Date: Fri, 6 Jun 2014 11:06:47 +0200
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Subject: [nowaroma] MUOS-armamenti,intervista al Gen. Mini
x conoscenza
Dal Muos all’industria degli armamenti, una riflessione
Intervista con il generale Fabio Mini a proposito
delle basi militari Usa in Italia, la potenza cinese e il potere dei
conglomerati industriali degli armamenti
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di Carlo Cefaloni - CittàNuova
L’installazione a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, del M.U.O.S. (Mobile User Objective System) è
destinata a creare notizia, secondo le leggi prevalenti
dell’informazione, solo con la cronaca delle proteste della popolazione.
Da tutta la Sicilia movimenti di diversa estrazione e gente comune si
danno appuntamento nel bosco del parco naturale della sughereta del
niscemese per manifestare contro la messa in funzione delle potenti
antenne del sistema di telecomunicazioni satellitare della marina
militare statunitense. Nonostante la guerra di carte bollate del
sindaco Francesco La Rosa davanti alla magistratura amministrativa, la
questione sembra chiusa in maniera definitiva con lo studio
dell’Istituto superiore di sanità che minimizza i pericoli della salute
di un impianto già in funzione dal 1991. «Continueremo a vigilare» è
stata la conclusione del governo all’interpellanza di una deputata
siciliana, Venerina Padua, che, da medico pediatra, ha sollevato
obiezioni confermate da altri esperti accademici.
Non stiamo tuttavia, come ha affermato il generale Fabio Mini in
un recente dibattito, davanti ad una questione che si fa gestire ad un
messo comunale. Non sarà la notifica di un’ingiunzione municipale a
intimorire il comando dell’esercito della superpotenza Usa che governa
le sue numerose basi in Italia in conformità ad un trattato siglato nel
1953 che nessuno ha mai messo in dubbio o aggiornato.
Andiamo alle radici
della sovranità sul territorio italiano che il caso Muos evidenzia,
grazie all’intervista che ci ha concesso lo stesso generale Mini che,
come è noto, ha un notevole curriculum perché ha comandato tutti i
livelli di unità da combattimento e ha prestato lunghi periodi di
servizio negli Stati Uniti, in Cina, nei Balcani e nella Nato. È stato capo di stato maggiore del comando alleato del sud Europa e comandante
della forza internazionale di sicurezza in Kosovo. Ora è consigliere
scientifico di alcuni centri di ricerca sulla sicurezza e collabora con
le riviste e i quotidiani del gruppo «l’Espresso», tra cui il periodico
di geopolitica “Limes”. Autore di testi importanti e approfonditi che
rivelano una notevole libertà di analisi come La guerra dopo la guerra (2003), Soldati (2008), Mediterraneo in guerra (2012), La guerra spiegata a… (2013) e Perché siamo così ipocriti sulla guerra (2013). Significativo il fatto che abbia curato la pubblicazione di un testo nel 2005 “Guerra senza limiti”
scritto da strateghi militari cinesi che citano non solo Machiavelli ma
anche un altro italiano poco conosciuto fuori dall’ambito militare, il
teorico del “dominio dell’aria” Giulio Douhet.
È
concepibile realisticamente un‘alternativa alle condizioni definite nei
trattati del 1953 sulle basi militari statunitensi in Italia ?
«L’alternativa esiste ed
è auspicabile perché al mondo non saremo mai pari se non chiediamo il
rispetto della nostra dignità. Altrimenti non solo siamo considerati dei
servi, ma giudicati anche male come tali.Come Paese,
considerando la nostra tradizione e cultura, non siamo secondi a nessuno
e ricevere questo trattamento da chi si propone come alleato e pretende
lealtà e amicizia è quasi offensivo. L’alternativa è di natura
politica e, in questo senso, esiste quando le regole dettate dagli
altri non vengono accettate supinamente, ma almeno dopo aver formulato
delle domande. Per molti anni ho lavorato nell’ambito della Nato e con
gli stessi americani. Devo dire che essi riconoscono i diritti di
dignità e di sovranità quando conoscono e stimano le persone con cui
hanno a che fare, altrimenti non fanno neanche finta di porsi il
problema. Se tali istanze di elementare amor proprio non emergono nel
rapporto, la questione non si pone».
E quali sono le domande da porre?
