[RSF] FW: [donneinnero] militarmente scorrette

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Autor: pilar castel
Data:  
A: forumroma@inventati.org, pace@peacelink.it, pace, Poema, juliavshawlawrence@gmail.com
Assumpte: [RSF] FW: [donneinnero] militarmente scorrette


Date: Sat, 16 Aug 2014 07:20:46 +0200
From: ionnegue@???
To: donneinnero@???; laurafedriga@???; mafalda.morelli@???; luisarandi@???; wally059@???; olia@???; isamarian@???; g.graziella57@???; elettrastamboulis@???; valangela55@???; calathaki@???
Subject: [donneinnero] militarmente scorrette








      Segnalo questo articolo sul Manifesto
        di ieri in caso sia sfuggito


        Ionne


        Militarmente scorrette



            —  Giannina Mura,
                    PARIGI, 


              15.8.2014 



        Intervista. Un
          incontro con la sociologa Andrée Michel, madrina dell'appello
          per la creazione di un tribunale internazionale per la
          Repubblica Democratica del Congo, dove le donne sono «bottino
          di guerra» 





        <img src="http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/08/14/15storie-f02.jpg" />
            Foto Reuters







        Non ha mai smesso d’incoraggiare le donne a essere
          «cit­ta­dine mili­tar­mente scor­rette». Oggi, a 93 anni,
          Andrée Michel è una delle più attive madrine dell’appello per
          la crea­zione di un tri­bu­nale inter­na­zio­nale per la
          Repub­blica Demo­cra­tica del Congo (Rdc), dove dal 1996 più
          di 500mila donne sono vit­time di stu­pri «arma da guerra».
          Diret­trice ono­ra­ria del Cen­tro Nazio­nale di Ricerca
          Scien­ti­fica (Cnrs), è stata sin dagli anni ’50 una delle
          prin­ci­pali pio­niere tran­sal­pine della ricerca sociale
          sulla con­di­zione fem­mi­nile. Prima socio­loga in Fran­cia
          a fare del com­plesso mili­tare indu­striale (Cmi)
          occi­den­tale il suo campo d’indagine, le sue ana­lisi hanno
          susci­tato grande inte­resse nei movi­menti fem­mi­ni­sti
          e anti­mi­li­ta­ri­sti inter­na­zio­nali, e restano di grande
          attua­lità, offrendo chiavi essen­ziali per com­pren­dere lo
          stato di guerra per­ma­nente contemporaneo.


        Può spie­gare il con­cetto di Com­plesso Mili­tare
          Industriale?
        Sono nata nel 1920 in una fami­glia molto col­pita dalla
          car­ne­fi­cina del ’14–18 — il fra­tello di mio padre è stato
          ucciso il primo giorno di guerra, men­tre mio padre, che aveva
          perso un brac­cio in bat­ta­glia, è stato pri­gio­niero dei
          tede­schi per quat­tro anni — nella mia infan­zia non si
          par­lava d’altro. Visti poi gli effetti della seconda guerra
          mon­diale e dei diversi con­flitti della Fran­cia per
          con­ser­vare l’impero colo­niale (Indo­cina, Alge­ria, ecc.),
          e non avendo mai sepa­rato le mie ricer­che da quello che
          vivevo, con­si­de­ravo che la teo­ria fem­mi­ni­sta dovesse
          ana­liz­zare la società patriar­cale anche sotto il suo
          aspetto mili­tare. Ma la socio­lo­gia della guerra non
          esi­steva in Fran­cia: all’inizio, mi sono state utili le
          ricer­che di alcune uni­ver­sità sta­tu­ni­tensi che ave­vano
          stu­diato il com­plesso mili­tare indu­striale del loro paese,
          nato dall’alleanza tra i grandi indu­striali dell’armamento
          e gli alti diri­genti dell’esercito, il cui potere si era
          for­te­mente con­so­li­dato pro­prio con la seconda guerra
          mon­diale. Per raf­for­zarsi ulte­rior­mente occor­reva loro
          un nuovo nemico e l’Urss è stato il primo di una lunga serie
          di alleati ricon­ver­titi in que­sto ruolo. Durante la seconda
          guerra mon­diale era alleato degli Usa, i quali temendo
          l’estendersi della sua influenza sull’Europa, che loro stessi
          inten­de­vano domi­nare, ne hanno fatto il nemico n. 1 di
          quella Guerra Fredda che ha riem­pito gli arse­nali ato­mici
          ad est ed ovest del muro di Ber­lino. Mal­grado già all’epoca
          dell’installazione dei Per­shing in Ger­ma­nia, dei mili­tari
          d’alto rango fran­cesi qua­li­fi­cas­sero la minac­cia
          dell’invasione sovie­tica in Europa come una mon­ta­tura per
          giu­sti­fi­care spese colos­sali per armi di cui non si aveva
          alcun biso­gno, tutti i governi ci hanno cre­duto. Le spese
          mili­tari con­se­guenti hanno raf­for­zato ulte­rior­mente
          i prin­ci­pali Cmi occi­den­tali e con­tri­buito alla rovina
          eco­no­mica dell’Urss e alla sua dissoluzione.


