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I dannati attorno a noi. Intervista ad Andrea Staid
Andrea Staid è un ricercatore antropologico all’Università di Genova,
storico e archivista, originario di Opera. E’ inoltre attivista del
movimento libertario e anarchico milanese. Nel 2007 per La Fiaccola
pubblica Gli Arditi del popolo: la prima lotta armata contro il fascismo,
1921-1922. Nel 2011 per Agenzia X pubblica Le nostre braccia. Meticciato e
antropologia delle nuove schiavitù, in cui indaga lo sfruttamento del
lavoro migrante e si interroga sugli strumenti antropologici necessari per
contrastare il razzismo istituzionale e culturale, e su cosa voglia dire
oggi fare ricerca etnografica.
Ne I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della
legalità (Le Milieu, 2014) lo sguardo si focalizza sui migranti che
finiscono nell’illegalità e nell’extralegalità, che scelgono o sono
costretti a delinquere per sopravvivere, e su come le strutture
comunicanti di regime di frontiera – CIE e carcere – fanno si che, per
molti migranti, questa scelta diventi non solo comprensibile, ma
addirittura la “scelta più razionale” tra quelle possibili. Attraverso una
ricca serie di interviste l’autore tenta di restituire una narrazione
polifonica dell’esperienza migrante in Italia, mettendo in discussione
allo stesso tempo il proprio ruolo di ricercatore e antropologo. Il libro
offre inoltre uno sguardo privilegiato su quello che i media hanno
chiamato “il fortino della droga”, ovvero la palazzina di viale Bligny 42
a Milano. Per mettere in crisi questa semplificazione, Staid ci porta
dentro agli appartamenti di Bligny 42, e dentro alle vite di chi ci vive,
compresi quegli spacciatori che secondo le maggiori testate milanesi
dovrebbero essere i “padroni” del complesso.
La criminalità come “scelta più razionale” è una provocazione calzante, e
viene approfondita e messa in discussione nell’intervista seguente.
Rappresenta una contraddizione che attivisti e community organizers
affrontano ogni giorno, dai quartieri del Bronx a Quarto Oggiaro e oltre.
Nella comunicazione tra strutture repressive e strutture sociali, tra
città legale e illegale, tra smantellamento del welfare e mancanza di
diritti, ciò che spesso viene tagliato fuori sono le possibilità,
l’agibilità delle comunità nei quartieri “a rischio”, popolari e proletari
(perché usare un eufemismo?), di costruire cultura, socialità e
protagonismo sociale al di fuori dai meccanismi di ricatto,
criminalizzazione, emarginazione e sfruttamento.
Ogni capitolo de I dannati della metropoli parla di una tematica ben
definita. Puoi farci fare un viaggio all’interno del libro spiegandoci
come è suddiviso e quali tematiche sono esplorate nei singoli capitoli?
Il libro si apre con una prefazione di Franco La Cecla, che introduce
quello che è stato il mio lavoro e il mio percorso. Poi c’è il primo
capitolo, che è molto importante per me, perché è il capitolo dove spiego
al lettore come ho deciso di lavorare, e quindi il luogo in cui esprimo
con chiarezza come ho costruito la ricerca, e spiego come le mie
interviste ai migranti, più che delle interviste, erano delle
conversazioni, un provare a costruire un rapporto profondo. Infatti non
andavo mai direttamente col microfono ad intervistare una persona: prima
la conoscevo, ci parlavo, spiegavo cosa volessi fare. Poi nel corso di
settimane nasceva la voglia di conversare, di farsi delle domande a
vicenda, dove appunto mi raccontavo e ci raccontavamo, e magari dopo un
po’ di tempo che si era creata la fiducia, usavo il registratore. Questa
scelta nasce dalla consapevolezza che il registratore, la videocamera, non
sono degli oggetti neutri, ma veicolano l’ingegneria sociale, il pericolo
di essere denunciati, e quindi devi avere un rapporto di fiducia prima di
intervistare registrando. Questo è stato una parte del mio metodo, che
possiamo chiamare un metodo partecipativo, che va verso il profondo della
conversazione e dell’esperienza di una persona. L’intervista non era
strutturata, nasceva e cresceva insieme all’intervistato.
Dopo questo primo capitolo sul metodo ho cercato di prendere il futuro
lettore del libro per mano per portarlo dentro a quella che è
l’esperienza concreta e totale di un migrante, infatti il secondo
capitolo parla del viaggio. Il viaggio è fondamentale per capire cosa
vuol dire migrare nel mondo contemporaneo, e soprattutto per capire le
scelte che fanno poi i migranti. Il capitolo è intervallato dalle
interviste che ho fatto in questi anni agli uomini e alle donne, che
raccontano le loro esperienze più o meno tragiche. Persone che sono
passate dalle torture alle incarcerazioni in Africa, nel deserto; persone
che sono state menate in Grecia o in Turchia, persone che scappavano
dall’Afghanistan. Tantissime storie raccontate che mi hanno aiutato a
costruire l’esperienza del viaggio, cercando anche di dare dei dati, non
tanto numeri ma mappe per aiutare a capire soprattutto le derivazioni.