«Ad esempio, sul perché
del posizionamento delle basi o delle antenne. Quali esigenze di
sicurezza, non solo Usa ma anche italiane, giustificano tali scelte
strategiche. Nessuno in Italia, né al livello politico e, meno che mai, a
quello tecnico-militare, ha mai posto una questione così semplice. A
questo punto sembra davvero inimmaginabile tornare indietro sul
posizionamento delle antenne Muos. Dovremmo spiegare cosa è cambiato
negli ultimi 5 anni rispetto al posizionamento della base di
tele-comunicazioni presente sullo stesso territorio da oltre 50 anni. La
natura del servizio svolto dalle precedenti strutture era di
equivalente portata strategica, in relazione ai tempi e alla situazione.
E così come non abbiamo fatto domande sulle conseguenze delle
esposizioni alle onde elettromagnetiche sulla popolazione o sul rischio
che il nostro Paese correva nell’ospitare strutture che riguardavano
soltanto gli Stati Uniti. Allo stesso modo, non abbiamo fatto domande
sui rischi derivanti dalle nuove strutture del Muos».
Ma non
potremmo dire, in generale come lei dimostra nel testo “Mediterraneo in
guerra”, che la stessa politica delle basi non si giustifica nel nuovo
contesto geopolitico?
«Senza
il crollo del blocco ex sovietico la situazione si sarebbe perpetuata
secondo una certa logica della deterrenza destinata a perpetuarsi
all’infinito (o meglio all’indefinito) ma con gli eventi del 1989 – 90
sono cambiati tutti i parametri della politica estera, militare, di
sicurezza e di difesa. Abbiamo, per un certo verso, minori certezze
perché non c’è più una guerra (anche se fredda) apertamente dichiarata
tra blocchi contrapposti. Tuttavia, non esiste una manifestazione di ostilità tale da giustificare una posizione ideologica. Come
ho messo in evidenza nel dibattito sulla base di Vicenza, oggi non ha
senso il mantenimento di un tale avamposto quando gli avamposti si sono
ormai spostati ad Est con il consenso dei nuovi governi. Gli Stati uniti
hanno portato avanti la politica delle basi con i Paesi che hanno perso
la guerra, esercitando perciò quella supremazia sugli sconfitti che si
manifesta da sempre, fin dal tempo delle guerre del Peloponneso, in
maniera non solo e non tanto punitiva quanto pragmatica e fisiologica»
Si può dire che, nel caso concreto, abbiamo avuto a che fare con una proposta Usa impossibile da rifiutare…
«In realtà non c’è stata
neppure una proposta. Gli Stati Uniti hanno ritenuto di poter fare in
Italia ciò che hanno voluto. Come sempre. Sul piano formale hanno fatto
passare le nuove strutture, come un adeguamento tecnologico delle
vecchie. Sul piano sostanziale ci hanno fatto credere che il Muos
servirà anche la Nato e la difesa dell’Italia. E come sempre ci abbiamo
voluto credere. Come se fossimo gli sconfitti della Seconda guerra
mondiale o, peggio, i traditori. Non ci si vuole rendere conto che oggi è
cambiato tutto: gli Stati Uniti non sono più i vincitori assoluti,
anzi, da 50 anni a questa parte hanno fallito tutte le guerre e hanno
riversato la loro aggressività sul piano economico e finanziario come su
quello politico. Ma anche in questo caso molto dipende
dall’atteggiamento di chi deve subire e non si concede neanche il
diritto di porre delle domande. Negli ambiti internazionali viene
apprezzato proprio chi pone domande ragionevoli come espressione di
sovranità e dignità. Invece, specie in ambito militare, nei rapporti con
la Nato noi italiani abbiamo avuto dei rappresentanti costretti a
tacere perché privi di guida politica, perché platealmente schierati con
gli interessi americani o perché incapaci perfino di capire l’oggetto
della discussione per mancanza di preparazione tecnica o di adeguata
conoscenza adeguata della lingua inglese. Ad un certo punto, nel 90-91,
la Nato, dovendo rispettare il modello decisionale che prevede il
consenso unanime di tutti i membri nelle decisioni importanti, ha deciso
di adottare il criterio del “silenzio assenso” che si sposa alla
perfezione con coloro che restano zitti e, quindi, acconsentono a tutto. Si
è trattato di una rivoluzione procedurale importante che ha tolto di
mezzo ogni ostacolo e imbarazzo. Così è passato il Muos, l’allargamento
della base di Vicenza, lo spostamento del comando navale Usa a Napoli,
la ristrutturazione e potenziamento delle altre basi italiane e così
via».
