[Nogelminispbo] Il regime del salario 2: Naspi, ovvero del …

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Auteur: Sean Patrick Casey
Date:  
À: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Collettivo SPA
Sujet: [Nogelminispbo] Il regime del salario 2: Naspi, ovvero del triste tramonto del welfare
http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/25/il-regime-del-salario-2-naspi-ovvero-del-triste-tramonto-del-welfare/

Il regime del salario 2: Naspi, ovvero del triste tramonto del welfare

di LAVORO INSUBORDINATO

C’era una volta il progetto di mettere al lavoro l’intera società italiana
senza eccezioni e senza possibilità di sottrazione. Nel 2001 l’allora
ministro Maroni in un celebre libro bianco proponeva una «società attiva e
una nuova qualità del lavoro». Dopo quasi 15 anni di lotte e di resistenze
quel progetto sembra oggi realizzarsi grazie al nuovo regime del salario
che il governo Renzi sta progressivamente instaurando. Sarebbe perciò
quanto mai sbagliato leggere le politiche del lavoro del nuovo governo
come la trovata estemporanea e vagamente populista di un decisionista allo
sbaraglio. Non si tratta nemmeno della truffa di un giocoliere più abile
di altri. Non basta cioè denunciare l’ingiustizia o la furbizia
dell’imbonitore, affinché i truffati si rendano conto dei loro diritti
violati. Tutte queste misure sono invece il compimento di un processo e
pretendono di registrare lo spostamento dei rapporti di forza che è oramai
avvenuto all’interno della società italiana ed europea. Il regime del
salario che il governo sta imponendo mira a stabilire le condizioni grazie
alle quali la coazione del lavoro investa anche il non lavoro, stabilendo
una paziente disponibilità a una nuova occupazione, in altri termini
all’occupabilità
(http://www.connessioniprecarie.org/2013/10/15/la-crisi-come-problema-politico/).
Questo regime del salario non punta a una salarizzazione dell’intera
società, non fa cioè corrispondere un salario certo a un lavoro sicuro,
esso stabilisce piuttosto le basi di un’incertezza generalizzata che
investe tanto il salario quanto il reddito, facendo di quella stessa
incertezza il solo e unico criterio di giustizia.

La logica dell’attività legislativa del governo in materia di lavoro è
quella dei due tempi: in primo luogo, il decreto legge sui contratti a
tempo determinato acausali e sull’apprendistato votato il 23 aprile alla
Camera formalizza il lavoro precario full time e spiana la strada alla
riforma degli ammortizzatori sociali, preparata dalla compiuta
precarizzazione del lavoro. Come abbiamo mostrato a proposito dei voucher
(http://www.connessioniprecarie.org/2014/04/18/il-regime-del-salario-1-voucher-ovvero-del-lavoro-accessorio-ma-non-occasionale/),
la precarietà viene assunta come un dato della prestazione lavorativa non
modificabile e che strutturalmente non si vuole modificare. Il problema
che il lavoratore-voucher come ogni altro lavoratore si trova di fronte è
come gestire la propria occupabilità, cioè la propria non occupazione tra
un lavoro e l’altro. Tra i progetti del nuovo governo con una prospettiva
di medio periodo c’è perciò e inevitabilmente una generale riforma degli
ammortizzatori sociali che comprende tanto una riforma degli istituti che
hanno il compito di gestirne l’organizzazione, quanto un diverso sistema
di assicurazione contro la disoccupazione. Una nuova indennità di
disoccupazione, chiamata Naspi (Nuova assicurazione sociale per
l’impiego), andrebbe a sostituire Aspi e mini-Aspi introdotte dalla
riforma Fornero, in direzione di una loro maggiore inclusività. Questo
sarebbe l’orizzonte strategico capace di chiudere definitivamente la
connessione tra posto di lavoro e reddito da lavoro, come salario sia
diretto sia indiretto.

La Naspi verrà erogata in base alla personale carriera contributiva, tanto
in termini di entità, quanto in termini di durata. Rispetto alle
precedenti indennità, si prevede di estendere il numero dei mesi in cui
può essere calcolato l’ammontare dei contributi versati, aumentando così
il bacino di lavoratori che possono soddisfare i requisiti di accesso.
Così come per le Aspi, l’indennità si può ricevere per la metà dei mesi
lavorati. Sarà inoltre introdotto un massimale di tempo di erogazione per
i titolari di lunghi periodi di contribuzione e sarà estesa agli iscritti
alla Gestione separata, ma non alle partite Iva. In generale, la Naspi è
presentata come un’indennità pressoché universale proprio perché mirerebbe
a includere anche quei precari che, pur versando i contributi, non
riuscivano a soddisfare i requisiti per accedere alle precedenti
indennità.

