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Aihe: [autorgstudbo] Il regime del salario 3. «Job sharing» e «baby-sitting voucher»: la conciliante precarietà
http://www.connessioniprecarie.org/2014/06/03/il-regime-del-salario-3-job-sharing-e-baby-sitting-voucher-la-conciliante-precarieta/

Vedi anche Regime del salario 1 (
http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/18/il-regime-del-salario-1-voucher-ovvero-del-lavoro-accessorio-ma-non-occasionale/
) e 2 (
http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/25/il-regime-del-salario-2-naspi-ovvero-del-triste-tramonto-del-welfare/
)

Il regime del salario 3. «Job sharing» e «baby-sitting voucher»: la
conciliante precarietà

di Lavoro Insubordinato

La conciliazione tra tempi di vita e di lavoro per le donne è stato uno
dei discorsi che hanno più esaltato il lato positivo della flessibilità
come strumento indispensabile per garantire una realizzazione personale
che non implichi semplicemente l’imitazione del modello maschile. Nei
fatti, però, questo ha significato sempre per le donne essere messe al
lavoro in una posizione subordinata. Che siano grate se qualcuno si
preoccupa della «conciliazione» del doppio carico di lavoro che il
patriarcato, in queste forme aggiornate e politicamente corrette, continua
ad attribuire loro! In un contesto di precarietà generalizzata, in cui è
sempre più difficile progettare autonomamente un futuro, le misure che
pretendono di favorire la conciliazione rivelano la loro vera natura, cioè
la precarizzazione del lavoro, dentro e fuori dal welfare, per le donne
come per gli uomini.

Job sharing

Il lavoro ripartito, detto anche «job sharing», è uno degli strumenti che
viene proposto per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro, un perfetto
esempio di precarietà in cui la giornata lavorativa invece di una guerra
civile secolare diventa un’estenuante contrattazione quotidiana. In
termini psicanalitici si potrebbe classificare come disturbo della
personalità multipla con particolare riferimento a «Gollum», noto a molti
quale emblema della personalità schizzoide. Introdotto in America negli
anni ’60 e in Italia nel ’98 con il «Pacchetto Treu» e utilizzato in quasi
tutto il mondo anche se con discipline diverse all’interno di ogni paese,
il «lavoro ripartito» rende possibile una situazione in cui due lavoratori
sono conteggiati come un’unica unità lavorativa nella forza lavoro
dell’azienda alla ricerca del proprio «tessoro» quotidiano: un salario.

Visto che pare offrire la possibilità di gestire un orario flessibile
concordato con il proprio collega, quest’ambigua forma contrattuale si
presenta apparentemente come favorevole anche per quelle lavoratrici che
si trovano costrette a conciliare tempi di vita e tempi di lavoro. Non
stiamo parlando però del classico cambio turno. Qui più lavoratori,
solitamente due, partecipano di un unico contratto di lavoro: si dividono,
cioè, un contratto full-time svolgendolo ciascuno un part-time. Peccato
che gli «sgravi temporali» a favore dei lavoratori in questa forma
sperimentale di conciliazione si traducano soprattutto in sgravi fiscali a
favore dei padroni. Il vantaggio economico è, infatti, tutto dalla parte
del datore di lavoro, come accade per tutti i contratti di lavoro in
generale e in particolare per i contratti atipici. I padroni trovano,
infatti, nel job sharing una soluzione vantaggiosa sia dal punto di vista
del risparmio sui costi contrattuali, visto che così hanno a disposizione
due lavoratori al prezzo di uno, sia dal punto di vista dell’intensità del
lavoro e della produttività, incrementata dalla garanzia della copertura
totale della giornata lavorativa e dalla riduzione dell’assenteismo per
malattia: il dipendente malato deve essere sempre sostituito dal collega.

