[Nogelminispbo] Motori Minarelli: l’esperimento di una lotta…

このメッセージを削除

このメッセージに返信
著者: Sean Patrick Casey
日付:  
To: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Collettivo SPA
題目: [Nogelminispbo] Motori Minarelli: l’esperimento di una lotta vincente
http://www.connessioniprecarie.org/2013/11/14/motori-minarelli-lesperimento-di-una-lotta-vincente/

Motori Minarelli: l’esperimento di una lotta vincente

di Lavoro Insubordinato

Dopo il primo report di quest’estate, pubblichiamo quest’intervista a
Orlando Maviglia, RSU FIOM allo stabilimento Motori Minarelli di Calderara
di Reno, sulla conclusione della lotta contro i 56 licenziamenti
annunciati l’estate scorsa dalla dirigenza. Una lotta che, come si legge
nell’intervista, ha portato a casa dei risultati molto concreti. Allo
stesso tempo essa mostra la situazione di continuo ricatto e
precarizzazione che si vive nel settore metalmeccanico in Italia per cui
le lotte, anche quando vincenti, esprimono una posizione sempre difensiva
nei confronti del padrone. Alla Motori Minarelli, stabilimento dove già i
lavoratori sono prevalentemente in contratti di solidarietà, la lotta
contro i 56 licenziamenti si è svolta «con una pistola puntata alla
tempia». Questa situazione ha però imposto alle lavoratrici e ai
lavoratori di organizzarsi oltre le modalità prestabilite di conflitto
sindacale, pur dopo anni caratterizzati da una politica della cassa
integrazione e del welfare funzionale a mettere a tacere il conflitto, con
il risultato di un aumento di protagonismo operaio e uno sforzo di
innovazione delle pratiche messe in campo. Il risultato finale, dunque,
più che causa di celebrazione rappresenta un’occasione di riflessione.
Come le lotte nella logistica hanno dimostrato, anche nelle situazioni di
estrema precarizzazione e ricatto la lotta è possibile laddove il
protagonismo di chi lavora e la flessibilità delle tattiche sindacali sono
tali da permettere l’innalzamento e la modulazione del conflitto, in modo
da evitare i limiti imposti dalla rigidità degli schemi più difensivi e
concertativi.

Come collettivo Lavoro Insubordinato abbiamo sostenuto e seguito questa
vertenza. Crediamo che questa lotta sia stata caratterizzata da forme di
protagonismo, innovazione e organizzazione che vanno oltre lo status quo
sindacale, È importante per noi che questa esperienza sia conosciuta e
discussa da precarie, migranti, operai che si pongono il problema della
politicità della loro condizione e, soprattutto, di come trasformarla. Tra
ogni condizione lavorativa ci sono differenze che non possono essere né
ignorate né ritenute superate dalla mera forza di una singola vertenza: le
differenze permangono e il fatto che finora non esista nessun piano di
«unificazione delle lotte» ne è la dimostrazione. L’esperienza di queste
operaie e di questi operai, come quella dei migranti della logistica, dal
nostro punto di vista ha molto da dire a chi lavora nei superstore o nei
magazzini della grande distribuzione, nella sanità o nella formazione.
Valorizzare il protagonismo, la flessibilità delle tattiche sindacali e
l’innovazione delle pratiche è centrale per chiunque, consapevole delle
difficoltà di produrre conflitto e organizzazione dentro la frammentazione
del lavoro, continua a porselo come questione centrale dell’agire
politico.

Come si è conclusa la lotta contro i 56 licenziamenti, e come valuti il
risultato ottenuto?

