[Nogelminispbo] (senza oggetto)

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Autor: Sean Patrick Casey
Data:  
Para: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Collettivo SPA
Asunto: [Nogelminispbo] (senza oggetto)
http://www.connessioniprecarie.org/2014/06/02/creare-e-organizzare-controegemonia-in-europa/

Creare e organizzare controegemonia in Europa

Undici luglio

Ci vediamo l’undici luglio. A fare cosa? Si suppone che l’appuntamento non
serva a pareggiare i conti per altre manifestazioni che non sono andate
proprio benissimo. Ci vediamo l’undici luglio per «dimostrare» che
l’opposizione sociale al regime del salario non accetta l’ulteriore
intensificazione dei processi di precarizzazione, di espropriazione e di
austerity. Descrivere correttamente la situazione non significa che si
sappia davvero che cosa fare contro la situazione. Oltretutto la pessima
situazione attuale non è nemmeno così difficile da descrivere. La domanda
è, allora, con chi ci vediamo l’undici luglio? Non basta, infatti,
registrare che le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone in
Italia sono sulla soglia e, in molti casi, sotto la soglia della
tollerabilità quando non della sopravvivenza. Poiché questa condizione non
è ormai una novità, la domanda che s’impone è la seguente: perché migliaia
di persone dovrebbero considerare quella scadenza come un momento
politicamente significativo in grado di modificare in qualche misura la
loro condizione? Perché precarie, operaie e migranti dovrebbero fidarsi di
un movimento del quale tutto si può dire tranne che goda ottima salute?
Perché i movimenti italiani ed europei dovrebbero puntare sul movimento?
Se l’undici luglio non vogliamo vedere l’istantanea dei militanti e degli
attivisti del movimento, forse un ragionamento è meglio farlo ora.

L’austerità non è finita, ma almeno a parole ora tutti sono contrari
all’austerity. Manca poco che anche la Signora Merkel e persino
l’indimenticato Herr Schäuble dichiarino che non è mai piaciuta nemmeno a
loro. Ora tutti possono essere contro l’austerity, perché ormai ha
prodotto i suoi effetti. Come una guerra mondiale, l’austerity ha
distrutto risorse umane e materiali, riaffermando violentemente le
posizioni che le leggi naturali del capitalismo prevedono per tutti e per
ciascuno. L’austerity ha prodotto le devastazioni di una guerra. L’ha
capito Renzi che ha inaugurato un linguaggio da epoca della ricostruzione,
pieno di speranza, di grandi aspettative e di buoni sentimenti. Il
comprensibile e profondo desiderio di veder finire la guerra
dell’austerità gli ha garantito un’apertura di credito di massa. Questo è
il significato profondo delle elezioni in Italia. Si può celebrare
speranzosi l’astensionismo, ma il significato politico delle elezioni in
Italia rimane questo lo stesso. Ciò non significa che quanto dice Renzi
sia vero, ma è stato creduto. D’altra parte non è nemmeno vero che
chiunque raggiunga il 40% dei voti possa rifondare la DC. C’è di diverso
che nessun partito può pensare di rappresentare nel suo complesso questa
società mobile e globale (
http://www.connessioniprecarie.org/2012/05/03/la-fine-della-societa/ ),
senza istituzioni interne credibili, cioè senza parroci, sindacati e
partiti anche comunisti in grado di stabilire la continuità sociale, né
tanto meno di coincidere con lo Stato. Meglio lasciare la pigrizia
politologica ai giornali e alle trasmissioni televisive e, sapendo che la
legittimazione politica non si misura solo in termini di consenso
elettorale, chiedersi che cosa significhi per i movimenti il connubio tra
un’ideologia della ricostruzione e un regime del salario ancora più feroce
e oppressivo.

