Date: Sat, 16 Aug 2014 07:20:46 +0200
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Subject: [donneinnero] militarmente scorrette
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di ieri in caso sia sfuggito
Ionne
Militarmente scorrette
— Giannina Mura,
PARIGI,
15.8.2014
Intervista. Un
incontro con la sociologa Andrée Michel, madrina dell'appello
per la creazione di un tribunale internazionale per la
Repubblica Democratica del Congo, dove le donne sono «bottino
di guerra»
<img src="http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/08/14/15storie-f02.jpg" />
Foto Reuters
Non ha mai smesso d’incoraggiare le donne a essere
«cittadine militarmente scorrette». Oggi, a 93 anni,
Andrée Michel è una delle più attive madrine dell’appello per
la creazione di un tribunale internazionale per la
Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove dal 1996 più
di 500mila donne sono vittime di stupri «arma da guerra».
Direttrice onoraria del Centro Nazionale di Ricerca
Scientifica (Cnrs), è stata sin dagli anni ’50 una delle
principali pioniere transalpine della ricerca sociale
sulla condizione femminile. Prima sociologa in Francia
a fare del complesso militare industriale (Cmi)
occidentale il suo campo d’indagine, le sue analisi hanno
suscitato grande interesse nei movimenti femministi
e antimilitaristi internazionali, e restano di grande
attualità, offrendo chiavi essenziali per comprendere lo
stato di guerra permanente contemporaneo.
Può spiegare il concetto di Complesso Militare
Industriale?
Sono nata nel 1920 in una famiglia molto colpita dalla
carneficina del ’14–18 — il fratello di mio padre è stato
ucciso il primo giorno di guerra, mentre mio padre, che aveva
perso un braccio in battaglia, è stato prigioniero dei
tedeschi per quattro anni — nella mia infanzia non si
parlava d’altro. Visti poi gli effetti della seconda guerra
mondiale e dei diversi conflitti della Francia per
conservare l’impero coloniale (Indocina, Algeria, ecc.),
e non avendo mai separato le mie ricerche da quello che
vivevo, consideravo che la teoria femminista dovesse
analizzare la società patriarcale anche sotto il suo
aspetto militare. Ma la sociologia della guerra non
esisteva in Francia: all’inizio, mi sono state utili le
ricerche di alcune università statunitensi che avevano
studiato il complesso militare industriale del loro paese,
nato dall’alleanza tra i grandi industriali dell’armamento
e gli alti dirigenti dell’esercito, il cui potere si era
fortemente consolidato proprio con la seconda guerra
mondiale. Per rafforzarsi ulteriormente occorreva loro
un nuovo nemico e l’Urss è stato il primo di una lunga serie
di alleati riconvertiti in questo ruolo. Durante la seconda
guerra mondiale era alleato degli Usa, i quali temendo
l’estendersi della sua influenza sull’Europa, che loro stessi
intendevano dominare, ne hanno fatto il nemico n. 1 di
quella Guerra Fredda che ha riempito gli arsenali atomici
ad est ed ovest del muro di Berlino. Malgrado già all’epoca
dell’installazione dei Pershing in Germania, dei militari
d’alto rango francesi qualificassero la minaccia
dell’invasione sovietica in Europa come una montatura per
giustificare spese colossali per armi di cui non si aveva
alcun bisogno, tutti i governi ci hanno creduto. Le spese
militari conseguenti hanno rafforzato ulteriormente
i principali Cmi occidentali e contribuito alla rovina
economica dell’Urss e alla sua dissoluzione.
Oggi gli interventi militari vengono
giustificati in nome della difesa della democrazia
e della popolazione civile…
Tanto il Pentagno che il ministero della difesa hanno
servizi speciali molto efficaci nel fornire gli argomenti
necessari a far accettare all’opinione pubblica le spese
e gli interventi militari. L’attuale missione in Africa
Centrale, che è un’occasione d’oro per l’industria militare
francese, per la quale era urgente «trovare nuovi mercati
di esportazione», è stata evidentemente mediatizzato
come difesa della democrazia e per ragioni umanitarie.
