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Repubblica Genova
“La giustizia non cancella la vergogna”
Lorenzo Guadagnucci, reduce della Diaz: gli arresti dei poliziotti non
riabilitano uno Stato assente
WANDA VALLI
C’ERA anche lui, Lorenzo Guadagnucci, giornalista di Bologna, tra i
ragazzi e le ragazze della Diaz. Loro che, nella notte tra il 20 e il 21
luglio del 2001, mentre dormivano, subirono quella che poi Michelangelo
Fournier, capo del primo reparto Mobile di Roma, definì «una macelleria
messicana». Un assalto studiato a tavolino, con prove false, portate
dentro la scuola di via Battisti da chi avrebbe dovuto difendere l’ordine
pubblico. Adesso chi allora aveva le responsabilità maggiori è stato
condannato a scontare il residuo di pena in carcere: da Spartaco Mortola,
nel 2001 capo della Digos di Genova a Francesco Gratteri, ex direttore
dell’ Anticrimine, Giovanni Luperi, allora vicedirettore dell’Ucigos. E le
vittime? Guadagnucci non gioisce, crede, che lo Stato non abbia mai voluto
davvero fare chiarezza.
Lorenzo Guadagnucci, alti dirigenti della polizia nel G8 costretti agli
arresti domiciliari. Soddisfatti?
«Lo strumento dell’arresto non fa piacere per nessuno, né è una decisione
che mi ha suscitato particolare gioia. Gli imputati avevano, in qualche
modo, messo in conto un esito del genere, perché non hanno mai chiesto
scusa, dimostrando, così, di non aver accettato le sentenze. Ora hanno
quello che dovevano avere, ma certo non è una bella notizia ».
Perché?
«Non è una bella notizia che personaggi così importanti con una storia
professionale illustre, siano stati condannati a scontare il residuo di
pena ai domiciliari. E’ come se avessero rifiutato la giustizia, tanto è
vero che il Tribunale di sorveglianza ha confermato che in loro non c’è
rispetto per le vittime, per una città intera, Genova ».
Lei era là quella notte, ha vissuto i processi come testimone, cosa ha
pensato subito, di questa clamorosa, decisione?
«Come cittadino credo che, in tutto il caso G8, le persone da portare a
esempio siano i magistrati che hanno condotto l’inchiesta. I pm Zucca e
Cardona Albini sono stati rigorosi, non hanno ascoltato i messaggi che
arrivavano dappertutto. E a loro va reso merito. Le altre istituzioni
continuano ancora a volgere lo sguardo altrove, a partire dal Parlamento».
E da una commissione di inchiesta che non è mai arrivata. Il ricordo di
quelle ore di “macelleria
messicana”?
«Io l’ho chiamata “la tonnara”, e che cosa è successo si sa, purtroppo il
nostro ruolo di parti civili è stato minimizzato, quasi escluso».
Che cosa volevate dal processo? Risarcimenti?
«Di quelli, sinceramente, mi importa poco. Volevamo difendere la Polizia
di Stato: se i dirigenti coinvolti fossero stati sospesi, e non avanzati
in grado, sarebbe stato meglio, piuttosto che arrivare a un finale con
arresti, sospensione dai pubblici uffici».
Ora che cosa si aspetta?
«Mi auguro che il ministro degli Interni provveda a fare chiarezza con
provvedimenti disciplinari
».
Le vostre sono state e restano vite spezzate?
«I traumi rimangono, tutti. Ma in noi resta anche la rassegnazione verso
uno Stato che si rifiuta di stare dalla nostra parte. Al di là dei
magistrati, la responsabilità è del Parlamento, del governo: aspetto
ancora che qualcuno mi prenda sul serio, neppure dopo le condanne
definitive, qualcuno ha mosso un dito. Ne prendo atto».
Dopo tredici anni finisce così?
«Io non posso fare altro, vorrei solo che quello che è successo non si
ripetesse, che chi lavora in polizia avesse una dirigenza all’altezza di
un lavoro difficile. Gioia? Non è una buona notizia, ribadisco, se
qualcuno va in galera. La magistratura, in realtà, non ha né vinto né
perso, ha fatto solo il suo lavoro. E’ lo Stato che non si muove, che non
ha rimorsi, anzi ».