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Al di qua di Kobane
Venerdì 3 ottobre si è consumata un’altra giornata molto cruenta 
nell’assedio di Kobane, la cittadina kurda nella regione di Rojava, da 
due anni sotto il controllo delle Unità di Protezione Popolare (YPG), 
espressione siriana del PKK e del fronte KCK (di cui fanno parte anche 
il PJAK iraniano e il PCDK iracheno). Questa forza, di ispirazione 
apertamente socialista, libertaria e femminista, si trova sotto assedio 
dal 16 settembre. I combattenti dell’Isis, stanati in Iraq dai 
bombardamenti USA e bloccati (per il momento) negli scontri con Assad e 
quello che rimane dell’Esercito Libero Siriano, hanno ammassato decine 
di brigate (comprese quelle dotate di carri armati e altre armi pesanti) 
sulla cittadina kurda, che dista pochi chilometri dal confine turco. In 
due settimane di combattimenti le milizie salafite hanno perso centinaia 
di combattenti, infliggendo però pesanti perdite alle YPG, già in 
inferiorità numerica e dotate quasi solamente di armi leggere. L’Isis è 
stato fedele alla sua immagine, uccidendo civili nei dintorni di Kobane 
e decapitando prigionieri, offrendo così un assaggio di quale sarebbe il 
trattamento riservato alle popolazioni della regione, che includono non 
solo kurdi, ma anche cristiani arabi e assiri fuggiti da altre zone, 
molti dei quali sono entrati nelle YPG, facendola diventare ormai una 
forza multietnica e multiconfessionale.
Mentre nei dintorni di Kobane impazzavano scontri ferocissimi, su 
twitter c’è stata una discussione esplosiva ed erratica, che ha visto 
partecipare attivisti kurdi e internazionali, giornalisti, residenti 
delle zone colpite, falchi guerrafondai atlantisti e anche qualche 
sostenitore del califfato, più o meno mascherato. Molti in rete hanno 
ripreso le accuse che attivisti kurdi e rappresentanti delle YPG 
ripetono da settimane: la Turchia è complice del massacro in atto. La 
posizione della Turchia nei confronti dell’Isis è talmente ambigua che 
anche per il più esperto commentatore è difficile dare una spiegazione 
esatta dei comportamenti dello Stato turco, dovendo eventualmente tener 
conto anche delle supposte divisioni tra governo, esercito e 
intelligence. Certo è che il parlamento turco ha autorizzato giovedì 
l’uso della forza nei confronti dello Stato Islamico, ed Erdogan si è 
espresso sulla necessità di evitare che Kobane finisca in mani 
jihadiste. Questo potrebbe suscitare un sospetto pesante, ma per molti 
versi plausibile: la Turchia auspica che l’Isis faccia il lavoro sporco, 
annientando la Rojava autonoma creata dalle YPG e dal suo braccio 
politico, il PYD, evitando così la situazione creatasi negli anni ’90, 
quando la no fly zone Americana nel Kurdistan iracheno ha permesso basi 
d’appoggio sul confine iracheno al PKK nella sua lotta contro l’esercito 
turco. Questa interpretazione degli eventi è diffusa tra attiviste e 
attivisti kurdi.
Le potenziali ramificazioni di questa situazione sono talmente tante da 
rendere quasi impossibile elencarle tutte. L’assedio ha già prodotto il 
più grande esodo di profughi della guerra siriana, tra i 160 e i 200 
mila in poche settimane. Molti di questi sono tornati a combattere, ma 
quelli che rimangono in Turchia (la maggioranza) si trovano proprio sul 
confine, a guardare gli scontri con binocoli e periodicamente a 
manifestare contro i soldati turchi presenti, talvolta scontrandosi con 
loro e subendo cariche e idranti. Sono esplosi scontri in zone kurde 
della Turchia e il 3 ottobre sono stati caricati turchi e kurdi che 
manifestavano assieme a Kadikoy, un quartiere di Istanbul. Va inoltre 
ricordato che sembra esserci una grossa presenza di cittadini turchi 
dentro l’Isis (circa 800), mentre sono state diverse le segnalazioni di 
militanti filo-Isis presenti nelle piazze e manifestazioni in Turchia, 
per non parlare della rete di smistamento che l’Isis deve aver creato 
entro i confini turchi per permettere l’arrivo dei volontari e il loro 
passaggio in Siria e Iraq. Il conflitto a Kobane rischia di far 
esplodere alcune contraddizioni latenti del regime neo-ottomano di 
Erdogan e nel suo partito, riportando l’opposizione nelle piazze in 
numeri sempre maggiori. Diverse fonti confermano una nuova alleanza tra 
le YPG e i ribelli siriani del FSA, ma per il momento non sembra che 
questo possa cambiare la sorte di Kobane. Salih Muslim, comandante delle 
YPG, attualmente in Europa, afferma che le autorità turche hanno 
presentato un ultimatum alle sue forze: sciogliete la zona autonoma di 
Rojava e le YPG, in cambio del sostegno turco per evitare il massacro. 
