[Nogelminispbo] Migranti, o del quinto Stato

このメッセージを削除

このメッセージに返信
著者: Sean Patrick Casey
日付:  
To: Autorganizzazione Studentesca
CC: No Gelmini SciPol Bologna, Assemblea Antifascista Permanente, Collettivo SPA, Circolo Anarchico Camillo Berneri
題目: [Nogelminispbo] Migranti, o del quinto Stato
http://www.connessioniprecarie.org/2013/11/07/migranti-o-del-quinto-stato/

Migranti, o del quinto Stato

Secondo l’International Migration Outlook dell’OCSE la migrazione e la
vita in uno o più paesi diversi da quello di provenienza sono oggi la
condizione più «naturale» di questo mondo globale. 232 milioni di persone
sono in questo momento migranti internazionali, un numero che dagli anni
novanta è quasi raddoppiato. La metà di questi migranti sono donne con
ripercussioni di non poco conto sulle strutture sociali, mentre un
“immigrato” su due pensa di dover affrontare una nuova migrazione. Le
statistiche ratificano una rilevanza globale delle migrazioni che va oltre
i numeri: il movimento è la categoria politica e sociale del presente
globale. C’è chi pensa che questa condizione sia segnata da una
subalternità di base. Salta invece agli occhi che questi movimenti non
sono mai stati subalterni, la loro potenza non ha mai avuto bisogno dei
cordoni per manifestarsi; le migranti e i migranti, che hanno attraversato
gli Stati e i confini sociali, se la portano dietro perché sovvertono
continuamente vecchie e nuove gerarchie globali.

Ma come la statistica legge questa dinamica? Essa rileva un cambiamento
interno ai movimenti globali. Ora più che mai la migrazione riflette
tendenze diverse. Le traiettorie non sono più solo quelle che dal Sud
vanno a Nord. Il Sud del mondo è meta di migrazione quanto il Nord e
questo soprattutto per quanto riguarda le migrazioni asiatiche. Mentre gli
Stati Uniti restano la destinazione più frequente, l’Europa e l’Asia
ospitano oggi due terzi delle migrazioni internazionali sul piano mondiale
e l’Asia diventa il secondo continente d’origine delle migrazioni. Non ci
sono più paesi di origine e paesi di destinazione. La maggior parte dei
paesi è oggi paese di partenza, di transito e di arrivo per le migrazioni
anche se esse sono maggiormente concentrate in una decina di paesi. Dal
2011 le migrazioni, dopo una diminuzione relativa dovuta alla crisi, esse
sono tornate a crescere soprattutto in Europa dove è salito anche il tasso
di disoccupazione in modo particolare per i migranti. Anche il numero dei
richiedenti asilo è in crescita.

E quindi? Si sa, la statistica non è una scienza adatta a misurare la
dinamica politica del movimento. Le migrazioni, infatti, non si
esauriscono in un fatto numerico, in una serie di percorsi che si
incrociano sulla mappa dei processi economici. Tuttavia una cosa la
statistica la vede, e molto meglio dei governi, la migrazione è un fattore
di questi processi, un motore delle nuove rotte dello «sviluppo». La
parola d’ordine delle agenzie internazionali è oggi «migrazione e
sviluppo»: il carattere globale delle migrazioni viene così riconosciuto e
misurato anche come fattore di «sviluppo». Senza di esse non è più
possibile pensare il sistema. Mentre prima si guardava alle migrazioni
come problema, dovuto alla mancanza di «sviluppo» nei paesi di provenienza
e causa di conflitti economici nei paesi di arrivo, oggi la migrazione,
ridotta a movimenti della forza lavoro, diventa uno dei fattori principali
delle dinamiche dello sviluppo globale. Le politiche statali e le tendenze
xenofobe alimentate anche dalla crisi economica non vanno banalizzate, ma
esse fungono ormai da corollario alle direttive e alle indicazioni di
agenzie o istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea. Le migrazioni
sono oggi al tempo stesso una sfida e una risorsa per l’ordine globale: se
i migranti sono oggi un’opportunità questa va sfruttata al meglio.

Le migrazioni vanno regolate perché sono al servizio dello sviluppo. Ma
quale sviluppo e di chi? Le agenzie internazionali non possono che
invitare a una regolazione dei flussi migratori, dove i migranti sono
osservati principalmente come agenti economici per lo sviluppo, l’accesso
alle risorse e la riduzione della povertà, e contemporaneamente come
potenziale pericolo che va regolato, incanalato, confinato. Confinato
sulla base di cosa? Non più solo delle frontiere nazionali, ma di quelle
mobili dei mercati.
Mentre si riconosce che le migrazioni hanno contribuito al 40% della
crescita totale della popolazione nell’area dell’OCSE per il periodo
2001-2011 vengono dunque diminuiti i fondi destinati all’integrazione,
all’assistenza, alla ricerca del lavoro e alla disoccupazione. La maggior
parte dei fondi restano, invece, i fondi destinati alle strutture di
«accoglienza» come i centri di detenzione, il che la dice lunga sullo
”sviluppo” a cui le statistiche fanno riferimento. Mentre le agenzie
internazionali sottolineano l’importanza strategica delle migrazioni, si
prefiggono contemporaneamente di rafforzare i controlli e le norme che ne
definiscono i termini. Allo stesso tempo, gli Stati continuano a percepire
la migrazione sia come un’emergenza temporanea, sia come un laboratorio
per la ridefinizione delle gerarchie sociali. La retorica sul
miglioramento della qualità della vita dei migranti nei documenti
internazionali si scontra così con le politiche che questi documenti
perseguono. Per fare un esempio, in Italia le spese per l’assistenza
sociale destinate ai migranti sono andate diminuendo in modo significativo
negli ultimi anni, ma anche i fondi europei sembrano essersi ridotti
proprio mentre si parla di un approccio ”più globale” all’immigrazione, di
protezione e di rispetto dei diritti. Sempre in Italia nell’ultimo anno il
salario medio di un migrante è stato di 346 euro più basso di quello degli
altri lavoratori.