La lotta si è conclusa con un accordo che praticamente ritira il
procedimento di licenziamento collettivo e si basa su una mobilità
volontaria dietro incentivo da parte dell’azienda e sulla trasformazione
del contratto da tempo pieno a tempo part time sia verticale sia
orizzontale, anche in questo caso su base esclusivamente volontaria con un
incentivo da parte dell’azienda.
Quindi, rispetto a com’era stata aperta la procedura, sicuramente
quest’accordo è riuscito a evitare che si arrivasse a 56 licenziamenti
forzati. Dopodiché è chiaro che il concetto di volontarietà è abbastanza
relativo, perché formalmente e anche sostanzialmente chi ha deciso di
andare via e trasformare il contratto l’ha fatto volontariamente, appunto,
e da questo punto di vista, noi, in tutta coscienza, come RSU non abbiamo
mai esercitato una pressione affinché i lavoratori prendessero questo tipo
decisione. Se abbiamo speso una parola in più, l’abbiamo spesa per
invitare chiunque venisse a comunicarci una decisione a favore della
trasformazione del contratto e degli incentivi a considerare meglio la
questione, facendo una valutazione serena, per quanto possibile.
Il concetto di volontarietà è comunque relativo, perché se non ci fosse
stato un procedimento di licenziamento collettivo, la stragrande
maggioranza dei lavoratori che ha deciso di andare in mobilità oppure di
trasformarsi, probabilmente, anzi quasi sicuramente, non avrebbe mai
pensato di farlo. A parte quelle otto persone, che con questo meccanismo
entrano direttamente in pensione, per le quali c’è stato un incentivo
ulteriore. Noi come lo valutiamo questo risultato? Lo valutiamo
positivamente nella misura in cui è il frutto di uno sforzo e di una lotta
che è stata condotta da parte dei lavoratori con tutti i mezzi che a
disposizione. Da questo punto di vista siamo soddisfatti del risultato
raggiunto, e quando dico siamo, non dico solamente come RSU, ma
considerando la valutazione fatta all’ultima assemblea da tutti i
lavoratori.

Avete lottato «con una pistola puntata alla tempia». Che forme di lotta
avete messo in campo in questa situazione di ricatto e ridotta agibilità?

Noi abbiamo cominciato, fin da quando ci hanno annunciato la procedura del
licenziamento collettivo, a farci vedere dall’azienda e preoccupandoci che
questa situazione fosse conosciuta il più possibile all’esterno. Abbiamo
iniziato ad addobbare tutti gli stabilimenti, i cancelli, con una serie di
manichini, di pupazzi vestiti con le nostre tute da lavoro, con degli
striscioni e quant’altro. Poi ci siamo preoccupati di proporre delle
iniziative di lotta che si muovessero su due livelli: un’iniziativa
interna che colpisse la produzione il più possibile e un’iniziativa
esterna per far conoscere il più possibile all’esterno cosa stava
succedendo, cercando di creare, se non un danno, un disagio all’immagine
stessa dell’azienda. Questo ha significato costruire degli scioperi che
facessero veramente sentire all’azienda l’efficacia dello strumento per
poi proiettarsi verso l’esterno con tutto quello che era possibile:
striscioni messi fuori ai cancelli, piccole manifestazioni, un corteo che
abbiamo fatto a Calderara durante il giorno del mercato, volantinaggi in
luoghi pubblici, presidi, coinvolgimento dei mezzi di informazione,
cercando di coinvolgere altre realtà che potevano aiutarci in questa
situazione.

In che modo le forme di lotta sono state innovative o il prodotto di
iniziative di singole lavoratrici o lavoratori? Che livello di
protagonismo c’è stato?