Siamo rimasti, quindi, una piattaforma aereo navale per la guerra…
«È stata finora la
configurazione migliore per una penisola nel Mediterraneo come base
operativa e logistica, pensiamo alla sede ideale assicurata in Sardegna
per la manutenzione dei sommergibili a propulsione nucleare e lo
stoccaggio di armi e munizioni. Altre basi situate in Grecia e Turchia
erano molto più problematiche ed esposte a pericoli. Inoltre, in Italia
le basi statunitensi non sono mai state veramente contestate dalla
popolazione. Non c’è mai stata una crisi simile a quella di
Okinawa che da anni contesta aspramente la presenza americana o una
crisi simile a quella spagnola o delle Filippine che, addirittura,
fecero chiudere le basi stranere. Di fatto, sono cresciuti movimenti contrari alle basi in Sardegna quando gli americani avevano già deciso di andarsene via.
Oggi il costo delle basi
è un problema serio, perché gli americani avrebbero la convenienza a
chiuderle quasi tutte ma trovano Paesi che si oppongono perché piccole
realtà locali vivono sull’indotto dell’attività delle basi militari. Nel
vicentino, ad esempio, la presenza americana non è vitale per
l’economia locale, ma fa comodo ai pochi operatori inseriti nel circuito
logistico della caserma Ederle che ormai ha solo la funzione di dare
ospitalità e sicurezza alle famiglie di militari che sarebbero meglio
predisposti operativamente spostando la sede nell’Est dell’Europa».
Eppure la base è stata estesa nonostante una certa opposizione popolare…
«Anche quando esistono,
tali manifestazioni di dissenso sono scoordinate perché il problema
delle basi è delle nazioni che le ospitano e non degli americani.
L’Italia con i suoi governi non ha mai sollevato obiezioni, anzi ha
rassicurato i vertici statunitensi. Ha poco senso la manifestazione
della popolazione locale contro gli Usa che legittimamente possono dire:
“Rivolgetevi al vostro governo”».
Non le
sembra che, nonostante tutto, tali basi militari rimangano anche perché
sono un presidio, nel disordine globale, contro nuovi possibili
conflitti? Come interpretare, ad esempio, la crescita, anche di potenza
bellica, della nuova potenza cinese?
«La minaccia di un
intervento cinese è uguale a zero. Si agitano cose che non esistono.
Studio la politica cinese da 30 anni e sempre più mi convinco che la
loro formidabile crescita economica non ha bisogno di esercitare la
forza per cambiare gli equilibri mondiali. L’uso dello strumento bellico
in Europa o altrove è fuori dai loro piani. In continuità con la loro
antica cultura, i vertici cinesi vogliono essere l’ago della bilancia,
non il piatto. Preferiscono segnalare la mancanza dell’equilibrio che
qualcun altro dovrà rimettere in sesto. Ormai la Cina dei conglomerati,
di Stato e privati, esprime un potere economico di primo livello sui
mercati finanziari e nel settore delle grandi infrastrutture.
Emblematica la loro strategia di presenza nel continente africano. E in
tema di minacce, sento di poter dire che assolutamente neanche la Russia
esprime un pericolo militare reale».
In tale quadro, quindi, come si giustifica la stazione satellitare di Niscemi?
«Il Muos ha una valenza
strategica globale che nessuna altra base statunitense in Italia
possiede, perché è uno dei quattro siti mondiali che permettono il
controllo delle operazioni terrestri, aeronavali e satellitari a
distanza. Ma si tratta di qualcosa che va oltre lo strumento necessario
alla movimentazione delle truppe di terra, di aria e di mare. Il Muos è
il pilastro nel controllo di tutto il sistema delle comunicazioni in
generale, dei traffici mercantili assicurati dalle navi e dagli aerei
civili. Lo strumento militare esprime solo una minima parte della
potenza di un Paese che è costituito dal controllo delle informazioni».
Introdotta
l’analisi del contesto generale, arriviamo alla domanda fondamentale:
perché il Muos è stato messo proprio in Sicilia?