Dietro questi nobili paraventi delle guerre
contemporanee, si celano obiettivi meno presentabili
che, oltre ai profitti giganteschi per i Cmi, includono
quello d’impadronirsi delle risorse e materie prime di quei
paesi. Mentre nei nostri le spese militari continuano
a sottrarre ingenti risorse pubbliche ai servizi
essenziali per la popolazione.
Lei ha studiato particolarmente il Cmi
francese, qual è la sua specificità?
La Francia segue lo stesso modello degli altri Cmi del
pianeta che, va ricordato, oltre ai militari e gli
industriali, includono le banche, i laboratori
scientifici che elaborano nuovi sistemi d’arma, i partiti
politici e i mass-media. Ma a differenza di altri, la
Francia è una nazione con più di mille anni di storia
militare, anzi lo stesso modello militare ha ispirato lo
stato francese, con a capo un potente monarca, inteso in
senso proprio o in senso repubblicano di presidente, che
limita il potere del parlamento rispetto al governo. Il che
facilita le cose per il Cmi dato che riduce drasticamente
il numero di persone da influenzare per ottenere una
politica consona ai suoi interessi. Nello stesso tempo,
viste le sue risorse finanziarie, il Cmi agisce anche
a livello ideologico e culturale: per fare solo un
esempio, i grandi industriali dell’armamento hanno
acquistato case editrici, riviste, giornali, canali
televisivi, arrivando sempre più a neutralizzare il
dissenso. Lo stesso vale per la maggior parte delle
femministe, contrariamente ai paesi anglossassoni,
dove l’analisi delle donne ha prodotto importantissime
riflessioni sul legame essenziale tra femminismo
e antimilitarimo.
Ha definito il Cmi « una formazione
sociale aggravata del patriarcato». in che senso?
La militarizzazione rafforza e consolida a tutti
i livelli il dominio patriarcale. Per funzionare il
sistema militare necessita della sottomissione degli
uomini, che devono obbedienza assoluta alla gerarchia.
Perché questi accettino la loro strumentalizzazione,
si permette loro di strumentalizzare le donne. Nei paesi
dove da decenni vengono «esportate» le guerre, le basi e gli
interventi militari dei Cmi occidentali, si concretizza
nella prostituzione forzata, negli stupri e nei
femminicidi, pratiche tollerate quando non
autorizzate ufficialmente. Nella Repubblica Democratica
del Congo, da anni le donne vengono sistematicamente
violentate, torturate, e uccise. L’obiettivo
è traumatizzare la popolazione locale e forzarla
all’esodo per sgomberare il loro territorio
e permettere a certi capi di stato africani, e alle potenze
occidendali che li sostengono, di impadronirsi delle
ricchezze del sottosuolo. È per mettere fine all’impunità
di questi crimini che chiediamo all’Onu l’istituzione di un
tribunale penale internazionale per la Rdc che succeda
a quello del Ruanda in chiusura alla fine di quest’anno.
Nella sua analisi lei evidenzia come la
violenza sulle donne venga «reimportata» nei paesi
occidentali attraverso i soldati tornati dal fronte.
Diverse ricerche hanno dimostrato che gli uomini che sono
stati in guerra tendono a diventare più violenti al loro
ritorno nella vita civile. Dalle donne serbe, i cui mariti
rientravano dai combattimenti in Croazia e in Bosnia,
alle irlandesi sia di parte protestante che cattolica,
tutte hanno testimoniato dell’apparizione di
comportamenti violenti e brutali da parte dei loro
congiunti di ritorno dalle operazioni militari. Ma c’è di
più. Esercitare un’identità da adulto per un cittadino di
una società militarizzata come la nostra significherebbe
porre il problema delle spese militari e delle guerre con
una mentalità responsabile, interrogare le autorità,
opporsi, formare dei movimenti per evitare i conflitti
armati e sradicare la violenza. Ma la maggior parte degli
uomini non lo fa, non solo perché sono socializzati fin
dall’infanzia alla violenza, ma anche perché si permette
loro di dominare le donne. Il femminismo ha fatto molto,
ma la militarizzazione imperante continua a favorire
la loro strumentalizzazione come oggetti sessuali
Lei rimette anche in discussione il dogma
secondo il quale la spesa militare favorirebbe la crescita
economica e au
menterebbe l’occupazione.