Il livello è stato molto buono e per certi aspetti anche inedito, a parte
la stagione dei pre-contratti del 2003, che comunque fu meno partecipata
da parte dei lavoratori. Nel 2003 mettemmo in campo una serie di scioperi
a fischietto così improvvisi che portarono la Motori Minarelli a essere
una delle prime fabbriche a firmare per i contratti. Questa volta,
ovviamente perché la problematica era più vitale, abbiamo visto molta più
partecipazione con scioperi con un’adesione altissima, anche di 218
operai. Comunque, in qualsiasi forma abbiamo scioperato, la partecipazione
è stata veramente alta. Sia durante le iniziative di sciopero all’esterno
sia durante gli scioperi articolati all’interno, rimanevano dentro, tra
capetti e sotto-capetti, neanche una trentina di operai. Quello che noi
valutiamo molto positivamente, e penso che segnerà anche un precedente per
le vertenze successive, è l’avere messo in campo gli scioperi articolati,
cioè immaginandoli in maniera frammentata, improvvisa, a seconda delle
aree dei reparti di produzione, a seconda di quella che poteva essere
l’efficacia massima e riducendo così il sacrificio che uno sciopero
comporta. Noi questa cosa l’abbiamo proposta in maniera molto serrata,
però sarebbe potuta non riuscire, se non l’avessimo costruita anche con i
lavoratori. Ti faccio alcuni esempi. I lavoratori di una linea ti vengono
a dire: «Da oggi pomeriggio rallentiamo il numero». Oppure fanno dei
cambiamenti: «oggi sarebbe necessario che noi facessimo quest’altra cosa».
Oppure qualcuno che lavora al collaudo dei motori dice: «Se a noi ci fate
scioperare all’improvviso, durante le ultime due ore non hanno nessuno;
possono anche farli i motori, però non c’è nessuno che li collauda, questi
motori rimangono fermi, perché ora i controlli sono al 100%». Oppure
qualcuno del reparto accessori dice: «A noi invece di farci scioperare
sempre, fateci fare due colpi secchi, magari nel momento in cui gli ordini
degli accessori sono di più». Questa roba qui noi l’abbiamo seguita il più
possibile e messa in campo, inizialmente anche con approssimazione, ma
volendo dare il segno di far sul serio. Il primo sciopero che abbiamo
fatto articolato e improvviso è stato quello del numero pari e del numero
dispari del badge, che per certi aspetti era una scommessa, perché non
sapevamo neanche come eravamo distribuiti! Infatti con gli altri delegati
immaginavamo: e se tutti i numeri pari stanno negli altri stabilimenti e
tutti i numeri dispari stanno in questo? Però questa cosa è stata molto
apprezzata, perché il segno era che si faceva sul serio. Quindi siamo
partiti da un primo segnale approssimativo, che è stato comunque efficace
e, dove non lo è stato, abbiamo corretto il tiro. Per esempio, nel reparto
di lavorazione abbiamo visto che era una stronzata paurosa. Con i
lavoratori del reparto abbiamo corretto il tiro, sospeso, cambiato
modalità, anche durante lo sciopero stesso. Da questa fase iniziale un po’
approssimativa abbiamo cominciato a fare degli scioperi più mirati, per
tronconi di linea – visto che la catena di montaggio è divisa in vari
spezzoni chiamati tronconi – e quindi magari facevi scioperare il primo
troncone e gli altri andavano avanti; tuttavia non potevano andare avanti
perché non gli arrivavano i motori, e così facevi scioperare il troncone
di mezzo. In alcune linee si lavora otto ore sulla stessa postazione,
allora facevi scioperare anche lì, dove una parte non poteva essere
sostituita da nessuno. Abbiamo visto che, appena abbiamo messo in campo
gli scioperi articolati, l’azienda nei primi giorni la dava un po’ per
persa; uscivano fuori e non mettevano niente in campo per contrastarla.
Poi hanno cominciato a studiarsi un po’ meglio la situazione, cercando di
immaginarsi le nostre mosse o, dopo averle viste, spostando delle persone,
– non solo dei crumiri, ma anche persone che in quel momento non stavano
scioperando – a seconda delle loro competenze, in altre linee. Noi
conseguentemente facevamo la stessa cosa: immaginavamo le loro mosse, le
vedevamo e poi a tavolino cambiavamo il corso dell’opera. Gli scioperi
sono stati segreti fino all’ultimo, questa era la consegna. I lavoratori
questo lo hanno capito benissimo e c’era incoraggiamento affinché fossero
segreti fino all’ultimo. Da questo punto di vista è stato molto incisivo,
e molti hanno detto: da oggi dobbiamo fare così, per fare una cosa
efficace.

Qual è stata la modalità organizzativa della lotta? Ha presentato delle
differenze con vertenze passate?