        Oggi gli inter­venti mili­tari ven­gono
          giu­sti­fi­cati in nome della difesa della demo­cra­zia
          e della popo­la­zione civile…
        Tanto il Pen­ta­gno che il mini­stero della difesa hanno
          ser­vizi spe­ciali molto effi­caci nel for­nire gli argo­menti
          neces­sari a far accet­tare all’opinione pub­blica le spese
          e gli inter­venti mili­tari. L’attuale mis­sione in Africa
          Cen­trale, che è un’occasione d’oro per l’industria mili­tare
          fran­cese, per la quale era urgente «tro­vare nuovi mer­cati
          di espor­ta­zione», è stata evi­den­te­mente media­tiz­zato
          come difesa della demo­cra­zia e per ragioni uma­ni­ta­rie.
          Die­tro que­sti nobili para­venti delle guerre
          con­tem­po­ra­nee, si celano obiet­tivi meno pre­sen­ta­bili
          che, oltre ai pro­fitti gigan­te­schi per i Cmi, inclu­dono
          quello d’impadronirsi delle risorse e mate­rie prime di quei
          paesi. Men­tre nei nostri le spese mili­tari con­ti­nuano
          a sot­trarre ingenti risorse pub­bli­che ai ser­vizi
          essen­ziali per la popolazione.


        Lei ha stu­diato par­ti­co­lar­mente il Cmi
          fran­cese, qual è la sua specificità?
        La Fran­cia segue lo stesso modello degli altri Cmi del
          pia­neta che, va ricor­dato, oltre ai mili­tari e gli
          indu­striali, inclu­dono le ban­che, i labo­ra­tori
          scien­ti­fici che ela­bo­rano nuovi sistemi d’arma, i par­titi
          poli­tici e i mass-media. Ma a dif­fe­renza di altri, la
          Fran­cia è una nazione con più di mille anni di sto­ria
          mili­tare, anzi lo stesso modello mili­tare ha ispi­rato lo
          stato fran­cese, con a capo un potente monarca, inteso in
          senso pro­prio o in senso repub­bli­cano di pre­si­dente, che
          limita il potere del par­la­mento rispetto al governo. Il che
          faci­lita le cose per il Cmi dato che riduce dra­sti­ca­mente
          il numero di per­sone da influen­zare per otte­nere una
          poli­tica con­sona ai suoi inte­ressi. Nello stesso tempo,
          viste le sue risorse finan­zia­rie, il Cmi agi­sce anche
          a livello ideo­lo­gico e cul­tu­rale: per fare solo un
          esem­pio, i grandi indu­striali dell’armamento hanno
          acqui­stato case edi­trici, rivi­ste, gior­nali, canali
          tele­vi­sivi, arri­vando sem­pre più a neu­tra­liz­zare il
          dis­senso. Lo stesso vale per la mag­gior parte delle
          fem­mi­ni­ste, con­tra­ria­mente ai paesi anglos­sas­soni,
          dove l’analisi delle donne ha pro­dotto impor­tan­tis­sime
          rifles­sioni sul legame essen­ziale tra fem­mi­ni­smo
          e antimilitarimo.