«Certamente il Muos si
poteva costruire da un’altra parte, ma il costo sarebbe lievitato di
qualche milione di dollari, un’inezia per il bilancio della difesa
statunitense, e l’amministrazione pubblica italiana non ha espresso
alcuna obiezione, tanto più che l’operazione è rientrata in un
adeguamento tecnologico di un impianto già presente da anni e quindi in
linea con il trattato vigente sulle basi. Resta comprensibile il timore
degli abitanti del posto per eventuali attacchi provenienti non da altri
Stati, non esistono realtà statuali in grado di minacciare le basi Usa,
ma da organizzazioni terroristiche. Gli “stati canaglia” sono tutte
invenzioni che cambiano a seconda delle strategie».
In che senso?
«Basta osservare i
movimenti degli interessi delle grandi industrie, con l’esercito dei
loro mercenari, basta vedere il loro spostamento geografico per
aspettarsi il deflagrare di nuovi conflitti nelle aree interessate con
il sorgere di formazioni terroristiche che legittimano nuovi interventi
militari».
Alla radice
non è stato decisivo il nuovo concetto di difesa che è stato acquisito
anche in Italia senza un vero dibattito, e cioè la necessità per i
nostri eserciti di intervenire in ogni luogo dove gli interessi comuni
vengono minacciati?
«Se ci consideriamo
parte di un’alleanza, l’interesse comune deve essere perseguito con il
concorso di tutti. Ma questo non è il nostro caso perché da oltre 60
anni, nel complesso, Nato o meno, i Paesi stanno perseguendo gli
interessi di una sola parte, e cioè degli Usa, con evidenti conseguenze
sulla sovranità degli altri Stati ai quali va l’onere di dover inventare
continuamente delle giustificazioni per sempre nuove avventure. Con una
visione più equilibrata degli interessi comuni, Bush non avrebbe compiuto le operazioni in Iraq e in Afghanistan nel
modo che conosciamo e che ha provocato nuove e persistenti instabilità.
Dobbiamo rivedere il significato stesso di interesse nazionale e
internazionale di sicurezza e stabilità, che non può coincidere con
nuove guerre e nuove instabilità. Non è affatto semplice e risolutivo
cambiare un sistema che si conosce con un nuovo assetto che si ignora
del tutto. Bisognava pensarci due volte prima di passare da Mubarak ai “Fratelli musulmani”
che hanno una strategia di egemonia su tutto il mondo arabo. E così si
può dire per tutta la strategia orientata a rimuovere gli autocrati
laici, come il caso della Siria, senza avere
l’alternativa di un’opposizione altrettanto laica e con il rischio dello
sfascio e sofferenze indicibili per la popolazione civile. Lo stesso
sta avvenendo in Libia».
Proprio
parlando di interessi nazionali e strategie belliche, non è paradossale
che l’Italia abbia partecipato alle operazioni di combattimento in Libia
senza che l’opinione pubblica, tranne poche testate giornalistiche come
Città Nuova, avvertisse la partecipazione del Paese ad una guerra che
ha visto gli stessi nostri vertici militari molto dubbiosi?
«Sembra, in effetti,
prevalere l’idea di una nostra pretesa estraneità ad eventi che ci
vedono coinvolti direttamente, quasi fossimo dei testimoni inconsapevoli
e invece siamo partecipi di questa fase di instabilità di un pianeta
che non ha trovato il suo equilibrio. L’intervento nei singoli conflitti
locali sta provocando una serie di ferite che stanno dissanguando il
mondo senza operare cambiamenti duraturi».
Ma negli Usa non esiste un filone di pensiero critico nei confronti dell’attuale strategia globale?
«Esiste certamente una
parte orientata a cambiare il tipo di intervento nel mondo riducendo le
spese militari essenzialmente per contenere e risparmiare sui costi.
Allo stesso tempo emerge anche una posizione critica che chiede di
rivedere lo strumento militare nel complesso di una visione politica
alternativa. È del tutto evidente che una posizione del genere, anche
quando è sostenuta dal presidente degli Usa, deve scontrarsi con i
poteri prevalenti delle grandi industrie. Si tratta di enormi
conglomerati che non obbediscono più a nessuno. Si può dire che non
hanno più un Paese di riferimento».
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