della Siria) e persino di prestare
soccorso in altri paesi (buona parte del merito del salvataggio degli
Yezidi sullo Sinjar è stata delle YPG), sembra un’idea impossibile,
irrealizzabile, oltre ogni realismo politico, ovunque uno si trovi a
fare politica. E loro lo hanno fatto, in Medioriente, in mezzo a una
guerra civile, contro tutti. Non è la dimensione sovrumana o mitologica
di questi rivoluzionari del ventunesimo secolo che andrà comunicata e,
purtroppo, ricordata. È l’estrema materialità di quello che queste donne
e uomini hanno portato alla luce per due anni che rende la loro lotta
così attuale, così importante, per i movimenti e non solo.