La nuova Aspi dovrebbe unificare in un’indennità onnicomprensiva tutte le
precedenti tipologie di sostegno al reddito dei disoccupati, che saranno
quindi tutte legatealla risoluzione del rapporto di lavoro: mobilità,
sospensioni, cassa in deroga, mobilità in deroga scompaiono. La cassa
integrazione in deroga, introdotta nel 2009, è stata massicciamente
utilizzata durante la crisi per intervenire in situazioni ad hoc ed è
stato uno dei principali strumenti per la gestione delle ricadute della
crisi economica, che ha spento sul nascere le tensioni sociali e
politiche. Non a caso tanto Confindustria quanto i sindacati confederali
non sono favorevoli ai tagli previsti a questa forma di intervento
pubblico. Questi ultimi hanno attivamente gestito la crisi attraverso gli
enti bilaterali, che sono stati una sorta di palestra per sperimentare le
politiche attive dell’occupabilità. Da questo punto di vista, ben oltre le
preoccupazioni democratiche, lo stesso accordo sulla rappresentanza
sindacale altro non è che la registrazione di un patto per la futura
gestione congiunta delle politiche attive del lavoro, nelle quali godere
dei servizi offerti da un «sindacato riconosciuto» promette di abbreviare
i tempi di passaggio tra lavoro e non lavoro e viceversa. Il passaggio
dalla cassa integrazione in deroga alla Naspi segna perciò il passaggio
dall’emergenza della crisi alla gestione «normale» della precarietà
quotidiana.

Una differenza tra Naspi e cassa integrazione in deroga è che la prima è
pagata dai contributi versati e la seconda dalla fiscalità generale. Il
fare affidamento sulle quote di contributi viene presentato come
un’armoniosa condivisione di responsabilità tra lavoratori e imprese. Non
sempre è evidente che tutte le politiche attive di sostegno
all’occupazione sono consistite negli ultimi anni in pesantissimi sgravi
contributivi per le aziende, che hanno concorso a prosciugare le casse
dell’Inps. D’altra parte per i lavoratori, in particolare precari, i
contributi rimangono altissimi. Per esempio gli iscritti alla Gestione
separata, che vengono solo parzialmente inclusi nel godimento
dell’indennità Naspi (le partite IVA non avendo una busta paga non possono
dimostrare quanti mesi hanno lavorato e soddisfare quindi i requisiti per
accedervi) versano contributi molto alti. Nel nuovo regime del salario
ogni indennità sarà quindi pagata a caro prezzo, per di più secondo un
ferreo calcolo monetario di ciò che si può ricevere in base a ciò che si è
versato che rende il salario l’unica misura tanto del lavoro quanto del
non lavoro.