Secondo i report europei ciò è dovuto all’assenza di un piano di
regolazione dei flussi che funzioni nei singoli territori nazionali e tra
di essi. La statistica, com’è evidente, non è una scienza ingenua e di suo
non misura la dimensione politica dei movimenti globali e, per quanto si
sforzi, neppure quella globale. Dietro all’apparente intento di descrivere
in termini neutrali un oggetto, la statistica lo costruisce rendendolo
malleabile: decide come e cosa misurare e come e cosa interpretare,
ridefinendo così le necessità, costruisce parametri e perciò influenza la
dimensione politica delle migrazioni. Mentre parla di approccio
umanitario, di sguardo globale al fenomeno migratorio, di integrazione e
di sviluppo, di dimensione sociale e non solo economica della migrazione,
è il movimento della forza lavoro che si prefigge di descrivere
tecnicamente e di regolare politicamente, tracciando corridoi dove
riordinare e contenere la portata dei movimenti delle e dei migranti. In
questo modo, la statistica serve letteralmente alle agenzie internazionali
per depoliticizzare i movimenti globali all’interno di esigenze politiche
precise. Che si parli dei migranti come problema o come opportunità, come
emergenza o come fattore strategico per il futuro dell’Europa che va
regolato e governato con un approccio umanitario e securitario, ora più
che mai complementari, quello che sembra migliorare non è affatto il
tenore di vita dei migranti su cui i documenti internazionali insistono,
ma è l’organizzazione dello sfruttamento della forza lavoro da parte dei
governi e dei mercati mondiali, mentre da tutte le parti resta una
sostanziale incapacità di guardare ai migranti, e alle loro lotte, come
protagonisti di un cambiamento politico di portata globale.

Il fatto che i migranti siano descritti oggi come i nuovi attori globali
rappresenta perciò l’indicazione di un terreno di battaglia sul quale si
stanno ridefinendo equilibri generali. Contrariamente al sogno espresso
dalle statistiche e dai discorsi delle agenzie internazionali, tuttavia, i
migranti sono ben lontani dall’essere un oggetto malleabile just-in-time.
Sono, al contrario, protagonisti diretti di questo scontro. Se pensiamo
che il numero di migranti è in continua crescita, che nella popolazione
degli Stati sono inclusi anche i migranti e che le statistiche non contano
gli irregolari, si potrebbe dire che i migranti sono oggi il quinto Stato
mondiale. Quello che i numeri non dicono è che questo Stato globale senza
cittadinanza mette in crisi la cittadinanza di tutti gli Stati, che i
migranti la mettono sotto attacco da ogni direzione: a questi numeri si
sommano, infatti, anche le centinaia di milioni di migranti cosiddetti
“interni”. Gli uni e gli altri sono fattori di sviluppo e figure centrali
della crisi dello Stato e della cittadinanza, protagonisti della
ridefinizione regolativa del lavoro e della sua svalorizzazione politica
e, nello stesso tempo, soggetti politici inassimilabili, non ”integrabili”
immediatamente nelle dinamiche di svalorizzazione politica che il lavoro
oggi impone, perché al centro delle lotte contro le nuove gerarchie del
capitale.

Dietro ai numeri si nasconde così il fatto che i migranti sono un problema
per l’ordine politico che ne vorrebbe organizzare i movimenti secondo
queste gerarchie. Lungi dall’aver segnato la fine dello Stato, la
globalizzazione ne ha ridefinito ruolo e funzioni: rendendo più instabili
i confini nazionali, ha reso i confini stessi degli strumenti più dinamici
e rilevanti. Mentre i migranti conducono la loro lotta quotidiana contro
questo sistema globale che cerca di contenere, indirizzare e valorizzare i
loro movimenti, da più parti si preferisce invece ignorare la sfida
politica totale che essi pongono dentro e fuori le lotte, attraversando e
scomponendo i confini e gli spazi. Cambia poco se l’esito di questa
negazione, spesso infastidita, è una ricaduta nell’ottica inferiorizzante
e paternalista dell’umanitarismo, oppure la celebrazione di un
proletariato meticcio che annulla ogni differenza. La sovversione e le
contraddizioni di questo movimento globale non si lasciano rappresentare
dalle istantanee. La rassicurante mistica della metropoli meticcia, nella
quale miracolosamente si conciliano tutte le antitesi, può certamente
servire a riconoscersi in singoli comportamenti e persino a mettersi al
collo la medaglia del vero antagonismo. Serve molto meno se si vuole
cogliere la sfida di processi organizzativi che non siano la
riproposizione del già sentito, del già visto, del già perso.