Che cosa succede se la prima produce comportamenti e aspettative in grado
di fare accettare il secondo, presentandolo come il prezzo necessario per
un maggior benessere? Che cosa succede se il tempo del benessere viene
ancora una volta dilatato a favore del profitto? Che cosa succede se la
certezza promessa e creduta è il lavoro a ogni costo? Se il contesto sta
cambiando – e il contesto sta cambiando! – la nostra azione non può
rimanere uguale o peggio indifferente. Noi non abbiamo una coscienza di
classe da trasmettere ai proletari che hanno votato Renzi. Forse non ne
abbiamo abbastanza o forse il problema non è la coscienza. Non abbiamo
nemmeno una rabbia talmente indifferente nella quale trovare la certezza
della nostra azione. Il benevolo fantasma delle due società visita
periodicamente il movimento, per rassicurarlo che comunque c’è una parte
giusta ed è quella da cui stiamo noi. Un faticoso dibattito e molte
analisi avevano finalmente evidenziato che la precarietà non è solo un
fatto generazionale, che non riguarda solamente una parte, ma è ormai
diventata una condizione generale e globale di tutto il lavoro. Ora si
torna invece alla contrapposizione tra garantiti e non garantiti, che
riporta radicalmente indietro nel tempo il discorso sulla precarietà,
ricollocandolo lungo l’asse di un nesso del tutto obsoleto tra lavoro e
diritti e della contrapposizione tra lavoro e non lavoro.

Europa prende i voti

Pensare il «sistema» come rigidamente strutturato in parti contrapposte
semplifica in effetti le cose. È vero che c’è anche chi teneramente si
ostina a vedere nel grillismo un movimento antisistemico
(http://www.connessioniprecarie.org/2013/02/24/matrix-e-il-grillo-della-rappresentanza/
), differente ma simmetrico alla propria rabbia. Sul piano locale il M5s
ha perso perché ha sostenuto di voler continuare la guerra, dichiarando
per di più che la sua era «la guerra santa» contro tutto il male
esistente. Sul piano europeo la scommessa del M5s mostra invece la sua
uniformità con la parte peggiore del sistema politico. Il cosiddetto
euroscetticismo della destra europea non è altro che la pretesa di
chiudere la guerra dell’austerità, riaffermando l’Europa come ordine degli
Stati. Ogni Stato al suo posto e a ciascuno il suo Stato: onesto,
ordinato, produttivo e feroce con chi viola i confini nazionali, locali,
sociali, etnici o sessuali.

L’Europa deve invece essere costantemente assunta come presupposto di ogni
ragionamento e di ogni iniziativa di classe. Ciò non significa che basti
citarla all’inizio dei discorsi; significa che iniziative plausibili
possono solo partire e tornare al contesto europeo. Lasciamo stare che c’è
chi è assolutamente contro la rappresentanza dei movimenti in Italia, ma
si entusiasma quando avviene in Spagna nella forma di un sostanziale
radicalismo democratico. La lista Tsipras ha almeno individuato
chiaramente l’Europa come terreno di scontro e indicato, molto meno
chiaramente, il problema irrisolto del rapporto tra movimento e
istituzioni. Più che dare una risposta, quella lista ci lascia ancora una
volta di fronte alla necessità di processi e strutture che consolidino nel
tempo un potere capace di trasformare le singole rivendicazioni in
risultati duraturi, che traducano su un piano più vasto e incisivo
l’espressione politica del lavoro fuori dalla fabbrica e dal territorio.
D’altra parte, il successo di Syriza in Grecia – inspiegabile senza le
mobilitazioni degli ultimi due anni in particolare ad Atene e Salonicco –
ha avuto luogo in un contesto di attesa e di sostanziale calo
dell’iniziativa dei movimenti e mostra perciò la non linearità di questi
processi, e lo stesso si può dire della lista Podemos. Il terreno e il
problema coincidono sul piano europeo e non possono essere separati.
Tuttavia, visto che noi come molti altri non abbiamo intenzione di farci
rappresentare da un paio di persone, per quanto valenti (del terzo
rappresentante è meglio non dire), ci chiediamo come mai la lista Tsipras
abbia avuto un risultato in definitiva insoddisfacente e anche nelle aree
metropolitane, che dovrebbero essere il riconosciuto cuore pulsante del
conflitto sociale, il successo renziano sia stato tanto consistente. Se si
parlava con precarie e operai ci si sentiva dire chiaramente che mai e poi
mai avrebbero votato i burocrati di sinistra che, per limitarsi agli anni
della crisi, per loro hanno al massimo fatto i conti della cassa
integrazione, degli stage o dei corsi di formazione. Se e quando Renzi
andrà all’attacco di questa massa amorfa di funzionari di partitini di
sinistra e di burocrati sindacali, l’impressione è che operai, precarie e
migranti ghigneranno soddisfatti e non faranno niente per impedirlo,
nonostante le strida di lesa democrazia che si leveranno ovunque. È la
lotta di classe, bellezza. Una razza, una faccia: questi sono gli stessi
che in Italia hanno popolato la lista Tsipras e che ora si stanno
disputando le briciole di potere che potrebbe garantire.