        Ha defi­nito il Cmi « una for­ma­zione
          sociale aggra­vata del patriar­cato». in che senso?
        La mili­ta­riz­za­zione raf­forza e con­so­lida a tutti
          i livelli il domi­nio patriar­cale. Per fun­zio­nare il
          sistema mili­tare neces­sita della sot­to­mis­sione degli
          uomini, che devono obbe­dienza asso­luta alla gerar­chia.
          Per­ché que­sti accet­tino la loro stru­men­ta­liz­za­zione,
          si per­mette loro di stru­men­ta­liz­zare le donne. Nei paesi
          dove da decenni ven­gono «espor­tate» le guerre, le basi e gli
          inter­venti mili­tari dei Cmi occi­den­tali, si con­cre­tizza
          nella pro­sti­tu­zione for­zata, negli stu­pri e nei
          fem­mi­ni­cidi, pra­ti­che tol­le­rate quando non
          auto­riz­zate uffi­cial­mente. Nella Repub­blica Demo­cra­tica
          del Congo, da anni le donne ven­gono siste­ma­ti­ca­mente
          vio­len­tate, tor­tu­rate, e uccise. L’obiettivo
          è trau­ma­tiz­zare la popo­la­zione locale e for­zarla
          all’esodo per sgom­be­rare il loro ter­ri­to­rio
          e per­met­tere a certi capi di stato afri­cani, e alle potenze
          occi­den­dali che li sosten­gono, di impa­dro­nirsi delle
          ric­chezze del sot­to­suolo. È per met­tere fine all’impunità
          di que­sti cri­mini che chie­diamo all’Onu l’istituzione di un
          tri­bu­nale penale inter­na­zio­nale per la Rdc che suc­ceda
          a quello del Ruanda in chiu­sura alla fine di quest’anno.


        Nella sua ana­lisi lei evi­den­zia come la
          vio­lenza sulle donne venga «reim­por­tata» nei paesi
          occi­den­tali attra­verso i sol­dati tor­nati dal fronte.
        Diverse ricer­che hanno dimo­strato che gli uomini che sono
          stati in guerra ten­dono a diven­tare più vio­lenti al loro
          ritorno nella vita civile. Dalle donne serbe, i cui mariti
          rien­tra­vano dai com­bat­ti­menti in Croa­zia e in Bosnia,
          alle irlan­desi sia di parte pro­te­stante che cat­to­lica,
          tutte hanno testi­mo­niato dell’apparizione di
          com­por­ta­menti vio­lenti e bru­tali da parte dei loro
          con­giunti di ritorno dalle ope­ra­zioni mili­tari. Ma c’è di
          più. Eser­ci­tare un’identità da adulto per un cit­ta­dino di
          una società mili­ta­riz­zata come la nostra signi­fi­che­rebbe
          porre il pro­blema delle spese mili­tari e delle guerre con
          una men­ta­lità respon­sa­bile, inter­ro­gare le auto­rità,
          opporsi, for­mare dei movi­menti per evi­tare i con­flitti
          armati e sra­di­care la vio­lenza. Ma la mag­gior parte degli
          uomini non lo fa, non solo per­ché sono socia­liz­zati fin
          dall’infanzia alla vio­lenza, ma anche per­ché si per­mette
          loro di domi­nare le donne. Il fem­mi­ni­smo ha fatto molto,
          ma la mili­ta­riz­za­zione impe­rante con­ti­nua a favo­rire
          la loro stru­men­ta­liz­za­zione come oggetti sessuali


        Lei rimette anche in discus­sione il dogma
          secondo il quale la spesa mili­tare favo­ri­rebbe la cre­scita
          eco­no­mica e au
        men­te­rebbe l’occupazione.
        Ricer­che di eco­no­mi­sti Onu e indi­pen­denti dimo­strano
          che la cre­scita eco­no­mica è inver­sa­mente pro­por­zio­nale
          alle spese mili­tari, meno gene­ra­trici di occu­pa­zione di
          altre spese pub­bli­che, in estrema sin­tesi più aumenta la
          spesa mili­tare tanto più cre­sce la disoc­cu­pa­zione, quella
          fem­mi­nile in pri­mis. Ora, quando la classe
          domi­nante vuole inde­bo­lire il potere di nego­zia­zione
          della classe domi­nata, non c’è niente di più effi­cace del
          ridurre l’occupazione, dato che la paura di per­dere il posto
          por­terà i lavo­ra­tori e i loro rap­pre­sen­tanti ad
          accet­tare il restrin­gi­mento dei loro diritti.