Ricerche di economisti Onu e indipendenti dimostrano
che la crescita economica è inversamente proporzionale
alle spese militari, meno generatrici di occupazione di
altre spese pubbliche, in estrema sintesi più aumenta la
spesa militare tanto più cresce la disoccupazione, quella
femminile in primis. Ora, quando la classe
dominante vuole indebolire il potere di negoziazione
della classe dominata, non c’è niente di più efficace del
ridurre l’occupazione, dato che la paura di perdere il posto
porterà i lavoratori e i loro rappresentanti ad
accettare il restringimento dei loro diritti.
Del resto, nella nuova divisione internazionale del
lavoro, che ha gli stessi effetti e permette alle
multinazionali di massimizzare i profitti con le
delocalizzazioni, la violenza militare è onnipresente
tanto per reprimere le rivolte dei contadini e operai
locali, che da noi quelle dei lavoratori che si ribellano.
Questo «nuovo corso» dell’economia mondiale, assicurato
dai Cmi e dal capitalismo finanziario, generato dai
giganteschi profitti accumulati dai grandi industriali
dell’armamento e delle banche, resta saldamente
patriarcale con modalità che vanno dallo sfruttamento
intensivo delle operaie nelle «fabbriche globali» alla
creazione esponenziale e conseguente di nuove povere nei
paesi industrializzati, passando per la miseria che si
propaga a tutte le donne del terzo mondo, visto
l’indebitamento dei loro governi per la corsa al riarmo.
La Francia è stata la prima delle cinque
grandi potenze nucleari ad avere una ministra delle difesa
nel 2002, da allora in diversi paesi europei il numero delle
ministre della difesa è in crescita. Cosa cambia con
l’arrivo di queste donne nelle stanze dei bottoni?
Nella sostanza nulla: il potere è ancora saldamente nelle
mani degli uomini del Cmi che continuano a scegliere
i migliori e adesso anche le migliori per i loro interessi.
La sicurezza reale richiede invece una politica di
giustizia sociale e internazionale e di abbandonare il
paradigma della violenza militare come mezzo per risolvere
i conflitti.
Come giudica la situazione attuale?
Molto grave. La militarizzazione delle nostre società ha
assunto livelli mai visti, non ultimo il sistema di
spionaggio universale organizzato dalla Nsa. Arrogarsi
il diritto di sorvegliare tutti i cittadini del pianeta
è una dimostrazione di forza del nuovo ordine mondiale che
non ammette altri modi di risoluzione dei conflitti al di
fuori della violenza militare. Non è quindi un caso che la
corsa al riarmo sia di nuovo in piena ascesa, soprattutto nel
<TB>«terzo mondo». Chi arriva alla testa di quei paesi
ha interiorizzato il principio che per conquistare
e conservare il potere occorrono le armi. Mentre in tutte
le culture tradizionali si era sempre praticata la
negoziazione per evitare la guerra, come le palabres sotto
i grandi alberi nei villaggi africani, dove le discussioni
si protraevano il tempo necessario a trovare un accordo.
Il colonialismo ha spazzato via tutto questo.
Quali sono allora i principi guida delle
«cittadine militarmente scorrette»?
Per cambiare la società bisogna partire da sé,
comportarsi con coerenza, e cercare soluzioni davvero
umane e democratiche. Quando i politici proclamano la
necessità d’intervenire militarmente in un altro paese
perché la democrazia o i diritti umani sono in pericolo,
bisogna mobilizzarsi e tutto il possibile perché la
negoziazione sia anteposta all’intervento militare. Non
si parte da zero, ma da quello che è già stato conquistato
in diritto internazionale, come la Carta delle Nazioni
Unite che, se venisse applicata, sarebbe già un grande passo
avanti.
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