Per ogni incontro che facevamo con l’azienda, facevamo un’assemblea,
quindi eravamo in sciopero costantemente, una modalità che abbiamo seguito
fino all’ultimo. All’inizio avevamo pensato di proporre la formazione di
un comitato di lotta, perché anche quello che possono fare i delegati
sindacali non deve e non può mai poggiarsi solamente sul tuo ruolo da
delegato. Fermo restando che poi nella RSU non c’è solo la componente FIOM
ma anche la FIM, e lì non apro un discorso che potete ben immaginare. Noi
abbiamo dovuto anche, in un certo senso, osservare una certa riservatezza
nei loro confronti nelle iniziative di lotta, perché non avevamo nessuna
fiducia nelle persone che ci stavano. Poi però, considerando le
caratteristiche dei lavoratori e il tipo di titubanze di qualche anno fa,
abbiamo pensato che, se noi avessimo fatto una richiesta formale in
assemblea di costituzione di un comitato di lotta dicendo: «si costituisce
il comitato di lotta contro i licenziamenti, chi vuole partecipare…», non
sarebbe venuto nessuno. Abbiamo cercato di stimolare, metterci in gioco,
affinché il comitato di lotta nei fatti venisse fuori, e di fatto è venuto
fuori pur non formalizzandosi. Alcune dichiarazioni le abbiamo fatte non
come RSU, ma con un volantino che abbiamo diffuso sempre fin dall’inizio,
senza mai aggiornarlo, se non nel titolo; è stato un volantino approvato
dall’assemblea all’unanimità e firmato sia come RSU sia come assemblea
delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta contro i licenziamenti.
Abbiamo cercato di incoraggiare il più possibile, non in maniera
paternalistica, bensì sapendo che questa cosa avrebbe sostenuto il
protagonismo dei lavoratori, in particolare di una fascia di lavoratori
che, sebbene ristretta, è stata molto importante. Noi contiamo proprio su
questa fascia per avviare le prossime iniziative sindacali.

Com’è stato gestito il rapporto con lavoratrici e lavoratori che non
partecipavano alla lotta?

All’inizio non abbiamo mai rinunciato a degli argomenti fraterni nei
confronti degli impiegati, che storicamente, sia nel caso delle
rivendicazioni per il contratto nazionale, sia in quello dei rinnovi
integrativi, sia nel caso dei licenziamenti, non sono stati tanto solidali
con i lavoratori; abbiamo organizzato un volantinaggio solo per loro,
affinché si convincessero a scioperare. Non abbiamo mai fatto dei
picchetti, perché non c’era quella determinazione a fare il picchetto.
Però la determinazione a fargliela pesare a chi non scioperava sì! Lo
facevamo ogni volta che uscivamo fuori per fare degli scioperi articolati
e dei cortei interni; questi ultimi erano fatti su richiesta dei
lavoratori – che noi assecondavamo – per guardare in faccia quelli che
rimanevano dentro. All’inizio abbiamo utilizzato dei toni inclusivi,
cercando di toglierli ogni scusante, cercando anche di rapportarci con
loro – c’è chi ci riesce meglio e c’è chi ci riesce peggio. Io non ci
riesco più come ci riuscivo 15 anni fa! Roberta, l’altra delegata più
tenace, fino all’ultimo ha cercato di convincerli. Eravamo sicuri che noi
eravamo nel giusto e loro nel torto. Quindi questa cosa qui ha portato ad
avere delle discussioni che abbiamo chiuso in maniera tranchant. Insomma,
noi abbiamo fatto sentire il nostro peso ed è giusto fargli ancora sentire
questo peso, perché è stato uno spartiacque: chi stava da un lato chi
dall’altro. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità! Non abbiamo
fatto mai delle forzature – io le chiamo forzature, ma sarebbero state
giustificate. Se fossimo stati più convinti nel respingerli o cercare di
non farli entrare, sarebbe stato giusto, ma non sempre è facile. In questo
caso, sarebbe stata una forzatura non tanto nei loro confronti, ma verso
chi teneva il picchetto. Alcune volte dici: «ma falli passà sti stronzi».
È chiaro che se non passano è meglio, però a un certo punto li ignori
pure, quindi l’atteggiamento è stato questo. Sicuramente questo è stato
uno spartiacque con chi ha agito in maniera superficiale, irresponsabile,
calcolatrice. Già sei condannabile per aver pensato di salvarti mentre
tanto l’altro non si può salvare; se tu non sei neanche tra gli esuberi,
quindi sei già «salvo», e neghi un aiuto, allora sei doppiamente
spregevole. Questi sono stati gli argomenti discussi fino all’ultima
assemblea. Questa cosa l’abbiamo detta chiaramente, anche per dargli una
mazzolata in assemblea una volta arrivati all’accordo ed è stata sentita
molto dai lavoratori.

I licenziamenti hanno corrisposto a una riduzione del personale della
produzione nel tentativo di eliminare come esuberi i lavoratori a tempo
determinato e intensificare il lavoro di quelli rimasti in fabbrica?