Molte cose sono cambiate e probabilmente molte cambieranno: la vittoria di
Renzi non è il frutto di un’illusione delle menti semplici comperate per
80 € al mese. La nuova fase della politica europea con la prevedibile fine
dell’austerity come progetto ideologico complessivo segna un passaggio con
il quale è necessario fare i conti. Non sarà solo Renzi a praticare un
progetto egemonico che pretende di chiudere ogni spazio di scontro
politico grazie a una visione del futuro fondata sulla promessa di porre
fine all’incertezza. Lo Stato dell’Unione Europea, infatti, ha tutte le
intenzioni di stabilire in continuazione le condizioni di base
dell’accumulazione, compatibili con una produzione mobile, sempre pronta a
riqualificarsi, considerando gli effetti sociali di questa impostazione
come un prezzo necessario da pagare. Se la produzione è mobile, tocca ai
lavoratori inseguirla. Questo New Deal non annuncia trent’anni di
benessere, ma sostituisce la promessa del pieno impiego con la certezza
della piena occupabilità
(http://www.connessioniprecarie.org/2013/10/15/la-crisi-come-problema-politico/
). Si tratta di un progetto europeo da realizzare con atti concreti e
rapidi, a partire dallo smantellamento dei sindacati e da un attivismo
dello Stato, e ancor più probabilmente dell’Unione Europea, come mediatore
di parte nella gestione dei conflitti che rischia di ostacolare sempre più
decisamente anche l’iniziativa dei sindacati «conflittuali». L’Unione
Europea funziona oggi come uno strumento mobile, difficile da controllare
e pieno di contraddizioni, ma in grado di essere mobilitato in modo
differenziale per imporre blitz capaci di mutare stabilmente gli equilibri
all’interno degli Stati membri. Non si tratta tanto di un super-Stato
rapace, quanto di uno strumento all’altezza delle politiche neoliberali
nelle quali le istituzioni nel loro complesso giocano un ruolo decisivo,
ma non esclusivo, nell’intervenire all’interno di contesti in rapido
cambiamento. Per citare solo due esempi, la ristrutturazione greca e
l’attivismo europeo negli Stati dell’Est, che da anni sono l’epicentro di
una costante reindustrializzazione il cui carattere è immediatamente
globale, sono due facce di questa trasformazione: non si può vederne una e
dimenticare l’altra, anche se meno appariscente e più difficile da
decifrare. Pensare alle politiche europee semplicemente come attuazione
delle volontà del mercato è solo una mezza verità. È questo che rende oggi
l’Unione Europea, e non solo l’Europa, un terreno di scontro mobile e di
frontiera, del quale sarebbe esiziale pensare di potersi liberare
abbattendolo come fosse un castello di carte. Da questo punto di vista
l’affermazione dell’euroscetticismo rischia di funzionare più come spinta
ad accelerare questa tendenza che come suo blocco.