Dopo il viaggio tendenzialmente il migrante, se non ha la fortuna di
sfuggire ai controlli, sarà fermato e rinchiuso in un CIE. Una volta
dentro succede di tutto, dalle violenze quotidiane a quelle che non si
vedono, cibo scadente, psicofarmaci nel cibo, soprusi linguistici e
culturali, e poi chiaramente le ‘mazzate’: quando ti rivolti, quando non
accetti di subire. Nell’altra parte del capitolo si sviluppa, sempre
grazie alle interviste e alle voci dei migranti – perché le etnografie
devono essere assolutamente polifoniche nel momento della restituzione al
lettore del lavoro dell’antropologo – l’esperienza di persone che sono
state rinchiuse e poi sono uscite. Non tutti sono usciti perché sono
stati rilasciati, altri si sono ribellati e sono evasi, e ci sono
parecchie pagine in cui elenco gli ultimi tre anni di evasioni, non tutte
chiaramente poiché si tratta di più di tremila evasioni. Insieme alle
evasioni, il capitolo parla anche delle situazioni in cui ci sono
proteste, rivolte e danneggiamenti della struttura: anche questo ho
provato a mappare. Cerco di far capire al lettore come nella maggior
parte dei casi il migrante non viene espulso ma rilasciato con in mano un
foglio che dice che deve tornare al suo paese, e se non lo fa e viene
fermato, finisce in carcere in quanto clandestino. Quasi sempre il foglio
non è scritto nella lingua del migrante, ed è chiaramente una finzione,
quasi sempre il migrante non potrà mai tornare a casa sua, perché non ha
soldi, non ha la possibilità. Allora cosa fa? Comincia a lavorare in
nero, da schiavo, per due euro all’ora, per mantenere il sistema
capitalistico e neoliberale, un sistema che ha bisogno di schiavi, e
quindi li crea, attraverso questo meccanismo. Queste persone, senza
diritti, si trovano davanti a un bivio: da una parte lavori da schiavo,
guadagni venti euro al giorno, ti distruggi, non riesci a mettere da
parte manco un euro, però se ti fermano per strada puoi finire in carcere
perché clandestino. Oppure, dall’altra parte, cominci a delinquere, una
scelta su cui ognuno eticamente può pensare quello che vuole, ma
razionalmente è sicuramente la più giusta, tanto rischi lo stesso di
finire in carcere, così almeno guadagni più soldi.
Dopo il capitolo sul CIE passo così a parlare, appunto, di carcere e
migranti. Anche questo capitolo è costruito attraverso le voci e le
esperienze dei migranti che ho incontrato, dove si racconta la realtà
tragica del sovraffollamento nelle carceri italiane, dove – soprattutto
nel centro e nord Italia – sono i migranti a riempire le celle. Un
capitolo dove cerco di costruire una critica al sistema-carcere e
all’assurdità di una legge che dopo aver incarcerato e processato un
migrante lo mette in un CIE dove non c’è niente da fare, perché tanto è
già stato identificato e perciò non potrebbe neanche finire lì.
Dopo il capitolo sul carcere c’è un focus particolare su Milano, dove vivo
e dove ho passato l’ultimo anno e mezzo in un palazzo molto particolare,
che la stampa chiama “il fortino della droga”, cioè il palazzo di Viale
Bligny 42. Attraverso un anno di contatti, conversazioni, amicizie e
interviste ho ricostruito un po’ quella che è la realtà di questo mondo
complesso, che troppo stesso viene appunto etichettato dalla stampa come
luogo pazzesco e pericolosissimo dove succede di tutto. Poi quando ci
entri capisci che sicuramente è un posto complesso, ma un posto complesso
dove ci sono anche tante contraddizioni che attraversano le nostre città,
le nostre metropoli. Quella città legale e quella città illegale – che è
un po’ il filo rosso che unisce il libro – che si incrociano continuamente
perché la città legale deve andare continuamente da quella illegale per
rifornirsi di determinate sostanze che in quel palazzo vengono vendute. Il
libro si conclude con una riflessione sulle possibilità di una libertà
reale dell’individuo, della soggettività. Io credo, e lo scrivo nel libro,
che questo può avvenire soprattutto dal basso, e non dobbiamo soltanto
aspettare una legislazione che arrivi dall’alto.