Noi non abbiamo lavoratori a tempo determinato dal luglio del 2008. Quindi
la cosa ha riguardato i lavoratori con contratto a tempo indeterminato,
non solo in questa ultima tornata che è stata la procedura di
licenziamento collettivo, ma anche nel 2010 quando questa cosa si
prospettava, così che facemmo un accordo di mobilità volontaria, ma senza
una procedura di licenziamento in corso. Ha comportato una riduzione in
termini assoluti, perché di 218 operai, alcuni sono andati via e altri si
trasformano. Comunque, già con la mobilità volontaria senza il
licenziamento collettivo sono andati via una settantina di lavoratori, di
cui anche una parte di impiegati, ma soprattutto operai. Questa cosa oggi
cosa comporta? Comporta sicuramente per chi rimane l’intensificazione dei
ritmi, infatti adesso tutta la partita si gioca sull’organizzazione del
lavoro. Non è una partita facile, perché non abbiamo una tradizione di
controllo serrato. L’azienda ti mette davanti ai fatti compiuti, si
sottrae al confronto ecc. La cosa per noi diventa evidente laddove prima
lavoravano in due e ora ne lavora uno per due. Diciamo che quello è il
tentativo! Cosa comporta per il futuro? Si conserva un nucleo di
lavoratori a tempo indeterminato per poi ricorrere ai contratti a tempo
determinato, più che d’apprendistato. Negli anni non abbiamo mai avuto
degli interinali, anche se questo non è solo possibile, ma segue la
tendenza. In questo modo le tensioni non solo rimangono e si
intensificano, ma non possono che fare i conti con una piattaforma
generale. Dal punto di vista delle organizzazioni sindacali – io parlo
principalmente della FIOM perché ci sto dentro – deve esserci un cambio di
rotta, dobbiamo porre dei punti precisi. Se questa è la tendenza e noi
l’assecondiamo, semplicemente per trattare meglio qualche condizione, non
se ne esce fuori.

Che sostegno c’è stato da fuori? Quali sono i punti forti e deboli
sottolineati da questa lotta? Cosa può insegnare ai sindacati e alle
realtà politiche che si occupano di lotte sui posti di lavoro?

Devo dire che, a parte i compagni di Lavoro Insubordinato e i compagni del
Coordinamento Sempre in Lotta, sostegno da parte di altre organizzazioni
non ne abbiamo avuto. L’abbiamo cercato ma non l’abbiamo ricevuto. Ci sono
stati dei comunicati di solidarietà da parte di tante RSU, della Fiom,
alla quale avevamo fatto conoscere la nostra situazione. Voglio dire però
che tutto quello che abbiamo ricevuto è stato per noi prezioso, dai
comunicati che venivano dalla RSU, con i quali abbiamo tappezzato le
bacheche e sono stati tolti solo qualche giorno fa, ai compagni di altre
RSU che son venuti ai presidi, ai compagni non sindacalisti come gli
studenti oppure come Lavoro Insubordinato. Ai lavoratori fa bene tutto
questo. Abbiamo avuto un’interrogazione da parte del consigliere regionale
di Rifondazione Comunista. Io stesso faccio parte di Rifondazione
Comunista anche se mi immagino che dovrebbe essere un partito diverso e
che non lo sarà, purtroppo. Però un orientamento da parte del partito
rispetto a questa vertenza non c’è stato, così come dalle istituzioni, a
parte alcune dichiarazioni abbastanza generali se non generiche che in
quel momento magari facevano brodo, però le abbiamo colte per il peso che
potevano avere, non c’è stato altro. Abbiamo avuto il concreto sostegno
della Fiom, con pullman a disposizione. Insomma su questo l’organizzazione
è stata puntuale, precisa, però non c’è stato nient’altro. Io credo, per
ritornare un po’ ad alcuni discorsi, che questo è il punto di una
situazione generale che deve essere senz’altro cambiata. In assenza sia di
piattaforme più ampie che di movimenti politici che possano rappresentare
gli interessi della classe lavoratrice – io dico di un partito di classe –
la solidarietà che arriva è preziosa. Noi abbiamo detto che questa
situazione per noi è oro, è preziosa, siamo contentissimi di questo, anche
se si avverte uno scarto tra quello che dovrebbe essere necessario e
quello che attualmente c’è.