          Del resto, nella nuova divi­sione inter­na­zio­nale del
          lavoro, che ha gli stessi effetti e per­mette alle
          mul­ti­na­zio­nali di mas­si­miz­zare i pro­fitti con le
          delo­ca­liz­za­zioni, la vio­lenza mili­tare è onni­pre­sente
          tanto per repri­mere le rivolte dei con­ta­dini e ope­rai
          locali, che da noi quelle dei lavo­ra­tori che si ribel­lano.
          Que­sto «nuovo corso» dell’economia mon­diale, assi­cu­rato
          dai Cmi e dal capi­ta­li­smo finan­zia­rio, gene­rato dai
          gigan­te­schi pro­fitti accu­mu­lati dai grandi indu­striali
          dell’armamento e delle ban­che, resta sal­da­mente
          patriar­cale con moda­lità che vanno dallo sfrut­ta­mento
          inten­sivo delle ope­raie nelle «fab­bri­che glo­bali» alla
          crea­zione espo­nen­ziale e con­se­guente di nuove povere nei
          paesi indu­stria­liz­zati, pas­sando per la mise­ria che si
          pro­paga a tutte le donne del terzo mondo, visto
          l’indebitamento dei loro governi per la corsa al riarmo.


        La Fran­cia è stata la prima delle cin­que
          grandi potenze nucleari ad avere una mini­stra delle difesa
          nel 2002, da allora in diversi paesi euro­pei il numero delle
          mini­stre della difesa è in cre­scita. Cosa cam­bia con
          l’arrivo di que­ste donne nelle stanze dei bottoni?
        Nella sostanza nulla: il potere è ancora sal­da­mente nelle
          mani degli uomini del Cmi che con­ti­nuano a sce­gliere
          i migliori e adesso anche le migliori per i loro inte­ressi.
          La sicu­rezza reale richiede invece una poli­tica di
          giu­sti­zia sociale e inter­na­zio­nale e di abban­do­nare il
          para­digma della vio­lenza mili­tare come mezzo per risol­vere
          i conflitti.


        Come giu­dica la situa­zione attuale?
        Molto grave. La mili­ta­riz­za­zione delle nostre società ha
          assunto livelli mai visti, non ultimo il sistema di
          spio­nag­gio uni­ver­sale orga­niz­zato dalla Nsa. Arro­garsi
          il diritto di sor­ve­gliare tutti i cit­ta­dini del pia­neta
          è una dimo­stra­zione di forza del nuovo ordine mon­diale che
          non ammette altri modi di riso­lu­zione dei con­flitti al di
          fuori della vio­lenza mili­tare. Non è quindi un caso che la
          corsa al riarmo sia di nuovo in piena ascesa, soprat­tutto nel
          <TB>«terzo mondo». Chi arriva alla testa di quei paesi
          ha inte­rio­riz­zato il prin­ci­pio che per con­qui­stare
          e con­ser­vare il potere occor­rono le armi. Men­tre in tutte
          le cul­ture tra­di­zio­nali si era sem­pre pra­ti­cata la
          nego­zia­zione per evi­tare la guerra, come le pala­bres sotto
          i grandi alberi nei vil­laggi afri­cani, dove le discus­sioni
          si pro­trae­vano il tempo neces­sa­rio a tro­vare un accordo.
          Il colo­nia­li­smo ha spaz­zato via tutto questo.


        Quali sono allora i prin­cipi guida delle
          «cit­ta­dine mili­tar­mente scorrette»?
        Per cam­biare la società biso­gna par­tire da sé,
          com­por­tarsi con coe­renza, e cer­care solu­zioni dav­vero
          umane e demo­cra­ti­che. Quando i poli­tici pro­cla­mano la
          neces­sità d’intervenire mili­tar­mente in un altro paese
          per­ché la demo­cra­zia o i diritti umani sono in peri­colo,
          biso­gna mobi­liz­zarsi e tutto il pos­si­bile per­ché la
          nego­zia­zione sia ante­po­sta all’intervento mili­tare. Non
          si parte da zero, ma da quello che è già stato con­qui­stato
          in diritto inter­na­zio­nale, come la Carta delle Nazioni
          Unite che, se venisse appli­cata, sarebbe già un grande passo
          avanti.


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