In pochi anni hai scritto due libri che parlano entrambi di migrazioni e
di migranti, di razzismo istituzionale e culturale, soprattutto
all’interno del contesto italiano. Cosa ti ha portato a scegliere questa
tematica, e che linee di continuità e discontinuità ci sono tra Le nostre
braccia e I dannati della metropoli?
Parto dalla fine. Le linee di continuità e discontinuità sono tante, nel
senso che considero I dannati della metropoli quasi come una seconda
puntata di Le nostre braccia, nel senso che nel primo ho analizzato i
nuovi schiavi, che in qualche modo accettano di lavorare per il nostro
sistema e di non ribellarsi mentre in questo libro ho scelto appositamente
di portare alla luce quelli che non accettano di essere schiavi. La
contraddizione qual è? Che non è sempre così separata la cosa. Molto
spesso nella vita di un migrante si fa per cinque o sei anni lo schiavo e
poi non ce la si fa più e ci si ribella, uscendo dai confini della
legalità. In questo senso i due libri si intersecano in un discorso, in
una narrazione comune. Quello che mi ha fatto scegliere questo tema è
stato soprattutto l’esigenza che sentivo nella pelle, vivendo in una
grande metropoli italiana che è attraversata da decine e decine di etnie,
di culture differenti; l’esigenza di riflettere come libertario, oltre che
sulle interviste etnografiche (infatti ne Le nostre Braccia ci sono due
capitoli molto teorici) sul fatto che ci possano essere delle soluzioni,
non di integrazione ma di ibridazione, su come si possa vivere in questa
società, in questo mondo che cambia, senza creare scontri culturali ma
cercando connessioni più che sconnessioni. L’altra cosa che mi ha portato
a questa ricerca è sicuramente il mio approccio antropologico, la mia
specializzazione in università. Ho cominciato a interessarmi al
meticciato, al discorso contro l’identità, i libri di Remotti e di altri
antropologi e la loro connessione al contemporaneo, al mondo dei migranti,
che mi è sembrata vicina. Per questo ho cercato di analizzarla andando in
strada incontrando gli esseri viventi che vivono questa realtà.
Sicuramente però le ribellioni dei migranti non si limitano al rifiuto
dell’economia legale, in questi anni ci sono state diverse ribellioni,
diverse lotte esplicitamente politiche, dentro ai CIE, a Rosarno, Nardò,
Brescia, passando per il primo marzo e le lotte nella logistica. Molti di
queste lotte sono presenti in Le nostre braccia, che impatto hanno avuto
sui soggetti che hai intervistato per questo libro?
Si, assolutamente. Nel primo libro è presente, per esempio, in una delle
interviste più profonde, (conoscevo molto bene l’intervistato), tutta la
lotta dei migranti a Milano quando è stata occupata la torre di via
Imbonati, sulla quale sono rimasti tutto l’inverno a dormire al freddo,
per mesi, per denunciare la situazione dei migranti. In quel libro è
presente, anche in altre interviste, la consapevolezza di dover lottare
per i propri diritti e che unendosi fra culture diverse c’è la possibilità
di arrivare a delle vittorie. Ne I dannati invece c’è più un rituale di
resistenza quotidiana, la consapevolezza di non accettare la condizione di
schiavo, per cui ti fai la tua ribellione a livello individuale che porta
a un miglioramento della tua vita. Poi chiaramente anche in questo libro
ci sono tante voci di migranti, non tutti hanno scelto di delinquere, non
tutti fanno delle scelte individuali, ci sono persone che sono state in
contatto con le lotte precedenti. Ma soprattutto, la cosa più interessante
che ho constatato quando mi sono occupato delle rivolte nei CIE e dei
danneggiamenti all’interno di quelle strutture, era la consapevolezza
fortissima che arriva dalle primavere arabe, soprattutto da parte di
migranti egiziani, tunisini, libici; la consapevolezza che deriva dal
sapere che unendosi ce la si può fare, che l’impatto di massa contro
un’istituzione può portare a delle vittorie. Questo penso sia
assolutamente riconducibile a un’ondata di immigrazione consapevole che è
arrivata dai paesi coinvolti nelle primavere arabe.
Parli di quanto il desiderio di libertà, di uscire dal ricatto, possa
essere centrale nel comprendere la scelta di delinquere in molti
migranti. Ma non c’è il rischio che questo “rituale di resistenza”, che
non mette esplicitamente in discussione la situazione generale, crei
nuove forme di ricatto e dunque una situazione di sempre minore libertà
per i/le migranti?