Salih Muslim afferma di aver già rigettato l’offerta.
Il punto di vista dei movimenti nei confronti dell’esperienza di Rojava 
dovrebbe essere chiaro, ma nei due anni della sua esistenza l’attenzione 
che ha ricevuto è stata tragicamente poca. Solo da quest’estate, quando 
si è profilato il possibile annientamento delle YPG, si è cominciato a 
guardare con attenzione e a valorizzare la rivoluzione di Rojava. Adesso 
che il suo annientamento potrebbe realizzarsi da un giorno (o da un’ora) 
all’altro, la necessità di prendere posizione, di mobilitarsi e 
immaginare iniziative serie di sostegno economico, logistico, umanitario 
e politico si fa molto urgente, perché siamo già molto in ritardo. A chi 
non riesce a essere chiaro, a chi vuole disperatamente mantenere uno 
schema di antimperialismo vecchio di decenni e a chi, dall’altra parte, 
vuole superarlo troppo in fretta, vale la pena ricordare le recenti 
parole di Wu Ming: «il PKK è una forza di massa laica, socialista, 
libertaria, femminista in Medio Oriente. E guida una resistenza popolare 
all’Isis». Le bombe americane, che sembra siano cadute nella serata di 
venerdì 3 ottobre, non sono (e non saranno mai) da invocare o sperare, e 
le contraddizioni che tali interventi suscitano vanno affrontate con 
forza. Ma riconoscere che la lotta di queste donne e questi uomini è 
qualcosa che appartiene non solo alla cronaca mediorientale, ma al 
patrimonio dei movimenti globali per la giustizia sociale, come la lotta 
pluridecennale del popolo palestinese, è un atto dovuto e necessario, 
per poi agire di conseguenza. Non si tratta di costruire nuovi miti, o 
di ripescare vecchi immaginari di quello che veniva chiamato 
terzomondismo. Siamo di fronte a un conflitto segnato 
dall’attraversamento di confini: basta pensare non solo ai volontari 
dell’Isis, ma alle centinaia di kurdi residenti in Europa tornati a 
combattere in Iraq e Siria. Nonostante la strumentalizzazione politica 
operata da forze evidentemente reazionarie in Europa e negli Stati uniti 
e il ritorno della possibilità di un’invasione «occidentale» del 
levante, siamo già coinvolti, perché non siamo di fronte a una lotta di 
«altri» rispetto a noi. Di fronte a tutto questo la prospettiva di un 
blando «tifo per i nemici degli Usa» non funziona più.
La battaglia degli ultimi due giorni, che sta vedendo decine di morti, 
non ha segnato la caduta di Kobane, che potrebbe però avvenire nelle 
prossime ore, nonostante la resistenza eroica e solitaria delle compagne 
e dei compagni delle YPG. La loro scommessa è quella di costruire in 
Medio Oriente uno spazio di autodeterminazione egualitario, socialista, 
pluralistico, indipendente tanto dai macellai religiosi dell’Isis e di 
al Nusra quanto da quelli laici di Assad. Qui non si tratta di sostenere 
un’idea quando tra mille distinguo la si riconosce uguale alla propria, 
ma della attuale volontà politica organizzata, armata e non mediata di 
donne e uomini. Dobbiamo chiederci: i movimenti sono capaci di trovare i 
modi per sostenere realmente questa lotta? E se la risposta è no, 
allora, perché?