Controegemonia

In questo quadro le geografie nazionali sono un punto di partenza
piuttosto debole se l’obiettivo è di produrre un’organizzazione capace di
essere espansiva, pensata su un piano strategicamente globale e perciò ben
al di là dei confini delle fabbriche, dei quartieri, dei territori o dei
grandi eventi, in cui un manipolo di ministri finisce per essere
riconosciuto come la controparte dei movimenti, con buona pace della
critica della rappresentanza. La geografia europea e le sue trasformazioni
sono invece l’unico orizzonte possibile per articolare una politica
controegemonica all’altezza del cambiamento che abbiamo di fronte. In
questo contesto è necessario rafforzare le reti europee di iniziativa
nonostante anche nell’esperienza più recente abbiano mostrato la propria
insufficienza e talvolta persino la propria inconsistenza. Ciò vale
evidentemente anche per la rete Blockupy della quale facciamo parte, che
non può essere la palestra per la costruzione di percorsi organizzativi
parziali, in sé assolutamente legittimi ma che rischiano di bloccare
l’espansività dell’esperimento. Si tratterebbe invece di coinvolgere anche
chi finora non ha ritenuto politicamente opportuno praticare quel piano
europeo. Blockupy riuscirà a farsi vedere davvero l’undici luglio nella
misura in cui il piano di lotta che propone penetra come opportunità e
come problema dentro a quella scadenza e non tanto se Blockupy partecipa
come una rete tra le altre.
A noi pare che sia il momento di attraversare i luoghi della militanza
politica o delle organizzazioni di movimento per andare oltre i loro
limiti attuali. Di fronte a un progetto egemonico che si sta delineando su
scala europea si tratta di cominciare a pensare e a praticare percorsi di
controegemonia con la prospettiva di strutturarli nel tempo. Ciò deve
avvenire prima di tutto sul piano del discorso, abbandonando formule e
riferimenti apparentemente sicuri. Se la nuova logistica europea si
configura sotto il segno della mobilità, se l’Europa continuamente usa e
disfa i confini degli Stati nazione per organizzare corridoi regionali e
zone speciali di sfruttamento
(http://www.connessioniprecarie.org/2013/11/21/solo-austerity-leuropa-senza-principi-e-la-politicizzazione-della-poverta/
), allora è quanto mai urgente essere all’altezza di questo nuovo livello
di complessità politica e istituzionale. Dentro a questo scenario
qualsiasi coalizione per quanto aperta e qualsiasi pretesa polarizzazione
del conflitto, o ricomposizione conflittuale che non mette in primo piano
la produzione di un discorso controegemonico, resta un modo reattivo di
contrapporsi che rischia di riconoscere esistenza al movimento solo quando
lo scontro frontale con le istituzioni lo rende possibile.

Praticare la controegemonia non è possibile senza pensare dentro a un
processo. Controegemonia significa prima di tutto produrre un discorso
politico potente ed espansivo, capace di affermare in modo radicale che,
se non sarà il piano istituzionale europeo e tanto meno quello nazionale a
risolvere il problema, si tratta comunque di piani che intervengono in
maniera determinante nella produzione delle soggettività. Quello che
abbiamo chiamato il regime del salario
(http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/18/il-regime-del-salario-1-voucher-ovvero-del-lavoro-accessorio-ma-non-occasionale/
,
http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/25/il-regime-del-salario-2-naspi-ovvero-del-triste-tramonto-del-welfare/
,
http://www.connessioniprecarie.org/2014/06/03/il-regime-del-salario-3-job-sharing-e-baby-sitting-voucher-la-conciliante-precarieta/
) sta imponendo la ridefinizione complessiva delle modalità con cui si
verrà messi al lavoro nei prossimi anni. Visto su un piano realmente
europeo, il regime del salario mostra in alcuni contesti i caratteri di
una precarizzazione forzata, assumendo il senso di una perdita rispetto a
un catalogo di diritti che si credevano acquisiti. Altrove, esso assume la
forma di una nuova rosa di possibilità per entrare nel mondo del lavoro
lontani da un’idea di disciplina quotidiana, stabile e misurata, di cui
nessuno ha nostalgia, come mostra ad esempio l’elevato turnover che si
riscontra nei siti produttivi dell’Europa orientale. Non va dimenticato,
inoltre, che centinaia di migliaia di giovani lavoratori e lavoratrici
stanno entrando ora nel cosiddetto mondo del lavoro europeo, senza aver
mai conosciuto ciò che si presume essere sotto attacco. Di fronte a tutto
questo la sola rivendicazione di un reddito è una cosa poco incisiva, che
non modifica la quantità e la qualità del tempo di chi è comunque
sottomesso quotidianamente al quel regime.