Il rischio è presente ma stiamo parlando di una rivolta non
immediatamente politica, una rivolta esistenziale, un sottrarsi dal posto
dove vieni forzatamente relegato dalla società capitalista che necessita
di nuovi schiavi. Come scrive Franco La Cecla nella prefazione, stiamo
parlando di migranti dichiarati fuorilegge che a un certo punto trovano
una propria ridefinizione nell’esserlo. Stiamo parlando di voglia di
vivere nonostante tutto! Nessun progetto politico, nessuna soluzione,
soltanto pratiche di resistenza quotidiana.
Nel libro le voci femminili sono meno presenti di quelli maschili.
Perché? Che specificità e problematicità hai incontrato nell’indagare
l’esperienza di donne migranti?
Diciamo per un motivo semplice e uno più complesso. Partiamo da quello
semplice, essendo io uomo è molto più difficile riuscire a costruire
rapporti di fiducia profondi con delle donne, nel senso che io
rappresento, oltre al bianco occidentale, anche il maschio che in linea
di massima è lo sfruttatore per eccellenza. Basti pensare alle violenze
subite durante il viaggio da molte, troppe donne migranti e alla violenza
strutturale del patriarcato.
Il motivo più complesso è legato in questo caso specifico al mondo
criminale e microcriminale, dove le donne per svariati motivi sono meno
presenti. Questa assenza non è dovuta da una postura innata ma anche qui
si torna alle catene, ai muri costruiti dal patriarcato. La gestione del
crimine spesso è in mano a uomini che difficilmente si mettono in affari
con donne, se non per schiavizzarle. Chiaramente ci sono eccezioni,
infatti ero riuscito a intervistare donne che hanno deciso di uscire dal
confine della legalità, ma alla fine hanno scelto di non autorizzarmi a
pubblicare l’intervista nel libro.
Per buona parte della tua vita hai fatto militanza politica, e tuttora la
fai. Cosa ti ha portato a fare ricerche etnografiche, e che continuità
c’è tra le due esperienze?
Diciamo che secondo me l’antropologia è una vocazione, come approccio
metodologico, soprattutto il filone che ho scelto di seguire io, che ti dà
una possibilità non delegata di fare ricerca e di andare senza filtri
dalle persone con cui vuoi parlare. Penso che sia un approccio molto
libertario. Poi chiaramente la voglia di occuparsi di migranti per sette
anni è legata a una convinzione politica, che ho da tanti anni, che non
esiste una patria ma che la patria deve essere il mondo e che i confini
nazionali non sono degni di essere riconosciuti. Per questo mi sono
interrogato su quell’assurdità che Dal Lago ha ben scritto a fine anni 90
in un libro che si chiama Non-persone, in cui descrive come i confini, le
strutture, i documenti e le carte di questo mondo pongano una differenza
tra una persona e un’altra, che non è una persona anche se è uguale a te.
Dunque sì, è consequenziale a quelle che sono le mie idee politiche, a
quella che è la mia vita quotidiana.
Negli ultimi dieci anni c’è stata una contaminazione reciproca sempre più
forte tra movimenti sociali e le discipline dell’etnografia e
dell’antropologia, manifestatasi in una molteplicità di modi, da dentro a
da fuori dei movimenti. Come ti rapporti a questo nuovo ambito di
discussione, riflessione e ricerca?
E’ molto interessante quello che si sta creando tra antropologia e
movimenti sociali in generale e nel mio caso specifico, quello che
interessa di più a me, antropologia e pensiero libertario. Credo che negli
ultimi anni si siano create delle connessioni fondamentali, soprattutto
nel mondo anglosassone: uno su tutti, David Graeber, da Frammenti di un
antropologia anarchica in poi, compreso Direct action: an ethnography
(pubblicato in Italia con il titolo Rivoluzione: istruzioni per l’uso, RCS
libri, Milano, 2012). Sono libri che insieme ad altri hanno creato un po’
un filone, che per altri versi però già esisteva e che si sta sviluppando
anche al di fuori del suo pensiero. Qui in Italia oggi ci sono vari
laboratori di antropologia e movimenti sociali ma soprattutto ci si
chiede, a livello antropologico ed etnografico, come si può narrare, come
si può costruire l’antropologia di questi movimenti, quale sia il metodo
corretto. E poi c’è la famosa questione dell’antropologia “con” e
dell’antropologia “per”. La questione di essere “dentro”: se uno sguardo
“neutrale” è possibile anche stando dentro alle cose. La risposta è che lo
sguardo neutrale non può esistere comunque, perché al di là di come ci
posizioniamo assumeremmo sicuramente una posizione di potere con
l’intervistato. Quindi questa relazione – anche perché poi l’etnografia la
scrivi tu che stai facendo le domande – è inalienabile. Quindi penso che
l’antropologia dei movimenti sociali sia un’ opportunità per far vedere la
parte buona della società, quella in movimento, quella che dal basso vuole
cambiare la quotidianità.
Per BB Sean (@seancaseyCPM)