Inoltre, la Naspi oltre a essere legata alla cessazione dell’attività
lavorativa, si distingue dalla cassa integrazione in deroga soprattutto
per il fatto di essere individualizzata. L’assistenza pubblica sarebbe
legata non più al rapporto di lavoro con un determinato padrone, ma alla
storia contributiva, anche in diversi luoghi di lavoro, del singolo
lavoratore. In questo modo, la mobilità del lavoro viene considerata parte
integrante della sua gestione pubblica. In caso di crisi aziendale il
collettivo operaio sarebbe immediatamente rotto, perché ognuno sarebbe
obbligato a seguire il destino che è già scritto nella sua storia
contributiva. Questa individualizzazione si lega ai discorsi e ai progetti
sulla riqualificazione dei disoccupati e sulla gestione della mobilità tra
un lavoro e l’altro. Secondo le parole del ministro Padoan, il programma
è: «meno sicurezza sul posto di lavoro, più sostegno al reddito».
All’assicurazione pubblica contro la disoccupazione deve perciò
accompagnarsi una responsabilità pubblica nel mettere di nuovo al lavoro,
nella maniera più efficiente possibile, chi il lavoro lo ha perso. È
nell’ottica di una mobilità lavorativa diventata ormai strutturale che
sono pensate le proposte di riforma degli istituti che gestiscono il
sistema degli ammortizzatori sociali. L’Inps continuerebbe a occuparsi
della riscossione dei contributi, mentre una nuova Agenzia Nazionale per
l’Occupazione dovrebbe gestire l’erogazione delle indennità economiche e
le politiche attive per l’impiego, cioè la riqualificazione dei
disoccupati, attraverso monitoraggio, formazione e collocamento. Non a
caso nelle proposte iniziali di reddito minimo contenute nel jobs act alla
ricezione di prestazioni assistenziali doveva corrispondere l’accettazione
del lavoro o del corso di formazione proposto. Quel che rimane è che,
esaurita la Naspi, si potrebbe ricevere un’indennità economica concessa
però in presenza di conclamata povertà. Tanto nell’organizzazione
dell’occupabilità, quanto in eventuali forme di reddito della povertà, ciò
che conta è che il percorso di riattivazione lavorativa diventi cogente.
Alla disponibilità sempre più richiesta nei luoghi di lavoro, corrisponde
una disponibilità anche nel passaggio da un lavoro a un altro. Si vede
così che quando viene nominato il reddito si intende la disoccupazione e,
allo stesso tempo, un’obbligatoria disponibilità al lavoro. Non è diverso
in Germania, dove i centri per l’impiego forzano i minijobbers ad
accettare qualsiasi lavoro si presenti e possono punire il rifiuto con il
taglio dell’assegno mensile di disoccupazione. Il reddito non è un
risarcimento per i diritti sospesi o negati, ma viene sempre inteso come
necessario supporto alla totale disponibilità lavorativa. Contro queste
forme di workfare, i sostenitori di un reddito incondizionato pensano che
questo possa aumentare il potere dei lavoratori nel contrattare le proprie
condizioni di lavoro e accrescere la loro possibilità di scegliere il
lavoro. Il problema, però, è che la direzione della doppia gestione
pubblica e privata del lavoro si muove verso una combinazione di sostegno
al reddito ed estrema precarizzazione. La richiesta di reddito sembra così
assecondare piuttosto che contrastare la precarizzazione crescente del
lavoro e non in direzione di una più libera scelta. Al pubblico si chiede
il reddito, mentre nei luoghi di lavoro il ricatto rimane immutato, i
salari bassissimi, la mobilità aumentata dal fatto di avere un cuscino di
assistenza pubblica sul quale i precari possono assestarsi in attesa del
prossimo lavoro.

La riforma degli ammortizzatori s’inserisce così in un percorso di lunga
durata che si compone della costruzione di un destino individuale che
intreccia, da una parte, un lavoro frammentato con la sua dote salariale
e, dall’altra, un sostegno al reddito in mancanza di lavoro dato a
condizione di impegnarsi ad attivare la propria occupabilità, per impedire
che la forza lavoro si presenti in massa per far valere la sua forza.
Prima di lottare per nuovi sistemi di welfare comunque immaginati, si
tratta quindi di comprendere cosa è e cosa non è più il welfare attuale.
Esso è sempre meno il terreno su cui viene risarcita la condizione sociale
del salariato, intendendo in questo modo la condizione complessiva di chi
è costretto a lavorare per riprodursi. Non è cioè la garanzia per tutti
quei servizi e quelle prestazioni che il salario non può garantire, perché
non è più il segno di un potere sociale acquisito. Sembra quasi che,
assieme agli Stati nazionali che lo avevano inventato e sostenuto, stia
tramontando la stagione più che secolare del welfare. Con una violenta
sincronizzazione i sistemi di welfare si stanno omogenizzando su scala
globale per garantire semplicemente la riproduzione della forza lavoro.
Ciò comporta che questa sincronizzazione si presenti in altre aree del
pianeta come un riconoscimento di prestazioni e servizi finora
sconosciuti. In questo modo, sul piano globale, si stabilisce una sorta di
illusione progressiva del welfare, che lo connette con lo sviluppo, il
salario e il potere statale. Si dovrebbe invece registrare che come
terreno di lotta quello del welfare rimane sostanzialmente nazionale,
mettendo in discussione il fatto che le lotte contro il salario debbano
puntare a riproporre o a conservare ciò che è possibile ottenere sul piano
nazionale. Una volta individuato il legame tra incertezza del salario e
destrutturazione del welfare, la lotta contro il salario e il comando sul
lavoro esercitato anche attraverso forme di reddito dovrà essere capace di
ostacolare la produttività globale dell’incertezza e intaccare il regime
del salario che su questa fa leva.