[Forumlucca] Per non dimenticare:40° anniversario del colpo …

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Autor: Alberto Peretti
Data:  
Para: forum lucca
Assunto: [Forumlucca] Per non dimenticare:40° anniversario del colpo di stato in Cile
L'11 settembre 1973 il generale fascista Pinochet con la decisiva regia
degli Stati Uniti rovesciò con la violenza un governo democraticamente
eletto. L'intervista (vedi di seguito) rilasciata al manifesto dal noto
scrittore cileno Luis Sepulveda (all'epoca faceva parte della guardia del
corpo di Allende) ricostruisce i fatti ed analizza la realtà cilena negli
anni a seguire, evidenziando come le politiche impostate dal regime fascista
condizionino ancor oggi pesantemente la politica e l'economia del Cile
Ciao
alberto

Il manifesto 5-9-13
L'11 SETTEMBRE 1973 IN CILE DI LUIS SEPÚLVEDA
Un giorno DI FEROCE TRISTEZZA
INTERVISTA - Filippo Fiorini
SANTIAGO DEL CILE
40 anni fa, lo scrittore era nelle forze di sicurezza socialiste che
difesero Santiago dal golpe di Pinochet. «Quel giorno la mia gioventù finì
violentemente. E da allora il Cile non è più uscito dalla dittatura»
Quarant'anni fa iniziò la dittatura militare in Cile. Possiamo dire che oggi
tutto quello che prese il potere in quel momento è stato superato, o ci sono
ancora dei resti del sistema nei posti di comando del paese e della società
civile?
Nessuno che conosca la storia può sostenere che tutto ciò sia stato
superato. A partire dall'11 settembre '73 in Cile è stata installata una
feroce dittatura che ha eliminato qualsiasi tradizione democratica. Per
quanto imperfetta, la democrazia cilena aveva pur sempre distinto il paese
come un esempio in tutto il continente americano. Inoltre, è stato imposto
un modello economico ben preciso. Il Cile è stato il primo luogo in cui sono
state messe in pratica le politiche neo-liberali teorizzate da Friedman e
dalla Scuola di Chicago. Un esperimento che per poter funzionare aveva
bisogno di una nazione governata da un despota, senza alcuna opposizione,
senza partiti politici, senza sindacati, senza organizzazioni sociali e con
un sistema dei media completamente asservito alla dittatura e al suo
programma economico. Uno stato si governa attraverso l'ordinamento dettato
dalla propria Costituzione e oggi, a quarant'anni di distanza dal golpe, il
Cile ha ancora la stessa Costituzione che approvò la dittatura. Una carta
che ha permesso l'esistenza non solo di una tirannia politica, ma anche di
una tirannia economica, che emargina la maggioranza delle persone, che
privatizza la sanità e l'educazione, che regala le risorse nazionali
all'avidità delle multinazionali e lo fa impunemente, al di sopra di
qualsiasi meccanismo di controllo statale, sia sul bilancio delle risorse,
che sul bilancio fiscale. Ogni paese cambia, perché il mondo è in movimento,
ma in Cile il movimento è stato circolare, ritornando inevitabilmente alla
legalità imposta dalla dittatura.

I media cileni e diverse personalità pubbliche nazionali hanno usato
frequentemente nelle ultime settimane la parola «perdono». Crede che le
vittime della dittatura di Pinochet siano pronte a perdonare? La società è
arrivata a una riconciliazione?
Il perdono è una categoria morale, si perdona o meno solamente dopo che il
colpevole ha chiesto scusa. In Cile sono stati commessi crimini di stato, in
nome dello stato, uno stato che però non ha mai chiesto scusa a nessuno,
tanto meno alle sue vittime. Neanche chi fu direttamente responsabile,
ovvero i militari e i civili che misero in piedi la dittatura, ha mai
chiesto scusa a chicchessia. Stiamo parlando di più di 3mila desaparecidos e
i loro famigliari, delle centinaia di migliaia di persone torturate, delle
migliaia che furono obbligate all'esilio, dei milioni che rimasero esclusi
dal sistema quando il disegno economico della dittatura ha liquidato
l'industria nazionale e quando il «libero mercato» ha sostituito tutto il
sistema produttivo con le merci importate. Per nulla di tutto questo si è
mai chiesto scusa. La società cilena non si è riconciliata perché solo una
società malata potrebbe riappacificarsi con coloro che eliminarono un modo
di essere, di vivere e avere un progetto di vita.