Lʼultima domanda tocca proprio questo e cioè, quali sono i punti forti e
deboli sottolineati da questa lotta e cosa può insegnare questa esperienza
ai sindacati, sindacalisti e a realtà politiche che si occupano di lotte
sul posto di lavoro?

Uno dei punti forti è sicuramente il protagonismo dei lavoratori. Non è
vero che da parte dei lavoratori cʼè un disinteresse, come spesso ci
sentiamo ripetere in vari ambiti, a cominciare dal sindacale ma anche in
ambiti politici per giustificare poi una mancanza di determinazione. Non è
vero che i lavoratori non lottano. I lavoratori lottano non solo perché
hanno un motivo e purtroppo non credo che la Motori Minarelli sia
lʼeccezione ma credo che sia una fase che riguarda tutto il mondo del
lavoro, quindi credo che la sinistra dovrebbe porsi il problema riguardo
alla situazione attuale e che proprio in questo momento ci sarebbe bisogno
di aver fiducia nella possibilità che ha la classe lavoratrice di cambiare
le cose. Noi avevamo questa fiducia però chiaramente venivamo da cinque
anni in cui eravamo sotto scacco. Prima la cassa integrazione ordinaria,
poi straordinaria, poi ti costringono in qualche modo a fare un accordo di
mobilità volontaria, contratti di solidarietà per un anno e mezzo,
sospensione contratti… insomma, non è facile in tutto questo. Noi avevamo
questa fiducia, l’abbiamo conservata fino alla fine e da tutto questo ne
usciamo rafforzati. Ma la cosa principale non sono le nostre convinzioni:
è che da tutto questo, appunto, abbiamo visto che c’è ora un’attenzione
diversa che si spera si possa consolidare per quello che ci aspetta sin da
oggi in Motori Minarelli riguardo all’iniziativa sindacale alle vertenze e
quant’altro. Questo è il punto fondamentale. L’altro punto è che quando si
fa seriamente, i lavoratori sono disposti a lottare. È chiaro che quando
tutto è una messa in scena o comunque non si arriva fino allʼultimo con
determinazione, non cʼè credibilità. I punti deboli riguardano il fatto
che a volte si arriva tardi su determinate questioni sebbene non sia mai
troppo tardi. Questo può essere il frutto di una situazione in fabbrica,
una situazione sindacale. Però io credo che ci sia un contesto più
generale che molto spesso ti porta ad affrontare le cose quando invece
bisognerebbe cominciare prima a impostare i rapporti di forza in maniera
diversa. Cosa può insegnare ai sindacati e alle realtà politiche? Ecco,
quello che dicevo poco prima, cioè che intanto i sindacati dovrebbero
insegnare che si fa seriamente, se si è credibili negli strumenti che si
propongono e soprattutto se si favorisce la partecipazione dei lavoratori.
I lavoratori non devono essere considerati una massa inerte, nella
peggiore delle ipotesi manovrati a seconda delle mobilitazioni del
momento. Anzi, proprio le mobilitazioni e le vertenze ecc… devono
poggiarsi sul protagonismo dei lavoratori. Se questo avviene si diventa
una forza, una forza notevole. Ovvio è che per le burocrazie sindacali
tutto questo è come due dita negli occhi. Per quanto riguarda le forze
politiche – penso alle realtà politiche della sinistra – diciamo che fanno
tutt’altro, non solo da oggi ma da anni, rispetto a quello che
bisognerebbe fare. Oggi, questo tutt’altro è particolarmente drammatico,
nocivo perché oggi ci sono tutte le condizioni, ovvero cominciano ad
esserci, e a mio avviso saranno sempre più profonde e diffuse, affinché
dal mondo del lavoro si possa reagire in maniera forte. Condizioni
oggettive in cui le persone cambiano anche la loro mentalità di fronte a
quello che succede e di fronte alla situazione in cui vivono. Le
organizzazioni politiche della sinistra continuano a essere i grandi
assenti su questo. La cosa non è differente perché loro sono assenti però
credo che mai come oggi ci sarebbe bisogno di questo e se c’è un
insegnamento che possono dare episodi come questo – che non sono i soli e
nemmeno i più drammatici – è che i nostri dirigenti o i dirigenti delle
organizzazioni dei lavoratori, sia politiche sia sindacali, dovrebbero
fare tuttʼaltro rispetto a quello che ci hanno abituato a veder fare .