Se questa è la direzione che sta prendendo il nuovo welfare su scala
europea, ogni rivendicazione che muova dalla povertà e dai bisogni rischia
di essere poco più che la certificazione della nostra debolezza, ma anche
di ancorare la politica dei movimenti alla magra pretesa della
riproduzione di una vita immiserita. Il nuovo welfare sta già diventando
una specifica modalità di governo del lavoro e della sua mobilità,
elargito attraverso una gestione oculata e orientata al profitto della
libertà di movimento dentro e attraverso lo spazio di Schengen
(http://www.connessioniprecarie.org/2014/03/20/movimenti-deuropa-problemi-e-opportunita-del-nuovo-governo-del-lavoro/
). Se, come avviene ogni giorno nei paesi virtuosi dell’Europa
settentrionale, il prezzo del welfare è l’espulsione di migranti
comunitari
(http://www.connessioniprecarie.org/2014/01/12/un-caso-politico-intervista-a-silvia-guerra-europea-italiana-espulsa/
) e non, ovvero una nuova nazionalizzazione della cittadinanza europea,
una politica dei movimenti non può limitarsi a chiedere briciole ai
governi nazionali al prezzo di nuove gerarchie, ma deve essere in grado di
accettare la sfida che la mobilità del lavoro impone.
Ciò significa che mai come ora è urgente porsi all’altezza delle lotte dei
migranti dentro e fuori l’Europa. Non solo perché il governo del lavoro
migrante è stato ed è tuttora il modello del governo del lavoro sul piano
europeo, e neppure soltanto perché i migranti hanno avuto la capacità di
lottare contro i regimi di sfruttamento e oppressione che quel modello
impone. Essere all’altezza delle lotte dei migranti significa pensare
all’organizzazione a partire dalla mobilità degli individui al lavoro.
Significa riconoscere che il radicamento territoriale, locale o nazionale
di ogni organizzazione è necessariamente insufficiente se precarie, operai
e migranti continuamente si muovono da un posto di lavoro a un altro, da
un territorio a un altro, mentre le catene globali dello sfruttamento si
dispiegano sistematicamente attraverso i confini. Per questo è necessario
aspirare a una dimensione paneuropea delle lotte: non semplicemente la
somma di occasioni locali di conflitto connesse in una singola data o
settimana di mobilitazione, ma un’iniziativa politica radicalmente
innovativa capace di colpire simultaneamente luoghi strategici di quelle
catene globali.

Un discorso egemonico è tale solo quando è riconosciuto anche da chi non
partecipa direttamente alla sua pratica. Un discorso controegemonico non
può affidarsi solo alla riaffermazione della realtà, cioè alla
dichiarazione reiterata che l’austerità c’è ancora e continua a produrre i
suoi devastanti effetti. Soprattutto se questi effetti descrivono solo un
pezzo di ciò che sta cambiando. Cosa diciamo l’undici luglio oltre
l’austerità, cioè alla fine di una guerra che abbiamo sostanzialmente
subito e che ha distrutto l’esistenza di milioni di proletarie e
proletari? Un discorso che semplicemente dice che la speranza è falsa ha
poche probabilità di essere ascoltato. Il contrario di speranza rischia di
essere disperazione. Come facciamo vedere l’undici luglio che andiamo
oltre questa realtà europea fatta di molta speranza e di molta
disperazione? Varrebbe la pena far vedere l’undici luglio che siamo in
grado di produrre pratiche egemoniche che si basano sulla forza del nostro
discorso, almeno fino a quando non potremo fidarci davvero del discorso
della nostra forza.