Qualche tempo fa, lei ha discusso con lo storico conservatore Sergio Romano,
perché questi aveva parlato di «colpa collettiva» riguardo alla dittatura
cilena. Crede che un governo dispotico come quello di Pinochet avrebbe
potuto sostenersi al potere solo attraverso il terrore, o aveva anche
bisogno dell'appoggio di una parte importante della cittadinanza?
Questa è una visione semplicistica. Non si è trattato semplicemente della
dittatura contro i cileni. Pinochet poteva contare sul terrore come elemento
di dissuasione e sull'appoggio della borghesia conservatrice, che era stata
danneggiata dal governo di Allende. Tuttavia il favore di questi settori si
attenuò molto quando gli stessi caddero in disgrazia e furono sostituiti nel
loro ruolo da un'altra classe borghese, che non era legata al sistema
produttivo, ma a quello finanziario, nonché da un sistema dei media che
senza dubbio ha generato consenso in un ceto medio praticamente estinto. La
base di sostegno su cui ha potuto contare la dittatura è stata
principalmente il successo del suo sistema di propaganda, in cui tutti i
mezzi di comunicazione erano prostrati al suo servizio in modo
incondizionato. Fu un trionfo ideologico per la dittatura, ottenuto
soprattutto grazie alla mancanza di un progetto politico d'opposizione.
Durante i 16 anni del governo de facto, l'opposizione poteva solo resistere,
fosse con una resistenza armata o aspettando che si aprissero gli spazi per
la partecipazione politica. Tuttavia, checché ne dica il revisionismo
storico in stile Romano, oppure come si sostiene nel film «No», dove si
insinua che la fine della dittatura non è arrivata grazie alla
partecipazione della maggioranza all'opera della resistenza ma con un
semplice trucco di marketing, i cileni che si sono opposti a Pinochet, anche
senza poter esprimere la loro opinione, sono stati molti di più di quelli
che lo appoggiavano.

Il recente golpe militare in Egitto è stato paragonato al golpe dell'11
settembre '73 e un anonimo commentatore del «Wall Street Journal» ha
proposto come soluzione utile alla stabilità di quel paese nordafricano,
l'arrivo di una figura analoga a quello che Pinochet è stato per il Cile,
attribuendo a quest'ultimo successi in campo economico e il merito di aver
condotto la nazione verso la democrazia. Che cosa ne pensa?
I contabili di Wall Street sono soliti proporre governi dal pugno di ferro.
L'analista che lo ha fatto è semplicemente un imbecille, poiché sostenere
che Pinochet abbia condotto il paese alla democrazia equivale a ignorare che
in realtà il dittatore ha interrotto una tradizione democratica lunga più di
un secolo. Se per questo analista è un fatto positivo che il Cile oggi sia
uno dei Paesi in cui la forbice tra ricchi e poveri è ogni giorno più alta,
che il 13% della popolazione abbia un reddito equivalente a tutto il Pil
nazionale, e che lo Stato abbia completamente rinunciato al suo ruolo di
tutela e garanzia del patrimonio nazionale in ogni senso, beh, allora è
naturale che confonda l'Egitto col Cile.

Ci può regalare un breve ricordo di un episodio che ha vissuto l'11
settembre del '73 e che crede possa rappresentare il dramma degli anni che
seguirono?
Fu un giorno di feroce tristezza. Avevo 23 anni ed ero uno dei responsabili
della sicurezza nella principale centrale d'acqua potabile di Santiago,
quella che riforniva d'acqua tutta la città. Avevamo già affrontato più
volte l'odio dell'ultradestra, che in diverse occasioni aveva tentato di
avvelenare l'acqua o fare esplodere l'installazione. A difendere la centrale
eravamo cinque militanti socialisti, armati di qualche pistola, e gli
operai. Lo stesso 11 di settembre abbiamo respinto diversi attacchi e
abbiamo perfino portato in un tribunale i contenitori degli agenti tossici
di fabbricazione statunitense. La mattina dell'11 abbiamo ricevuto le prime
informazioni e l'ordine di difendere i luoghi produttivi, di resistere in
ogni posto di lavoro, ma quando i golpisti hanno zittito l'ultima radio
lealista, Radio Magallanes, io e un altro tra quelli che stavamo difendendo
l'acquedotto e che facevamo parte del sistema di sicurezza socialista,
abbiamo deciso di dirigerci verso il centro della città. Entrambi eravamo
stati membri della scorta personale di Allende, il Gap (Gruppo degli Amici
Personali, ndr), e volevamo stare vicino al presidente e ai nostri compagni.
Così, partendo da Puente Alto (circa 30 km a sud di Santiago), verso La
Moneda, abbiamo attraversato diversi complessi industriali, dove gli operai
stavano resistendo, con armi leggere e per lo più elementari, ma pur sempre
resistendo. Nel bel mezzo di una sparatoria siamo arrivati fino all'Ospedale
Barros Luco, il più importante della zona sud di Santiago, dove sorgono i
principali quartieri operai. I soldati dell'aviazione militare e i Baschi
Neri dell'esercito avevano deciso di realizzare un atto dimostrativo
all'ospedale e misero al muro medici, infermiere e pazienti. Un gruppo del
Mir (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) affrontava i soldati, poi si
unirono anche diversi militanti della Gioventù Comunista (Juventudes
Comunistas) e circa 30 socialisti. Riuscimmo a respingere i militari ma
dovemmo anche constatare con orrore che erano riusciti a fucilare 32
persone. Fu un giorno incredibilmente lungo, nonostante la dittatura avesse
imposto il coprifuoco alle 5 del pomeriggio. Durante la notte, mentre
passavo in rassegna le poche armi in nostro possesso, mi resi conto che quel
giorno la mia gioventù era finita violentemente. Incominciava una vita da
adulto e militante della Resistenza.