Ma cosa succede se uno dei due si dimette o viene licenziato? Il contratto
si risolve anche per l’altro dipendente, se questi non si rende
disponibile a trasformare il proprio in un rapporto a tempo pieno. La
lavoratrice o il lavoratore ha comunque la facoltà di indicare, previo
consenso del datore, un’altra persona con la quale condividere il
contratto assumendosi così anche l’improbabile ruolo di addetto al
personale.E che cosa ne sarà del contratto se poi il datore di lavoro non
gradisce il sostituto? I vantaggi per lavoratori e lavoratrici si riducono
insomma in una flessibilità solo parziale nella gestione dei tempi di
lavoro che, in ogni caso, sono prestabiliti dal contratto il quale deve
riportare la percentuale ripartita della prestazione da svolgere e la
collocazione temporale dell’attività. Anche se è data ai lavoratori la
possibilità di modificare in qualsiasi momento quella percentuale, gli
stessi devono informare con cadenza settimanale il datore di lavoro sulla
distribuzione dell’orario. Lavoratori e lavoratrici ripartiti si trovano
così ad aver a che fare con un doppio vincolo: il padrone da un lato e il
collega dall’altro in un gioco di quotidiani accordi tra le parti.
L’apparente armonizzazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro per
lavoratori e in particolare lavoratrici è in realtà una nuova forma di
governo della forza lavoro in cui il datore di lavoro, completamente
deresponsabilizzato, può stare a braccia conserte mentre i lavoratori non
solo lavorano per lui ma fanno il suo lavoro, sono gli addetti al
personale di se stessi e hanno persino le responsabilità del padrone ma
solo nei termini, sia chiaro, della gestione del proprio sfruttamento.

Voucher per baby-sitting

Un’altra modalità di gestione della conciliazione di tempi di vita e di
lavoro viene direttamente dall’Inps e riguarda il congedo parentale
post-maternità. Si tratta della sperimentazione relativa ai voucher per
servizio di baby-sitting. L’Inps offre, per ogni mese in cui una donna
rinunci al congedo parentale, 300 euro in voucher per pagare le spese di
baby-sitting. In questo modo la lavoratrice può presto tornare al lavoro e
il padrone è sgravato di quel 30% della quota di congedo parentale che
dovrebbe pagare. Questo a spese di chi lavorerà come baby-sitter in
maniera del tutto precaria e con un misero salario. Il sistema dei voucher
o «lavoro occasionale accessorio», un fenomeno in grandissima crescita
negli ultimi anni, implica infatti un lavoro ormai compiutamente mobile e
intermittente. Si tratta di un puro scambio denaro-lavoro senza nessun
diritto da contrattare e in cui la misura del salario è lasciata
interamente alla decisione di chi offre i voucher a fronte della
«necessità» di chi li riceve. La precarizzazione del lavoro si conferma,
così, la strada che il pubblico batte per tappare, in maniera
intermittente e parziale, i buchi del welfare. In tutto questo, salvo è il
risparmio da parte dei padroni, che rimane la costante tanto nel job
sharing quanto nei voucher.

Entrambe le forme di lavoro mostrano che sempre più il lavoro, in modo
particolare quello in cui finiscono per essere subordinate le donne,
assume forme frammentate. L’attuale regime del salario impone una ricerca
di molti piccoli lavori per comporre il salario necessario a vivere. Il
regime dell’occupabilità
(http://www.connessioniprecarie.org/2013/10/25/guida-per-gli-occupabili-del-nuovo-millennio/),
a cui il governo Renzi ha spalancato le porte, sembra modularsi su una
grottesca rilettura del principio del «lavorare meno, lavorare tutti», con
l’aggiunta però che dove si lavora meno lo si fa al prezzo di un più
feroce sfruttamento e di un salario tutto da collezionare. Un vero e
proprio «tessoro».

Se è vero che queste presunte forme volte a favorire la conciliazione tra
vita e lavoro si inseriscono nella nuova configurazione del regime del
salario, esse dimostrano contemporaneamente chein questo processo di
ristrutturazione del welfare e scomposizione del lavoro sono sempre e
comunque donne quelle che, per definizione, sono destinate a svolgere le
funzioni riproduttive. Come dimostrano le donne migranti che lavorano come
«badanti» nelle case: donne che lavorano per rendere possibile l’autonomia
di altre donne. Così nella pagina Inps la sperimentazione voucher è tutta
declinata al femminile: sono le madri le beneficiarie così come è scontato
che le «prestatrici» dei servizi di baby-sitting siano a loro volta donne.
Si dirà che questo significa favorire la conciliazione, mentre dà per
assodato che le donne siano in una posizione di svantaggio che deve essere
colmata, ovvero che il lavoro riproduttivo sia una loro competenza
pressoché esclusiva.